L’Europa non è (più) “naturalmente” popolare. È questo il dato di cui occorre prendere atto per apprezzare la gravità della situazione, che cosa è in gioco alle prossime elezioni europee, dove abbiamo sbagliato e in che modo possiamo partire per risalire la corrente. Diciamocelo con chiarezza: lo squilibrio dell’Unione attuale è frutto in buona parte del suo successo, la realizzazione del mercato unico, che era il compito assegnato innanzitutto alle istituzioni comunitarie dal Trattato di Maastricht. Per quanto paradossale possa apparire, è proprio il conseguimento di questo storico traguardo – dal quale il consumatore europeo ha tratto più benefici che svantaggi – ad aver progressivamente messo in difficoltà il cittadino europeo. Se per il primo le opportunità di acquisto a prezzi vantaggiosi soprattutto di beni non durevoli e semidurevoli sono sostanzialmente cresciute, per il secondo la tutela e l’implementazione dei diritti sociali sono progressivamente divenute più difficili.
Una parte considerevole della critica nei confronti dell’Unione, oggi, ha per tema la sua incapacità di proteggere (e di aver protetto) le persone più colpite dalle conseguenze indesiderate della globalizzazione. D’altronde, la creazione del mercato unico ha rappresentato di per sé non certamente un fattore di moderazione, bensì uno straordinario acceleratore della globalizzazione economica e finanziaria all’interno del continente europeo. È pur vero che la tutela dei meccanismi di welfare – così decisivi peraltro per le politiche di inclusione delle “classi subalterne” all’interno dello Stato liberale e quindi per il rafforzamento popolare della sua legittimazione – non spettava alle istituzioni comunitarie, ma era semmai competenza dei governi degli Stati membri sopportarne l’onere (e trarne il vantaggio, in termini di creazione del consenso). È però difficile contestare come la vera e propria egemonia culturale ottenuta dall’interpretazione neoliberale dell’economia di mercato, sposata con l’ossessione rigorista così presente nell’ordoliberalismo di matrice austro-tedesca, abbia finito con l’erodere non tanto e non solo la legittimità dello Stato democratico-sociale, ma persino la sostenibilità della sua logica. Al di là dei buoni propositi e delle ricorrenti dichiarazioni, dovremmo chiederci quanto non suonino oggi beffardi i cosiddetti “obiettivi di Lisbona”, che parlavano di una crescita equa, sostenibile, e indirizzata alla riduzione delle diseguaglianze dentro e tra gli Stati membri.
Lisbona appunto. Ed è qui che occorre introdurre il secondo tema delle difficoltà europee, ovvero quello politico-istituzionale. Con Lisbona assistiamo al sorpasso, in termini di leadership, del Consiglio dei capi di Stato e di governo (il Consiglio europeo) nei confronti della Commissione: ovvero allo spostamento del baricentro politico-istituzionale dalla Commissione al Consiglio. Va ricordato che quel Trattato rappresentò la classica “pezza” messa a tampone di un “buco”, di uno strappo, se vogliamo essere più precisi: lo strappo costituito dalla bocciatura, con il referendum del 2005, del progetto di Costituzione europea da parte della Francia, il cui elettorato, si ricorderà, era preoccupato proprio del fatto che un’ulteriore concentrazione di potere a Bruxelles finisse con il minare la sovranità nazionale innanzitutto sui temi del welfare. E queste preoccupazioni erano condivise anche da esponenti progressisti di spicco e tutt’altro che radicali come Laurent Fabius. Quando ci stupiamo della comparsa del sovranismo, dovremmo piuttosto ricordarci di come la risposta di fronte a quei timori (oltretutto fondati) sia consistita in buona sostanza in una gigantesca manovra di aggiramento del problema.
Non è certo casuale la circostanza che sul finire del 2018 la deflagrazione del movimento dei “gilet gialli” si sia verificata proprio in Francia e di fronte alle scelte di un presidente, Emmanuel Macron, che come pochi altri sintetizza il distacco e il disinteresse rispetto alle paure del “cittadino” e una visione ottusamente elitaria del progetto di unificazione europea. L’ascesa del Consiglio europeo, ed è il terzo punto che voglio sollevare, ha poi reintrodotto di fatto (sia pur praticata con altri strumenti) la politica di potenza nel Vecchio continente e, più specificatamente, all’interno dell’Unione europea. Il tema delle sovranità, così esplosivo nella nostra storia comune, è tornato a giocare un ruolo decisivo, se solo si considera che, mentre all’interno del Parlamento i voti dei singoli parlamentari si contano a prescindere dall’appartenenza a questo o quello Stato membro (e peraltro si aggregano anche su logiche partitiche), nel Consiglio europeo il voto di ogni Stato si “pesa”, inevitabilmente, e dipende dal suo rango internazionale, per determinare il quale la dimensione economico-finanziaria svolge il ruolo un tempo prevalentemente espresso da quella politico-militare. Le logiche di coalizione e alleanza tra gli Stati membri, che comunque non erano venute mai completamente meno, ora emergono alla luce del sole, trascinando con loro anche la logica dei blocchi (di veto, soprattutto) nel Parlamento e di egemonia politica all’interno della Commissione.
È in questo modo che si realizza quella saldatura così cruciale tra la legittima contestazione della deriva ipermercatistica che ha assunto la globalizzazione negli ultimi vent’anni, la rabbia di fronte alla sordità delle élite (comprese quelle progressiste) rispetto ai temi del disagio sociale e la rivendicazione di un ritorno antistorico alla sovranità nei confronti tanto dei “super poteri europei” quanto delle maggiori potenze all’interno dell’Unione. Ed è ovvio che la Germania, per il suo ruolo di veto player su ogni questione effettivamente rilevante all’interno dell’agenda europea, per la sua ossessione rigorista e per il “doppiopesismo” che – come chiunque altro ma con molta più efficacia di chiunque altro, data la sua rilevanza – ha fatto valere nelle decisioni europee ogni qualvolta fossero in gioco gli interessi nazionali tedeschi, sia finita nel mirino di molte opinioni pubbliche dell’Europa più colpita dalla crisi del debito sovrano.
Come è possibile uscire da una simile situazione? La premessa è che non sarà né agevole né rapido e che il risultato non è per nulla scontato. Proprio quest’ultima considerazione, che potremmo perdere l’Unione e contemporaneamente molti degli spazi di libertà all’interno dei singoli Stati membri, deve indurci a una profusione di impegno assoluta. Perché se non c’è dubbio che le politiche tecnocratiche sperimentate in questi anni abbiano concorso a provocare distacco e disaffezione nei confronti del progetto europeo, è altrettanto sotto gli occhi di tutti come le reazioni sovraniste stiano approfittando della rabbia contro queste ultime per impostare agende apertamente illiberali. Detto in maniera forte e chiara: l’aver aggirato la questione della conquista del consenso (si ripensi al referendum francese e ai suoi esiti di lungo periodo) ha compresso effettivamente gli spazi della competizione e della partecipazione politica e ha rappresentato un’oggettiva riduzione tanto del dibattito pubblico quanto della capacità deliberativa dei Parlamenti (nazionali ed europeo), oltre ad aver prodotto una crescente e massiccia alienazione di sempre più consistenti porzioni di elettorato rispetto alle istituzioni della democrazia rappresentativa. Ora però, questo fenomeno è cavalcato da chi propone forme di democrazia plebiscitaria e illiberale come soluzione al problema. Rischiamo così che, alla diminuzione della qualità del processo democratico generato dal neoplatonismo economicista, si sommi quello causato dal populismo illiberale.
Questo fenomeno è particolarmente acuto in Italia dove, non a caso, la fusione tra populismo ribellista, anti-mercato e nostalgico del ruolo dell’intervento statale in economia espresso dal Movimento 5 Stelle e quello (pseudo)nazionalista della Lega (ex Nord) è avvenuta a freddo; cioè non prima del voto, ma solo dopo: condizione necessaria per poter saldare promesse elettorali e visioni politiche inconciliabili, accrocchiate solo nel nome di una irrefrenabile ambizione di potere, di leaderismo e provvidenzialismo e di alcuni (dis)valori cementanti. Tra i quali ultimi spicca evidentemente la polemica nei confronti degli immigrati.
Proprio a partire da qui, e a costo di ribadire un’ovvietà, ciò che occorre considerare è che la superiorità dei valori nei quali noi crediamo (a iniziare dal disprezzo per qualunque forma di razzismo più o meno mascherato) non è sufficiente non solo e non tanto per vincere una tornata elettorale, ma ancor meno perché essi si “impongano” naturalmente nel dibattito pubblico e nella società. La necessità di (ri)conquistare il consenso è determinante a prescindere dalla bontà dei valori che si professano. Dobbiamo essere consapevoli che in questi vent’anni il pensiero progressista ha perso la sua egemonia culturale nei confronti sia del neoliberalismo conservatore sia del populismo. Ed è innanzitutto qui che si giocherà la partita della sopravvivenza dell’Unione e della stessa concezione autenticamente liberal delle nostre democrazie. Un’Europa che voglia riconquistare i cuori e le menti dei suoi cittadini non potrà farlo enfatizzando solamente il rischio di derive autoritarie di impianto populista, dimenticando che negli anni precedenti la progressiva “cattura del regolatore” da parte degli interessi più concentrati (e quindi forti) ha costituito un problema altrettanto grave. Si tratta di una battaglia da combattere su due fronti, riconoscendo che in questi anni i progressisti in tutta Europa (come anche negli Stati Uniti) non sono stati capaci di comprendere il disagio sociale, di rappresentarlo e di offrirgli risposte credibili. Ecco perché i “patti repubblicani”, da Varoufakis a Macron (a prescindere dal mesto e drammatico epilogo delle fortune politiche del secondo), non servono a nulla. Espresso in termini molto semplici, quasi sloganistici, se è vero che le nostre democrazie corrono il rischio di perdere i loro tratti liberali, è altrettanto vero che i nostri sistemi liberali stavano già perdendo i loro tratti democratici. E o recuperiamo sui due fronti contemporaneamente, attraverso un posizionamento e un messaggio politico chiaramente e distintamente progressista, oppure perderemo.
Sta quindi innanzitutto ai progressisti, intendendo il termine nella maniera più estensiva possibile ma senza arrivare a svuotarne il significato, lottare (nessun altro concetto mi sembra altrettanto adeguato) per riportare al centro dell’Europa tanto la riconquista di tutti quei temi che sono stati sottratti al dibattito pubblico e allo scrutinio popolare per comodità o per incapacità – illudendosi che tutto ciò non avrebbe avuto effetti sulla tenuta delle democrazie rappresentative – quanto la difesa della natura liberale che anche la più progressiva delle democrazie deve saper mantenere, pena una sua deriva autoritaria. Se dovessi esprimere la parola chiave di questo equilibrio la definirei “equità” (fairness). Solo attraverso il perseguimento di questa equità, sarà possibile riconquistare la fiducia (trust) dei cittadini europei e dei singoli Stati membri nei confronti delle istituzioni democratiche e sconfiggere quella pericolosa fascinazione nei confronti di modelli autoritari di organizzazione politica che si sta nuovamente diffondendo in tanti paesi europei, anche grazie al sapiente uso distorsivo della rete e del denaro da parte di soggetti al di fuori dell’Unione.
Lottare per la riconquista dell’egemonia culturale e per rimettere al centro del dibattito pubblico e politico determinati valori non significa affatto disinteressarsi della sempre necessaria ricollocazione tra interessi e valori, né dei temi scomodi attualmente sollevati dai nemici della democrazia rappresentativa, liberale, progressista e inclusiva. Valgano per tutti i casi dell’immigrazione e della sovranità. L’errore fin qui fatto è stato quello di ripiegare su un approccio determinista, rassegnato e sostanzialmente impotente dal punto di vista politico (“l’immigrazione non si può fermare”, “la sovranità degli Stati è un residuo del passato”, “la globalizzazione è inarrestabile”, “i confini sono obsoleti”) invece di prendere atto delle conseguenze indesiderate di fenomeni pur complessi e poderosi, proponendosi però lo scopo di provare comunque a governarli. Perché la sempre crescente difficoltà di dare rappresentanza agli interessi diffusi (si pensi al più diffuso di tutti, la salvezza ecologica del pianeta) non può costituire un’opzione per la rinuncia alla politica, la quale, peraltro, ha spazio di legittimità solo se sa proporre una visione del futuro e un’ambizione di poterlo influenzare.
D’altra parte abbiamo visto proprio nel caso della recente campagna elettorale italiana come di fronte alla rinuncia a formulare proposte ambiziose ma credibili di governo di quei medesimi fenomeni si possano spalancare praterie per le più cialtronesche, pirotecniche e irrealizzabili promesse elettoralistiche: con risultati disastrosi sul piano del rilancio dell’economia, della credibilità internazionale del paese e della stessa tenuta della democrazia interna. È quindi un vero e proprio dovere, per i progressisti europei, lottare per ridare rappresentanza e speranza alla vasta maggioranza dei cittadini dell’Unione, che non possono essere né abbandonati alla deriva oligarchica del decisionismo tecnocratico né a quella rancorosa del populismo illiberale. Anche la sfida della riarticolazione della sovranità multilivello dell’Unione va accettata e giocata fino in fondo. Da un lato riacquisendo la consapevolezza che l’appartenenza nazionale continua a rappresentare un elemento di identificazione e declinazione della cittadinanza democratica destinato a persistere. Dall’altro richiamando la necessaria relazione tra la democrazia rappresentativa e la cittadinanza, visto che, prima dell’affermarsi del costituzionalismo, in tutta Europa non c’era un solo cittadino ma milioni di sudditi senza diritti e senza voce. Infine, in termini pragmatici, ma non solo, lo spazio rappresentato dalle metropoli offre un’opportunità per costituire nuclei di buon governo e di tenuta della civiltà dei valori democratici, che possono costituire vere e proprie roccaforti da cui ripartire, come credo il caso milanese bene attesti.