Uno spettro si aggira per l’Europa: il fascismo

Di Antonio Panzeri Mercoledì 14 Febbraio 2018 12:04 Stampa


Il patto civile che per più di sessanta anni ha consentito all’Occidente e all’Europa di governare le sue crisi sta andando in frantumi sotto la spinta disgregatrice dei populismi, da Trump alla Brexit, e la democrazia come sistema non è più “ovvia” come lo era stata per anni. Del resto, con la scomparsa di molti protagonisti che hanno vissuto in prima persona gli effetti devastanti del fascismo e della guerra, la tentazione di dimenticare il passato è diventata più forte e più difficile da contrastare.

Mentre fino a poco tempo fa il negazionismo e la rivalutazione del periodo storico che vide l’ascesa del mostro nazista al potere venivano rifiutati con vigore, oggi sembra prevalere da più parti la voglia di uniformare le ideologie che si sono contrapposte, e di ridurre la portata di un conflitto che fu invece epocale. Tutto questo avviene con il contributo decisivo di forze politiche populiste che calcano la scena in tutta Europa e che in molti casi dichiarano superate le vecchie distinzioni tra destra e sinistra, appellandosi a un generico “interesse dei cittadini”. A dire il vero la storia del populismo è innestata sulla storia della democrazia.

La tendenza a identificare il popolo come una entità organica omogenea è il motore che muove questa potente interpretazione della sovranità come sovranità di una parte maggioritaria contro l’altra, per umiliare le opposizioni e soprattutto le minoranze culturali. Le democrazie del dopoguerra hanno neutralizzato questa tendenza olistica articolando la cittadinanza nei partiti politici, e il dualismo destra/sinistra è stato il baluardo di protezione delle battaglie politiche dalle pulsioni identitarie, nazionaliste e fasciste. La fine di questa distinzione è oggi il problema: essa è stata favorita dalla sinistra stessa che, nel solco del liberismo, ha tollerato la possibilità e forse persino sostenuto il desiderio di andare oltre le divisioni destra/sinistra. Una iattura che ha preparato il terreno alla destra.

La narrazione di destra individua sempre un “nemico” da incolpare che in tanti casi è esterno (pensiamo ai migranti) oppure viene considerato un “diverso” anche quando vive con noi. I fascismi aggiungono a una visione della società profondamente di destra anche l’idea che la nazione sia di per sé più importante di ogni singola persona o gruppo, di ogni singola libertà o legge. In questo frame ideologico la sicurezza prevale sui diritti, l’uso della forza viene sdoganato, la nostalgia diventa un culto nazionale.

La scomparsa pressoché totale della dialettica tra destra e sinistra, insieme a una data storica del secolo scorso, rappresentata dal 1989, ha lasciato l’Occidente orfano dei suoi monumentali antagonismi storici e senza risposte adeguate di fronte ai nuovi problemi: la crisi economica, le diseguaglianze, l’anonimato del villaggio globale, il disgregarsi della società, la rivoluzione digitale, il terrorismo islamico e i suoi califfati che hanno messo i loro avamposti nelle città occidentali, gli anfratti oscuri della globalizzazione e quell’enigmatico carico di disagi esistenziali che appesantisce l’uomo contemporaneo e che ha a che fare, infine, con la ricerca del significato dell’esistenza.

In cerca di risposte, i cittadini si sono rivolti a teatranti, capipopolo, imbonitori, comici, uomini forti, leader carismatici o a chiunque mettesse in discussione, in forma teorica o per puro istinto, le premesse liberali del discorso politico. I movimenti populisti e antisistema rappresentano soltanto i sintomi odierni di un malessere per il quale la vecchia idea liberale non ha la cura.

UNO SGUARDO ALL’EUROPA

L’11 novembre 2017 oltre 60.000 persone si sono ritrovate a Varsavia per il giorno dell’Indipendenza, una ricorrenza che dalla fine degli anni Duemila è divenuta l’occasione per manifestazioni nazionalistiche. Dalla folla sono spuntati manifesti separatisti e antisemiti, contro l’Islam e contro i diritti LGBT. La grande reunion a cui si è contrapposta una sparuta contromanifestazione di segno opposto, sicuramente non ha stupito chi segue da tempo il consolidarsi di una destra estrema in Europa centrale e orientale: già più di venti anni fa, Dahrendorf con una tesi volutamente unilaterale e pessimista descriveva il cosiddetto nazionalismo dell’Europa centrale e orientale e il suo contagio nell’Europa occidentale come una degenerazione tribale dell’idea di autodeterminazione, come negazione alla radice dei diritti civili. E fra le cause, la radice del nuovo tribalismo, la fuga, o la rimozione dalle crescenti difficoltà di governare le trasformazioni di una economia complessa, interdipendente, ma anche l’espressione paradossale del tentativo di colmare il gap di identità, connesso all’emergenza di grandi e nuovi bisogni non soddisfatti dalle moderne istituzioni occidentali.

L’assoluta mancanza poi di una politica europea tesa ad approfondire il processo di integrazione dei paesi entrati nell’Unione europea ha fatto il resto nel favorire questa fuga. I partiti e i movimenti anti europeisti e nazionalisti si sono dunque moltiplicati e rafforzati negli ultimi anni e sono diffusi praticamente in ogni paese dell’UE. Diritto e giustizia attualmente governa la Polonia: questa forza politica mostra tratti preoccupanti, sotto il profilo dei rapporti con l’UE e sul terreno dei diritti umani. Dal 2015, il governo polacco ha portato avanti con successo una azione legislativa per ridurre l’indipendenza dei media e della magistratura, al punto che qualche voce si è levata per parlare di fine dello Stato di diritto. Non stupisce che proprio Varsavia sia stata scelta per ospitare la manifestazione che ha mostrato agli occhi di tutti la forza numerica della destra europea.

Nella coalizione di governo austriaca siede il Freiheitliche Partei Österreichs (Partito della Libertà), che alle ultime elezioni legislative ha conquistato il 26% dei consensi e che ha ottenuto importanti cariche di governo. L’attuale esecutivo di Vienna è l’unico dell’Europa occidentale formato insieme alla destra estrema. Un vero segnale di “sdoganamento” politico di una formazione che ha condizionato il dibattito pubblico, portando anche i Popolari a sostenere una linea dura contro l’immigrazione. Come qualcuno ha scritto, probabilmente un deficit di memoria ha portato molti austriaci a pensare che Hitler sia nato in Germania mentre Beethoven in Austria.

In Ungheria negli ultimi anni è molto cresciuto Jobbik, movimento di estrema destra che in passato ha sostenuto apertamente posizioni razziste e antisemite. Il leader, Gábor Vona, ha fatto un pubblico mea culpa con la promessa di spostare più al centro l’asse politico; resta in ogni caso il peso del coinvolgimento di questo partito nell’istituzione di milizie paramilitari violente che hanno preso di mira ebrei e rom. Lo stesso primo ministro ungherese Viktor Orbán ha posizioni fortemente di destra su numerose tematiche: dalla difesa delle radici cristiane dell’Europa alla protezione delle frontiere tramite la costruzione di nuovi “muri” lungo il confine con la Serbia. A questo proposito, è interessante notare che al pari della Grecia, l’Ungheria ha subito un duro piano di austerità che ha portato all’esasperazione una popolazione di per sé già provata dalla crisi economica e dai sacrifici fatti per entrare in Europa. Politicamente ciò si è tradotto nella crisi del governo socialdemocratico e nel rafforzamento di tutti i partiti e movimenti di destra. Si è così riproposto l’intreccio tra disagio sociale e derive autoritarie cui abbiamo assistito molte volte. Forse è proprio questo che dovrebbe farci riflettere: il Front National in Francia, CasaPound in Italia, Alba Dorata in Grecia, Alternative für Deutschland in Germania, il movimento di destra di Geert Wilders in Olanda e i molti altri partiti di destra estrema si nutrono delle insoddisfazioni di ceti popolari che si sentono abbandonati da troppo tempo e che vivono in società che, dopo la crisi, si sono risvegliate più atomizzate e diseguali.

Alla crisi delle ideologie, di cui abbiamo già parlato, si aggiunge dunque il fenomeno della crisi di rappresentanza, che si manifesta sia attraverso una crescita dell’astensione, sia tramite il voto di protesta a partiti antisistema che promettono di cambiare tutto. Assistiamo allo stesso tempo a una novità politica che non solo è degna di nota, ma che va assolutamente analizzata: non ci troviamo più in presenza, da parte di questi movimenti di destra, di una azione tesa ad abbandonare l’Unione europea; al contrario, essi pongono all’ordine del giorno la conquista sul campo della leadership politica europea.

Sarebbe troppo facile, però, convincerci che la colpa sia esclusivamente degli elettori. Proprio come è avvenuto tanti anni fa, l’Europa governata dal pensiero liberale e conservatore, non ha saputo reagire alla crisi economica e, con le sue politiche, è riuscita persino ad aggravare quella sociale. I dati attuali di crescita non distolgano l’attenzione, perché i posti di lavoro persi e l’aumento della disparità economica hanno generato uno scontento diffuso. A questo si aggiunga la questione dei migranti, che ha dimostrato tutta l’incapacità politica dei leader europei nell’affrontarla, e l’ottusità nel non comprendere quanto rilievo abbia tale questione nella narrazione sbagliata e strumentale che ne fanno le forze di destra. Nell’ultimo periodo, infine, osserviamo un fenomeno che purtroppo qualcuno aveva previsto. L’Europa sta perdendo la sua spinta propulsiva: ha perso terreno permettendo a vecchi ma forti nazionalismi di tornare alla ribalta guardati con favorevole attenzione a Est da Putin e a Ovest da Trump, e di rendere sempre più difficile la realizzazione di una vera e propria politica comune europea.

ALLA RICERCA DI RISPOSTE

Una destra populista, protezionista, spesso razzista e autoritaria prende piede in Europa, e parallelamente tornano alla ribalta riferimenti sempre più scoperti a simboli e idee che si rifanno al fascismo.

Certamente con nuove connotazioni, perché il passato non si ripropone mai allo stesso modo. Esiste una architrave europea che, nata proprio dal trauma della seconda guerra mondiale, seppure politicamente debole, rappresenta ancora un ostacolo all’insorgere di nuovi e definitivi totalitarismi. Già, ma fino a quando?

In questo quadro spaventa però l’assenza di grandi movimenti e di un “colpo di reni” delle forze democratiche e progressiste, che finora hanno mostrato scarsa capacità di reazione: si è tirato un sospiro di sollievo per la vittoria di Macron sulla Le Pen. Ma non è sufficiente. Ancora oggi fronteggiamo una enorme contraddizione: quelle forze che in passato si erano date come obiettivo la rappresentanza dei ceti popolari perdono consenso a favore di populisti di destra che intercettano, alimentandole, le paure delle persone e la solitudine dei lavoratori.

I socialdemocratici e progressisti europei fanno fatica a delineare una propria ricetta politica, stretti come sono tra un’idea, ormai tramontata, di neoliberismo blairiano e l’appiattimento alla logica delle grandi coalizioni. Ma dopo la crisi, la vera emergenza è recuperare un dialogo e una interlocuzione con le sacche di povertà ed emarginazione sociale da cui, guarda caso, provengono sempre più voti ai partiti di estrema destra.

Per farlo occorre sviluppare politiche di investimenti pubblici incentrate sulla creazione di posti di lavoro dignitosi, di un welfare inclusivo e di politiche che assicurino un futuro certo alle persone. Ma per essere credibili occorre avere il coraggio di mettere in discussione l’attuale progetto di costituzione europea, non per tornare indietro, ma per conferire a esso una maggiore aderenza alle esigenze e aspettative dei cittadini.

Si è perso per strada il progetto originario e l’identità si è diluita e piegata alla Realpolitik e il dibattito pubblico è scivolato inesorabilmente a destra. La verità è che alle forze democratiche e progressiste occorrono una ricetta nuova e un ampio confronto internazionale. Poiché la destra estrema (e i 60.000 di Varsavia lo dimostrano), ha già iniziato a fare rete.

Le recrudescenze dei nazionalismi, il mito dello strong man, la ruggente politica dell’identità sono scomposte conseguenze di un grande disagio; sottovalutarlo significa voltarsi dall’altra parte nella speranza che gli “impresentabili” populisti vengano sconfitti e la malattia scompaia da sé, ma è una pura illusione.

Esistono due modi per affrontare e decifrare questo impulso populista; il primo è quello di liquidarlo come l’ultima reazione dei fanatici che vogliono portare indietro le lancette di due generazioni rispetto ai diritti conquistati dalle donne, dalle minoranze etniche e dalle minoranze sessuali; l’altro modo è ascoltare quello che dicono. Alcune delle loro ansie sono culturali, altre economiche e sociali. Il dibattito su quali di questi due tipi stia alimentando la reazione è irresolubile: sono inestricabilmente intrecciati. Se scarichiamo buona parte della società perché pensiamo che questa votando male sia inguardabile non perdiamo soltanto la possibilità che ci ascolti: mettiamo anche in pericolo la democrazia. Perché, parliamoci chiaro: una cosa è convincere noi stessi che conosciamo il futuro, un’altra è ignorare quello che ci accade sotto gli occhi.