Education, education, education

Written by Luigi Berlinguer Friday, 29 February 2008 16:04 Print

«Education, education, education». Rintocchi scanditi da Tony Blair nel programma laburista. Una priorità convinta, una scommessa. Non diverso il martellare di Mario Draghi in Italia, argomentato e circostanziato: una profonda convinzione che occorra una scelta radicale, dal momento che, come lui dice, «l’istruzione si conferma al primo posto fra i campi dove un cambiamento forte è necessario. L’istruzione è il fattore più importante per la crescita», e, ancora, «un insufficiente livello di istruzione può ripercuotersi sull’andamento della produttività a causa della conseguente scarsa capacità di realizzare le opportunità legate al rapido progresso tecnico».

È fortemente dubbio che una tale convinzione esista davvero nella nostra società politica, sindacale, imprenditoriale, fra tanti nostri economisti. Anzi, al contrario, non si è pronti a trarre dall’istruzione tutte le conseguenze, a scegliere di investire su di essa sacrificando altri settori. Appare inoltre evidente che non si sa come cambiare. Dall’interno del mondo della scuola non escono le idee necessarie, il dibattito è vecchio di parecchi decenni. Si pensa ancora ad una scuola che non esiste più, che non tornerà mai più. Per fortuna.

Perché tutto questo? Perché personalità come Blair o Draghi (solo esempi, certo illuminati) sono giunti a quella convinzione? La cosa è apparentemente ovvia: lo richiedono la società e l’economia della conoscenza. Il sapere è oggi fondamento sociale e motore di sviluppo. Sapere come scoperte e quindi ricerca, sapere come conoscenze diffuse e quindi cultura per i più, sapere come profilo e qualità professionale media mente elevati e quindi education. Nessuno – a parole – più lo nega. È un luogo comune, ma è una priorità predicata e non praticata.

Anche nei casi migliori. Si guardi al patto di welfare posto in essere assai opportunamente dal governo e dalle parti sociali prima dell’estate. Il saldo pari fra contenimento della spesa e benefici a favore della componente sociale più debole, segnatamente i giovani e le categorie a basso reddito, propone una prospettiva di sviluppo e di corrispondente investimento in cui sapere e innovazione rimangono sostanzialmente in sordina. Non education, poca ricerca, poca crescita affidata allo sviluppo delle conoscenze, base dell’innovazione. Il capitale umano è certo più tutelato, ma sotto un profilo di assistenza, non di promozione professionale intellettuale, cognitiva. Nel rapporto tra Tesoro (risparmio), sindacati (tutela), imprenditori (sostegno e aiuto) lo sviluppo e il supporto alle sue vere forze motrici si scorgono a stento, si fatica a trovarli.

Occorre priorità praticata. Da chi dipende? A chi preme? A chi ci si affida perché le postazioni finanziarie e le misure di cambiamento, che promuovono conoscenze e innovazione, entrino nelle scelte e sostengano ricerca, education, diffusione della cultura scientifica e tecnologica? Non bastano certo le invocazioni di personalità illuminate. Non basta la valenza oggettiva dell’assunto, non basta il buon senso. In politica è l’equilibrio fra le forze in campo che assicura il risultato. Può influire la dialettica interna alle forze politiche, la pressione – se ci fosse – del mondo giovanile, ancor più il «mondo del sapere», sue illuminate istanze interne. Ma tutto ciò finora ha avuto in Italia un peso relativo, quando non regressivo, perché incapace di cogliere il punto centrale: come si struttura la valenza generale dell’education nello sviluppo del paese? L’intreccio fra il diffuso malessere all’interno della scuola e i luoghi comuni elargiti a piene mani dai media danno del mondo scolastico un’immagine che non aiuta a proporlo come una priorità. Si è riluttanti a prendere atto delle novità: che l’education nel mondo si presenta oggi in un modo totalmente diverso dal passato, che per questo il corpo insegnante è investito da una crisi di ruolo che ne cambia in buona misura il profilo professionale, che la vecchia aula fatta di banchi e cattedra e di linguaggi solo verbali è ormai invecchiata, che il grosso di informazione e conoscenze si producono e si riversano sui giovani al di fuori della scuola. Scuola che, di fatto, non è attrezzata né vuole incrociare le altre fonti formative-informative «informali» esterne, rifiuta di fare con esse sistema. Senza una collaborazione fra varie fonti, nel mondo moderno non si arriva al risultato. La scuola è debole, impotente a reggere l’urto di nuove culture e mentalità; la famiglia ha enormemente ridotto la sua forza educativa e formativa. La scuola ha perduto oggettivamente in autorevolezza, anche perché resiste ai cambiamenti sociali e culturali, è inerme e piccola rispetto alla globalizzazione, è invasa da colori, lingue, culture, religioni, abitudini diverse e stenta a cogliere e sfruttare l’enorme ricchezza che questo rappresenta. Gli argomenti, sindacalistici e cultural-pedagogici, sono sempre gli stessi. Oppure si agogna a un ritorno al rigore, alla severità attraverso l’autorità (non l’autorevolezza), la sanzione, tutte cose necessarie, normali, ovvie in qualunque ambiente educativo, ma impotenti se permane il quadro attuale.

Priorità dell’education. Ma di quale education? Punto di partenza sono le cifre. L’involucro della nostra attività educativo-formativa è stato costruito molti decenni or sono. Il suo impianto è rimasto simile a se stesso, anche se ormai ridotto ad un colabrodo e quindi non molto riconoscibile, mentre sono intervenuti cambiamenti profondi di cui non si vuole prendere atto.

Prima fra tutte una delle più grandi riforme scolastiche dell’Italia repubblicana, la scuola media unica dal 1962 e l’obbligo a 14 anni. Essa ha lasciato un segno, ha favorito sviluppo e – indirettamente – anche innovazione: anch’essa è stata ostacolata da certa intellighenzia e accolta con freddezza da parte del mondo scolastico. Poi l’espansione della secondaria superiore, cresciuta in cinquant’anni di quasi sette volte (416.000 scuole nel 1951, 2.691.713 nel 2006), decisivo il protagonismo degli istituti tecnici e di quelli professionali. Il quasi monopolio del liceo classico è stato incrinato dal sorpasso ad opera del liceo scientifico, cresciuto di dieci volte tanto, e completamente annullato dagli istituti tecnici (cresciuti di otto volte) e professionali. Il liceo classico, che allora contava circa il 30% degli studenti della scuola superiore, è sceso a meno del 10%.

Le famiglie italiane, ma soprattutto i nostri ragazzi hanno travolto la resistenza di chi li voleva tenere fuori dall’istruzione superiore. Hanno bocciato la scuola che non si è adeguata e non ha supportato la spinta al sapere. Ma le resistenze permangono e il vecchio modello tende a sopravvivere. Si pensi, ad esempio, a tutte le resistenze contro il quinquennio riformatore (1996-2001).

Se si ascolta il piagnisteo dei laudatores temporis acti non si trova trac- cia di un’analisi dei cambiamenti intervenuti nella domanda sociale di istruzione. Si presenta un quadro di bullismo, di violenza, di maleducazione, di ignoranza diffusa, di docenti incapaci o, per converso, comprensibilmente amareggiati. Si vagheggia un tempo in cui su cento cittadini italiani (compresi i vecchi) solo il 3,3% aveva il diploma di scuola superiore, mentre ora ci si avvicina al 20%. Si considera la scuola di oggi una fabbrica di ignoranti, ma che cosa erano allora quei milioni di giovani italiani esclusi dall’istruzione? Si anela a tornare ad allora? Questa è intanto la prima considerazione da cui partire: nel 2006-07 il tasso di scolarità dei giovani dai sei ai diciotto anni è del 96,2%: altissimo per l’Italia (ancorché inferiore rispetto a paesi più evoluti). Altissimo per un paese che si è conquistato questo dato prevalentemente per spinta sociale propria. Si dovrebbe cominciare a compiacersi per questo dato straordinario.

Qual è stata la linea di resistenza? Conservare la qualità culturale nell’ammiraglia, il liceo classico, al riparo dell’espansione, e determinare lì, nella differenza di qualità fra questo e le altre scuole, il segno socialmente selettivo. Questa osservazione sarà strumentalmente intesa come ostilità allo studio dell’antichità. Niente di più falso. Certamente enorme è il valore formativo della conoscenza del mondo classico, delle nostre origini: tuttavia, il modo in cui oggi questo studio avviene esclude l’80% della nostra gioventù da quel godimento. Ed è ancor più grave che al classico venga assegnata una funzione culturalmente e socialmente selettiva, che quel mondo, quella cultura, quei valori non meritano.

Ciò che ormai è definitivamente in crisi è l’intero impianto didattico della nostra education, quello deduttivistico, quello di una scuola sede di trasmissione e non di elaborazione culturale, e quindi, naturalmente, con una didattica calata e non conquistata, fatta da ceti che vi si autoriproducono, che insegnano sul modello di se stessi e non per l’espansione della cultura sociale. Una didattica frontale, quindi autoritaria, in cui lo studente è il destinatario e non il protagonista. Una scuola che ama costruire un ristretto ceto di intellettuali, non i cittadini, che riserva la cultura a pochi e la tecnica ai più. È il neoidealismo protonovecentesco. Per questo da noi la priorità sociale ed economica dell’education è predicata ma non praticata, e le personalità illuminate la invocano con poco seguito pratico. Tornando ai numeri, l’Italia è ancora indietro nell’espansione scolastica, ma il fenomeno è in atto e irreversibile.

Purtroppo esso è parzialmente vanificato dal fatto che alla crescita quantitativa non è seguita la necessaria tenuta qualitativa, reintroducendo in questo la discriminazione sociale, sia pure in forma e con segno diversi. Bisogna convincersi di una cosa: la società della conoscenza ha bisogno di una scuola di qualità per tutti, di una scuola equa, dell’inclusione sociale, qualificata.

I due termini, qualità e quantità, non sono e non devono essere assunti come inversamente proporzionali. Sono, anzi, complementari. La spinta quantitativa continuerà, è irreversibile. È quindi sulla qualità che va posto l’accento. Se infatti una education di massa scade nella qualità ridiventa essa stessa sostanzialmente iniqua, perché offre alla massa un prodotto dequalificato, e perché si creano in essa percorsi culturalmente e istituzionalmente discriminatori nella sostanza. Occorre quindi buona qualità per tutti. Qualunque classe dirigente lungimirante non dovrebbe discostarsi da questo obiettivo, ma soprattutto la sinistra deve assumerlo come proprio e praticabile. Da citare anche il pedagogista di complemento Piero Citati, che enuncia una nuova importante dottrina pedagogica, così formulata: coloro che non ce la fanno «possono fare i falegnami, gli idraulici, i corniciai, gli elettricisti, professioni nobilissime, difficilissime» (sic).1

È mai possibile che fare scuola a più di due milioni e mezzo di ragazzi sia lo stesso che farla a poche decine di migliaia? Che si debba continuare come trenta, cinquanta anni fa? Che un ciclone come l’espansione scolastica superiore non abbia rivoluzionato la natura stessa della scuola? Cambia il numero, cambia la composizione sociale della popolazione studentesca. Ci sono figli di famiglie benestanti e colte, figli di tanti altri generi di famiglie, meno colte, ignoranti, povere, emarginate, o molto impegnate nel lavoro o negli affari. Che cosa e come si insegna a costoro? Il mondo intero irrompe nella scuola, bombardando con efficacia penetrante assoluta. Il mondo reale, oggi, è più forte di ieri, quando la comunità studentesca era in buona misura impermeabile e predestinata rispetto al suo futuro. La famiglia conta meno, più che educare rischia di scivolare verso la difesa, il «sindacalismo» dei propri figli. Il licealismo, quel tipo di laboratorio, è attrezzato oggi a reggere a nuove forze d’urto, a gerarchie culturali e di vita così dinamiche? Negli istituti tecnici l’assenza di una sufficiente base scientifica non lascia disarmati di fronte all’impressionante crescita dei saperi del mondo?

E infine la disciplina, il ripristino dell’autorità, la severità, tutti rimedi invocati astrattamente, con esiti impotenti perché proposti come antidoto ai mali di cui non si scorge la vera natura e quindi il vero rimedio. Come si è detto, il tema non è l’autorità ma l’autorevolezza. La scuola ha perso autorevolezza, non c’è dubbio. La gioventù odierna è meno rispettosa per parte sua, forse meno educata, a tratti insolente, talvolta violenta (infinitamente meno che in altri paesi). Ma non è certo con soluzioni restauratrici che si ripristina l’autorità, quando l’istituzione è sentita quanto meno lontana, estranea, incapace di rispondere a bisogni nuovi. Ha ragione Claudio Magris quando sapidamente invoca un salutare scappellotto, o una sanzione esemplare, il valore del punire. Chi può essere contrario a severità, rigore, sanzioni appropriate? A richiamare l’impegno, la fatica, la diligenza? Reati, violenza, trasgressioni non hanno cittadinanza nella comunità educante. Ma come uscirne? In quale contesto? Cominciando da dove? E, soprattutto, dopo aver promosso quale rinnovamento, assolutamente imprescindibile? Non si possono rinviare le sanzioni al dopo rinnovamento, ma neanche fermarsi solo alle sanzioni, lasciando il resto com’è.

Sono questi messaggi – maîtres à penser, sindacalismo scolastico, amarezza da parte del corpo insegnante – a privarci del contributo necessario dall’interno del sistema istruzione per affermare la priorità dell’education, che resterà perciò predicata e non praticata. Che cosa significa allora che la quantità, la spinta sociale hanno cambiato la natura della scuola? Quale valenza generale della scuola stessa ne impone la priorità politica? Si azzarda qui un ragionamento. Il nocciolo appare il rapporto cultura-professione, liquidato dal neoidealismo cento anni fa. È l’idea, allora imposta, che la cultura è astratta, non si contamina né col sociale, né con l’utile, né col pratico: do not touch. Che sapere e fare non convivono. Questo poteva funzionare – forse – per una élite socialmente predestinata. Ma con otto milioni di studenti ogni anno, immersi in tutt’altra realtà sociale, come può funzionare oggi? La forbice fra sapere e fare si è enormemente ridotta: non archiviamo Delors. Torniamo a Weber, al suo Beruf, a quel grande insegnamento; ai contributi di Durkheim e di Mannheim; al filone di Dewey, Bruner, Gardner, e, prima di loro, a Marx; anche al marxismo italiano di Banfi (la «contaminazione sociale del sapere»), a De Bartolomeis.

Sicuramente si speculerà su questa affermazione. Strumentalmente essa verrà presentata come un’opzione bassamente professionalistica, capitalistica, aziendalistica, e quant’altro. Come un’opzione contraria alla cultura di base, senza valenza generale, funzionale all’immediato bisogno d’impresa e di un mercato del lavoro parcellizzato. Banalità, che eludono il confronto vero. Nessuno discute che l’education deve valere come patrimonio polivalente, che deve permanere nel tempo, che deve essere in grado di rinnovarsi costantemente, capace di interpretare le novità, di adeguarsi all’evolversi delle conoscenze e delle stesse dinamiche del mercato del lavoro e degli sviluppi del fabbisogno professionale. Si tratta di un principio acquisito, non revocabile in dubbio. Ancor più oggi. La questione, però, è un’altra. È la scoperta della componente, della carica culturale della professione. È l’intreccio fra discipline culturali svincolate dall’immediata utilità e le relative sollecitazioni sociali operative. L’intreccio, appunto, tra fare e sapere: la riflessione sul modo in cui qualunque disciplina formativa può e deve assumere una valenza anche personale di crescita della affermazione sociale, sul modo in cui qualunque pensiero anche remoto arricchisce la propria realizzazione come cittadino operante in una comunità produttiva; la capacità di acquistare sapere e insieme l’arte di utilizzarlo. «Operativizzare» il sapere, cioè il rapporto fra sapere utile e sapere disinteressato. La capacità del sapere astratto di rispondere agli interrogativi di senso, alle proprie curiosità, anche agli acuti tormenti che propone a tutti la società contemporanea, «dal senso comune al linguaggio scientifico», ha detto Dewey; dalle stimolazioni della vita sociale, dall’osservazione delle ricchezze della natura alla costruzione delle strutture razionali del pensiero. Un processo di interazione continua, che alla gioia dell’accesso al sapere e del suo godimento intreccia costantemente sia la verifica pratica del modello sia l’applicabilità ai propri bisogni dell’esistenza.

La si è anche chiamata cultura del lavoro, postfordista e taylorista (il pensiero corre a Trentin), guardando all’intreccio fra sapere di base e lavoro, al nesso fra scienza e tecnica, all’uso cosciente, colto e creativo delle tecnologie, investendo la crisi della tradizionale divisione del lavoro fra chi definisce il fabbisogno (dirigente) e chi lo soddisfa (operatore), che recupera tutta la dialettica fra fare e sapere. Ci fu una stagione che propose con forza questi temi, quella delle 150 ore, della contrattazione sindacale della valenza dei saperi negli operai, purtroppo ormai archiviata. Tutto ciò oggi va oltre la valenza di riscatto operaio e contrattuale: investe la società della conoscenza e l’innovazione, che saranno le persone a creare diffusamente nella società stessa. Investe pertanto l’accezione di cultura, le sue priorità e valenze generali, e quindi sociali, conservan- do, per questo, il valore «disinteressato» ed acquisendo quello «utile», ma pur sempre «colto», «universale». Un bel tema, senza dubbio. La vecchia scuola e l’università di classe hanno finora teso a formare lo studente a immagine e somiglianza del docente. Formare il matematico solo come specialista della matematica, e così il letterato, e gli altri, e non il cittadino colto in matematica o nelle lettere, ma che si avvia a collocarsi socialmente e professionalmente domani, per il quale la conoscenza matematica o letteraria è essenziale per essere colto e insieme cittadino professionista, e non per essere semplicemente un matematico o un letterato. L’insieme di questi itinerari culturali delle materie scolastiche, unitamente alle loro valenze nel campo delle professioni e del mercato del lavoro incroceranno l’analisi economica e i programmi politici di governo e mostreranno come ineludibile la priorità dell’education, di cui si imporrà agevolmente la praticabilità. L’istruzione, cioè, che interpreta esigenze generali di crescita civile ed economica della società, partendo dalla sintesi fra cultura e professione.

Si propone qui una scelta politica: spostare nettamente il centro della politica formativa dalle architetture ordinamentali ai contenuti e metodi; invertire la tendenza fin qui seguita: si favorisce in questo modo l’intreccio cultura-professione e si rafforza la motivazione degli alunni nella propria avventura educativa, si avvicina la scuola al bisogno intellettuale degli alunni e si restituisce protagonismo agli insegnanti. La politica scolastica si fa oggi con la leva del rinnovamento culturale (contenuti e metodi), e con l’uso dello strumento valutativo come metodo vero di governo del sistema. Il politico tradizionale progetta sulla base di presunti bisogni organici stabiliti a tavolino. Occorre invece operare sulla base delle costanti rivelazioni di come si muove il sistema, di come emergono i fabbisogni, i comportamenti, le coerenze degli operatori. Avranno così meno peso le spinte dei corpi organizzati e più peso le esigenze rivelate dall’opera di monitoraggio e di verifica dei processi reali. E soprattutto sarà più agevole seguire gli itinerari studenteschi, le esigenze degli studenti, le loro differenti velocità (l’aiuto, il recupero dei più deboli, le potenzialità dei talenti da valorizzare). Un mondo reale e non una prospettazione aprioristico-ideologica.

Contenuti e valutazione, nella cornice di cicli aperti e dell’autonomia: ecco la politica di oggi. Sui contenuti, una grossa novità: una scuola ove non si pratica la produzione artistica per tutti non è una scuola, perchè non interpreta la creatività dell’alunno, non ne stimola l’emozione, mutilandone così l’intelligenza e la personalità. Le indicazioni nazionali recenti hanno accolto la musica praticata nella scuola dell’obbligo: bellissimo. Ora è tutto da fare per la loro attuazione.

Contemporaneamente, metodi: dalla didattica deduttivistica a quella sperimentale, «Nihil est in intellectu quod prius non fuerit in sensu» (Tommaso d’Aquino). Il sapere, quindi, come una conquista per ciascuno, sollecitata dagli interrogativi di senso di ciascuno. Muovere dall’esperienza di qualità, che è quella che trasforma l’empiria in sperimentalità: «L’occhio della fronte e l’occhio della mente» (Galileo). Anche qui le indicazioni nazionali hanno accolto il principio; senza gerarchie fra saperi, fra indirizzi culturali, scolastici: la cultura (non l’enciclopedismo nozionistico) presente in ogni indirizzo; la cultura come base della capacità di dare risposte, di interpretare e risolvere. Osando, si potrebbe assegnare alla filosofia (in senso lato, fino alla philosophy for children), all’esercizio logico, l’asse centrale dell’education, secondo il metodo scientifico-sperimentale. Superando il monopolio del solo linguaggio verbale, in un’ottica di plurilinguaggi, di multimedialità. Dal puro codice alfabetico a quello numerico, delle note, delle immagini. E poi, i cicli. Lo scorrere dell’itinerario educativo negli anni, nei vari gradi scolastici non può più essere a cicli chiusi. Il processo logico-culturale non può più perdersi nella distinzione-contrapposizione e sulla rigida separazione fra i saperi. Al contrario, la strada sono i cicli aperti e continui (Hessen), senza interrompere la continuità; la «progressive education » di Dewey. I curricoli vanno programmati secondo una progressione che accentui progressivamente la qualità e l’impegno, la fatica, le difficoltà, fondando e sollecitando conoscenze suscettibili di sviluppo e approfondimento. La continuità, non le rotture, arricchisce e stimola nel suo crescere progressivo, propone e seleziona in progress nuovi e più alti saperi (qualità). La continuità curricolare è condizione perché si affermi naturalmente l’educazione lungo l’arco della vita (life long learning), perché educazione iniziale ed educazione continua siano parti di un’unica ispirazione e organizzazione del sistema educativo. Le indispensabili severità e rigore devono essere introdotti nella continuità e per tappe, evitando rigide distinzioni e canali non comunicanti, perché siano favorite feconde ibridazioni continue (Bernstein), sia utilizzata l’intelligenza plurale (Gardner).

L’idea di favorire i cicli aperti era stata proposta negli ultimi anni Novanta. È passata nell’università; è stata prima approvata e poi «abrogata » nella scuola. Ma si sono contemporaneamente, per la scuola dell’obbligo, costituiti gli istituti comprensivi: è giunto il momento di riprendere quel cammino, con tutte le cautele politiche necessarie, ma di riprenderlo. Bisogna ricordare che esso è l’unico che può favorire sia il recupero di chi è in difficoltà, sia i talenti cui vanno assicurate possibili- tà di accelerare il proprio itinerario. È l’unico cammino possibile, nella cornice, però, dell’autonomia.

L’autonomia è la riforma più importante degli ultimi vent’anni. È una condizione essenziale dell’education nella società della conoscenza e delle più diverse autonomie, condizione indispensabile perché qualità e quantità-massa non siano inversamente proporzionali, perché siano rispettate vocazioni, attitudini, aspirazioni culturali dei giovani come dato essenziale di libertà. Il sapere è libertà in quanto sapere, ma anche in quanto precondizione di scelte libere, possibili e consapevoli. Autonomia, e cioè autonoma programmazione didattica, è innanzitutto autonomia didattica, e cioè permanente ricerca didattica. Il resto è dettaglio, è precondizione. Le scuole, o le reti di scuole, divengano le sedi di elaborazione delle forme di accesso giovanile al sapere, e cioè della ricerca didattica e del continuo investimento in arricchimento professionale dei docenti, sedi del permanente monitoraggio dei percorsi educativi e dei relativi risultati. Se così non è, non è vera autonomia. È inoltre l’autonomia stessa che deve organizzarsi come comunità educante, come sede di ricerca didattica: organico funzionale, dipartimenti, programmi di sperimentazione. Alle scuole autonome vanno destinate le risorse e i compiti organizzativi della cosiddetta formazione in servizio, l’arricchimento di strumentari didattici (laboratori scientifici, musicali, tecnici di laboratorio, iniziative formative, insegnanti specialisti, esperti).

La stagione che abbiamo davanti esige che si determini entro le scuole la spinta al cambiamento. Che dirigenti e docenti osino, pretendano, costruiscano, senza attendere misure ministeriali. Tutto ciò che non è espressamente vietato, è consentito: anche costruire di fatto un dipartimento, o un laboratorio, o assumere un tecnico a contratto o cambiare l’insegnamento della matematica. Le cornici istituzionali stanno mutando. Un movimento non ideologico, non mistificato da sterili apriorismi, ma fondato su obiettivi di promozione umana e di crescita civile dei propri alunni attraverso il sapere, è il contributo dall’interno dell’education che può incontrare le priorità della crescita complessiva del paese.

[1] P. Citati, Da Berlinguer alla Moratti. Il grande disastro dell'Università, in «La Repubblica», 8 giugno 2004.