Prima nascere. La società del vivente terminale

Written by Eugenio Mazzarella Thursday, 19 March 2020 10:04 Print

Prima nascere. Decliniamo ogni giorno, su tutti i registri, il diritto alla vita, e giustamente. Un’enfasi propria a una vita che, sotto la pressione della tecnica, per gli inediti scenari e gli ambigui orizzonti che le aprono biotecnologie e biomedicina, si sente ai suoi confini, inizio e fine vita, a repentaglio. Per non dire dell’ancor più scivoloso terreno del diritto alla vita – quale? La nostra, quella degli altri, di tutti? E quale prima? O, in questo diritto, nessuno può essere lasciato indietro? – di chi la propria vita la vive alle periferie del mondo del bisogno, o anche alle periferie esistenziali del disagio che anche al centro della vita, la più affluente, certo non mancano. E del diritto alla propria vita come richiesta di emancipazione di stili e identità di vita. Un diritto alla vita che su tutti i registri chiede protezione nel diritto – degli Stati e internazionale – senza che, troppe volte, effettivamente la riceva. Basta un giro d’orizzonti allo stato dell’arte, sul tema, del nostro mondo. Ma perché la vita possa avere diritti, c’è bisogno che nasca. La fondativa generatività di ogni società generativa (implementata cioè di un agire diffuso che crei qualcosa non solo a beneficio di sé ma anche degli altri) a immaginarsi possibile, sul piano economico, sociale, politico. Un’ovvietà non scontata proprio in quel pezzo di mondo che ci riguarda – l’Europa, l’Italia –, che l’idea stessa della vita e i suoi diritti – tutelata e tutelati nella persona, cioè non solo nella comunità, ma anche nei suoi individui – ha generato; e che per i suoi tassi di natalità vede oggi a repentaglio il suo futuro. Diritti da tempo lucidamente – almeno nella teoria e nella lotta ormai geopolitica per essi – espansi all’ambiente; alla nicchia di sopravvivenza di cui neppure l’uomo dell’antropocene conclamato, dell’epoca della tecnica, può fare a meno, e forse soprattutto lui. Un futuro che è in gioco su questo punto capitale: la sua natalità, la sua proiezione generativa – che è poi il futuro della civilizzazione che a quei diritti ha dato storia e voce. Della nostra, della civilizzazione europea.

Questa situazione assegna all’Europa il dovere inderogabile di sostenere la sua tenuta demografica, almeno a livello di mero rimpiazzo. Il dovere di sostenere la tenuta demografica dei propri popoli, che detto in modo più articolato sono le società, anche con la loro fisiologia di meticciato etnico-culturale, che li sostanziano. Perché sarebbe singolare che una civilizzazione – quella europea – in cui è emersa l’idea stessa di diritto dei popoli, di tutti e degli altri, com’è giusto, non sostenga il diritto del proprio popolo, della propria comunità “organica”. Che oggi certo, nel mondo globalizzato, non è e non può essere solo – sia detto per evitare polemiche ideologiche a priori – l’organicità di uno ius sanguinis legato a un suolo, un’organicità etnico-biologica collocata in una sua geografia storica, ma non può non essere anche questo; non può non essere cioè almeno uno stile di vita che connota uno spazio geopolitico, e che se vuole rimanere aperto sulla scena geopolitica del mondo globale deve sapersi riprodurre; il che nient’altro significa che generare e assimilare, cioè ri-generarsi, sia sul piano etnico che culturale: fare figli e proprio per questo avere meno timore di accogliere i figli degli altri. La vita, la propria vita come una comunità organica definita da uno stile di vita, un’identità nazionale, o una civilizzazione, la si difende non sparando sui barconi della speranza degli altri, ma dondolando le culle, a cominciare dalle proprie.

Al di là del politically correct polemico, qualcosa che due delle deleghe previste per la sua Commissione dalla neo presidente von der Leyen volevano mettere al centro delle politiche di sviluppo e difesa dell’Europa. La prima alla croata Dubravka Šuica, vicepresidente per la Democrazia e la Demografia, segno evidente della consapevolezza che il disagio demografico si traduce in disagio democratico, sotto la pressione di richieste di protezione di società che non generano, società che hanno paura del futuro che non generano e perché non lo generano; richieste che si affidano elettivamente a politiche securitarie, penalizzanti, per essere efficaci contro gli altri, anche libertà e diritti di chi le chiede. La seconda delega, quella al greco Margaritis Schinas “alle migrazioni” e a “proteggere il nostro stile di vita europeo”. Dizione che ha immediatamente suscitato, soprattutto in casa socialista, un vespaio di proteste anche indignate, perché vista come “scelta inaccettabile e di destra”, e che dalla stessa von der Leyen è stata immediatamente ritirata come gaffe politica e comunicativa. Ma che individua invece un problema, che non si evita perché si evitano le parole che lo dicono; e cioè l’accettazione che è giusto chiedere a chi migra in Europa, quanto meno nell’arena dei comportamenti pubblici, dei valori liberaldemocratici e, più fondativamente, dei valori della dignità dell’individuo e della persona. Valori peraltro ormai tribolanti nella coscienza degli stessi europei, per le sollecitazioni cui viene esposta la loro “vita quotidiana” dal non governo dell’implementazione, in aree di crisi sociali e urbane già di loro con difficile accesso a quei valori, di culture diverse portate dai migranti. L’accettazione cioè da parte dei migranti dello ius soli, che intendono acquisire, e che è giusto acquisiscano, senza volervi però importare nella sfera pubblica il proprio ius sanguinis, se contrastivo al “suolo” della cittadinanza cui si chiede accoglienza e integrazione.

Un impegno reciproco certo non facile da parte di chi accoglie e di chi chiede accoglienza, che potrà essere facilitato in misura significativa da un governo della transizione demografica che veda una tenuta dell’Europa relativamente al suo peso geo-demografico. Perché solo una siffatta Europa offrirà un quadro sostenibile, dal punto di vista dei popoli, della convergenza a venire a livello globale della transizione economica e sociale, rendendo altresì sostenibile le migrazioni in un contesto in cui i popoli, cioè le culture storiche geo-localizzate (la valenza concreta ed effettuale del concetto di umanità), non temano (e si rivoltino contro, cioè cavalchino i populismi in essere) la perdita dei due patrimoni propri a ogni cultura come popolo: quello materiale del tenore di vita, legato anche al reddito, e quello immateriale del modo di vita, legato essenzialmente ai valori condivisi. I modelli di integrazione fin qui sperimentati – acculturazione per assimilazione o convivenza multiculturale – sono destinati a fallire se non rispettano questi due aspetti fondamentali della società di accoglienza, ma questo è possibile solo se la società di accoglienza è in grado di metabolizzare con la sua demografia i “numeri” integrati e integrabili di individui e comunità acculturate e le convivenze multiculturali. L’integrazione può cioè riuscire felicemente solo se non mette a rischio la cultura, sia pure in divenire, delle società di accoglienza, delle società “immigrate”.

L’utilizzo perverso, ideologico-politico contingente di questo problema, che ne fanno sovranismi e populismi nazionalistici, non ci può esimere dal vederlo e dall’affrontare il dato sostantivo, e non lessicale, che ci pone davanti. E non poca parte di questa visione e di questa gestione passa per il sostegno alla natalità europea, e per quanto ci riguarda, italiana. Il che significa un sostegno alla famiglia generativa, riproduttiva, che fa figli, che garantisce all’uomo europeo (e italiano) di evitare – o almeno limitare – la sua decrescita prevista dagli studi dal 10% della sua presenza sul pianeta oggi, al 7% di quella attesa a fine di questo secolo. Che in Italia significherà passare dagli attuali 61 milioni di individui a 39, a ordini di valori più o meno di un secolo fa. Per l’Europa, già allo stato attuale, un decremento storico impressionante: dal 25% nel 1910, al 22% nel 1950, al 10% nel 2014. Questo è il punto attorno a cui ruota il senso stesso di lavorare e pensare a un futuro in Europa e in Italia.

Nelle società europee, e tanto più in quella italiana, che ha uno dei più bassi indici di natalità del continente, avanza sempre più il tipo sociale proprio alle società in recessione demografica, del “vivente terminale”, di individui non più portatori di un progetto genitoriale. Individui biologicamente a scadenza in sé stessi, senza discendenza (in Italia, con il trend di natalità in atto, questo significa che un italiano su tre non avrà discendenza). Una figura sociale sempre più diffusa, che ha ragioni complesse in condizioni socioeconomiche oggettive impedienti o disincentivanti la genitorialità, ma anche in preferenze e stili di vita soggettivi per lo più introiettati senza neppure la consapevolezza di non starsela scegliendo la propria vita, tutta volta a una autorealizzazione generativamente autoreferenziale. Ma di starsela facendo prescrivere da una società che nella generatività biologico-riproduttiva dei suoi addetti – nel vincolo progettuale di una famiglia stabile e dei figli – vede una diseconomia produttiva. Introiezione che ha la sua ideologia, anche questa prescrittagli, nell’idea di autorealizzazione dell’esistenza come liberazione da ogni vincolo che ne tarpi le possibilità, se qualcuna di esse debba sacrificare ai vincoli di un futuro che possa togliere qualcosa a quel che può godere al presente, debba essere sacrificata al presentismo di un desiderio senza speranza, non generativo. Mentre chi sulla frontiera della sua famiglia si gioca il senso della sua esistenza ha davanti a sé, e peggio da proporre ai figli, gli scenari così potentemente descritti da Ken Loach nel suo ultimo film “Sorry we missed you”.

Ora, le società del “vivente terminale”, in un sistema di produzione e riproduzione sociale, che trovi non solo necessario ma più economico approvvigionarsi altrove – anziché sostenere la propria dinamica demografica – delle riserve popolazionali (di popolazione, cioè, di nuovi individui) necessarie al mantenimento dei suoi standard produttivi (finché ovviamente questo approvvigionamento sarà possibile, e il modello dell’individualizzazione terminale non sarà divenuto standard globale, a cominciare dalla sua acquisizione, tempo una o due generazioni, dai migrati nelle società del “vivente terminale”), che interesse potranno avere al loro futuro? Che non sia quello angosciato di invecchiare bene senza che al loro futuro sempre più ristretto rubino risorse proprie le riserve di popolazione chiamate al loro servizio per reggergli e pagargli il welfare in cui “vengono prima loro” anche se lo producono sempre meno? Può interessarsi davvero al futuro dei suoi figli una società che non li fa? E può essere accogliente una società che non accoglie neanche più sé stessa?

Prima queste domande arriveranno, con soluzioni adeguate, nell’agenda politica europea, e dei suoi governi, e meglio sarà per tutti. Perché sono le domande da cui il declino in atto, se non il collasso demografico europeo non ci può esimere. Un problema su cui abbiamo bisogno non solo di sociologie descrittive, ma di sociologie prescrittive, per dir così, cioè di politica; che sul tema oggi è geopolitica. Bisogno di politica in ottica geopolitica, perché questa crisi mina dell’Europa i suoi assetti economico-sociali e quindi ne diminuisce il peso specifico nel quadro di una difficile transizione geopolitica sotto il segno di una globalizzazione fondamentalmente guidata da dinamiche economiche e da quelle del progresso tecnologico. Dove la crisi dell’Europa e più in generale europeo-occidentale non è affatto crisi mondiale, crisi globale, giacché mai il mondo nella sua storia ha vissuto una tale espansione degli indicatori del progresso quanto meno materiale. In questo senso questa crisi è una crisi “glocale”, anche se la glocalità qui indica la più che ampia piattaforma europeo-occidentale, uno spazio continentale, di uno e più continenti. Ma anche perché, e non si tratta affatto di un corollario sovrastrutturale alla crisi politica, economica, sociale, quel che è in gioco nella crisi demografica europea, come crisi di persino maggiore interesse globale – almeno dal punto di vista europeo-occidentale –, non è solo la sostenibilità socioeconomica per le sue società di questa crisi (problema certo decisivo, ma per l’Europa, non per le aree continentali sempre più avvantaggiantesi nella ridefinizione degli equilibri globali, anche a danno dell’Europa), ma la tenuta dell’espansività valoriale fuori dal continente europeo, della sua civilizzazione, del suo modello di civiltà. Che non è solo “tecnica e mercato” (che l’Europa ha esportato benissimo, e di per sé benissimo esportabili considerato il successo della loro implementazione a livello globale, negli spazi geopolitici di altre civilizzazioni, a cominciare da quelle dell’area asiatica, Cina in testa), ma anche, e più radicalmente, i valori che storicamente hanno accompagnato l’ascesa europeo-occidentale, e cioè il peso e il ruolo dell’individuo, i valori della dignità della persona, cioè degli individui come titolari di diritti umani, di diritti a essi dovuti in quanto uomini, e non loro attribuiti e decisi dalla mano secolare dello Stato in quanto suoi cittadini (e più spesso sudditi).

E questo aspetto della crisi demografica europea è un rischio valoriale globale, disegna cioè un mondo probabile diverso da quello che la civilizzazione europeo-occidentale, a base cristiana, sia pure secolarizzata nei suoi istituti giuridici e politici, ha immaginato; e bene o male in due millenni ha anche in parte realizzato. Si fa tanto parlare di diritti umani in Europa e in Occidente, ma se l’Europa vuole continuare a essere – al di là delle contraddizioni pragmatiche di questo discorso nella sua storia e nel suo stesso presente – la maggiore piattaforma di diritti umani che la civilizzazione umana ha conosciuto, avendoli peraltro inventati, essa dovrà urgentemente porsi il problema di una demografia a sostegno di questi valori – che non sono riducibili a quelli di mercato sostenuti dalla tecnica – cui ha messo capo la sua storia. Solo così potrà sostenerli con qualche capacità di incidenza sulla scena geopolitica globale di questo inizio di millennio. Una scena che prevedibilmente si stabilizzerà a fine secolo, quando, nella transizione geopolitica globale in atto troverà un suo assestamento la risultante delle tre transizioni interdipendenti in essere: a) la transizione economica e sociale; b) la transizione demografica; c) la transizione democratica nel senso più descrittivo, che di auspicio liberale, di un ridisegno delle forme di governo statuali coinvolte in questo processo. Un assestamento che sarà di lungo periodo, nella cui cornice per giocare il proprio ruolo e pesare la demografia non sarà certo una variabile indipendente per contare sulla scena globale, non solo economica sociale politica, ma valoriale. E questo non per porsi nella prospettiva di uno scontro di civiltà, ma per la consapevolezza che in un mondo che si globalizza in un contesto di “confronto” insieme cooperativo e competitivo, dell’Europa e dei suoi valori ci sarebbe ben bisogno, perché la bilancia penda dal lato dell’integrazione cooperativa, piuttosto del confronto competitivo.