Vecchia come una cabina telefonica

Written by Italianieuropei intervista Roberto D'Agostino Thursday, 20 March 2014 16:12 Print

Le notizie diventano vecchie prima ancora di essere riportate dai giornali. I politici sperimentano una comunicazione semplificata fatta di tweet e battute a effetto. Lo shock tecnologico assorbe tutte le nostre energie e limita ogni slancio creativo. Le persone sono interessate solo a se stesse e alla rappresentazione che vogliono dare di sé. Siamo travolti da una realtà in continuo mutamento ed è impossibile prevederne gli sviluppi futuri. Di questo e di molto altro Italianieuropei ha discusso con il fondatore di Dagospia.


Italianieuropei
Non si può parlare di comunicazione, oggi, senza parlare di social media. Qual è il suo giudizio sul modo in cui i politici in Italia usano queste nuove forme di comunicazione?

Roberto D’Agostino Il passaggio dall’edicola al ridicolo è stato molto breve, perché in edicola arrivavano le dichiarazioni dei politici filtrate dagli uffici stampa, da giornalisti compiacenti. Poi c’era una politica che dava poche interviste. Se ne contavano pochissime. Berlinguer ne con­cedeva una l’anno. Così come tutti i democristiani. Non c’era il parolaio continuo che c’è oggi sui giornali. Non parlavano mai. Non c’era quello che abbiamo noi, oggi, con i casi di Renzi e, ancora prima, con Berlusco­ni. In realtà, già con Berlusconi è cambiato tutto e la politica è diventata spettacolo. Prima c’era un filtro alle stronzate che un politico poteva dire e quindi tutto veniva corretto. Ma poi si è arrivati al fai da te del web, con i tweet, Facebook, Instagram e tutti i social network che abbiamo a disposizione: non c’è più un filtro, ma c’è direttamente il politico. Viene meno nettamente quel moloch che era la stampa. Tutto questo è diretto, non passa attraverso un ufficio stampa, è autosputtanante, perché questi non hanno un riserbo. Soprattutto, pensano che senza un ufficio stampa sono finalmente liberi di dire quello che gli pare, e invece fanno danni. D’Alema, per dire, non spara cinguettii. Ruggisce, una volta ogni tanto, ma ruggisce. Questa nuova generazione di politici, invece, vuole stare vicino ai giovani e usa i loro stessi mezzi.

Il problema fondamentale è che, se in teoria si può ancora pensare di affidarsi solo ai giornalisti, nella realtà l’edicola sta diventando obsoleta come una cabina telefonica. Oggi diciamo: “chi va più a comperare un gettone telefonico?”. Domani diremo: “chi va a comperare un giornale in edicola?”. Mio figlio non sa dov’è l’edicola vicino casa. Non gli inte­ressa, perché non sente il bisogno di avere un pezzo di carta con scritte notizie che sono già un po’ morte, sicuramente superate.

IE Se è vero che le notizie pubblicate al mattino sono già superate, forse non viene soddisfatto con la stessa rapidità il bisogno di fare delle riflessioni più ponderate sulle notizie. Cosa ne pensa?

R. D’A. Il problema fondamentale è che forse non vale la pena spendere un euro e mezzo per un giornale che è riempito di opinioni, ma non di notizie. Tutti sparano opinioni, ma le notizie sono pubblicate in base a chi è il proprietario del giornale, che si chiami Caltagirone o De Bene­detti, che sia la Fiat, o, come nel caso del “Corriere della Sera”, che siano diciassette diversi proprietari. Quale autonomia può avere la stampa se quel poco di potere economico che abbiamo in Italia è proprietario dei più grossi quotidiani? Per quale motivo c’è gente che ha buttato cifre folli per entrare nella proprietà dei quotidiani? A che serve? Ad autoin­censarsi. Il punto vero, però, è che questo passaggio dalla carta ai social network è ineluttabile. Quello che c’è stato è ormai obsoleto, come il fax, come il gettone telefonico, come la carta carbone.

IE Anche se i mezzi diventano obsoleti, non crede che i termini della “con­versazione” e il bisogno di argomentare rimangano immutati?

R. D’A. Sì, ma sui giornali l’argomentazione non c’è più. I giornali han­no perso credibilità da un pezzo, oramai. Innanzitutto, perché hanno un linguaggio che è lontano dalla realtà e interessi che non sono quelli dei loro possibili lettori, soprattutto dei giovani. I grandi giornali inter­nazionali hanno solo le prime pagine dedicate alle notizie e alla politica. Poi si occupano di altro. I giornali seri, le grandi testate americane e inglesi non hanno l’ossessione di dedicare 7, 8 o 10 pagine alla politi­ca e al pettegolezzo politico. Prima di Berlusconi, che pure ha segnato un passaggio importante anche sotto questo punto di vista, già la terza pagina dei giornali era dedicata, giustamente, alla cultura, perché la vita non è fatta solo di ciò che riguarda Casini, Berlusconi, D’Alema, Renzi, Letta. La vita è fatta di altre cose, di amori, di passioni, di cinema, di problemi concreti. Io stesso, nel sito, mi sto allontanando dalla politica, anche perché i lettori non vanno su quelle notizie. Con la carta non sai quali sono gli articoli più letti, se un editoriale o un’intervista vengono letti o meno. Con internet, invece, sai quali sono le notizie che vanno. Certo, io ho una linea editoriale e metto su anche articoli che so che non saranno molto cliccati, ma li pubblico lo stesso. Il punto, però, è che lo shock tecnologico è stato talmente forte ed è talmente all’inizio che non si possono prevedere gli sviluppi futuri. Quello che sta avvenendo oggi è solo il principio di ciò che sarà lo sviluppo tecnologico di domani. “Mi­nority Report” descrive una realtà già superata. Oggi è tutto un database. Il problema vero è come gestire quest’enorme scossa che subiamo quoti­dianamente mentre siamo vestiti come vent’anni fa, guidiamo macchine disegnate trent’anni fa, in campo musicale c’è solo roba vecchia: non c’è in giro nessuna creatività. Perché non c’è nulla di nuovo in giro?

IE Ci sta dicendo che, nel mezzo di una rivoluzione che travolge tutto e in cui tutto va velocissimo, i contenuti sono vecchi?

R. D’A. In campo artistico l’ultima novità, l’ultimo grande movimento è stato la pop art. Poi basta. Qual è la tendenza oggi dominante? Perché viviamo un periodo senza creatività? Perché tutta la nostra energia è as­sorbita dallo shock tecnologico. Siamo costantemente preda del libret­to di istruzioni dell’ultimo programma, per capire come funzionano le cose. Il vero godimento del nostro tempo è WhatsApp, con foto e video pazzeschi a portata di mano. C’è un orgasmo tecnologico tale che non ti permette più di godere di un quadro, dell’arte. La tecnologia ci porta un godimento continuo. Si può togliere tutto alla gente, ma non il telefoni­no, lo strumento che ci rende tutti interconnessi. In questo mondo non c’è più posto per la carta, tutto è immateriale.

IE Carta stampata e web si influenzano reciprocamente e spesso è la prima a inseguire il secondo...

R. D’A. Dipende da chi spara prima la notizia. Se l’articolo di giornale viene scritto dopo che la notizia è stata già data attraverso altri canali, se ne fa influenzare. Il punto è proprio che oggi le notizie, le dichiarazioni, vengono date direttamente attraverso un tweet, cancellando il rito della conferenza stampa. Se c’è uno scoop a portata di mano, non si possono più aspettare i tempi lunghi dei giornali per darla: la notizia non galleg­gia. Capisco che sia un passaggio difficile da accettare per chi è abituato, e prova piacere, a sfogliare i libri, a leggere dalla carta. Questo non mo­rirà. Ciò che sta avvenendo ora è simile a quanto successo con l’avvento della TV, quando si diceva che il cinema e il teatro sarebbero morti. E invece non sono morti. In qualche maniera, si coabita tutti. Certo, qual­cosa sta finendo, perché non si possono utilizzare più gli stessi metri di giudizio di una volta.

IE Nella comunicazione di un messaggio politico, di per sé elaborato, il web non impone un’eccessiva semplificazione? Non si rischia di ridurre il dibatti­to a uno scambio di battute o insulti?

R. D’A. Il punto è che tutto questo dibattito interessa solo voi. Alla gente non gliene frega assolutamente niente. Interessa l’insulto, il particolare osceno. Le persone sono interessate al loro mon­do, a ciò che le stimola, a ciò che dà loro piacere. Già quando nei primi anni Ottanta parlavo di look, era chiaro che tutto si stava spostando sul piano dell’immagine. Era il tempo della “Me generation”, dove il “noi” dell’ideologia – noi compagni, noi camerati – veniva sostituito dall’“io”. Oggi siamo arrivati a Facebook, al libro con la mia faccia, dove ci sono io, la mia storia, in cui io sono il protagoni­sta. Non c’è più un “noi”. L’individualismo, l’edonismo, già presenti in quegli anni, hanno portato all’emarginazione chi, come me, ne parlava sui giornali del tempo.

Si tratta di processi che non sono stati capiti dai politici di allora, di un rivoluzione di cui non si sono volute riconoscere l’esistenza e la portata mentre era in atto. La linea, all’epoca, la dettavano il partito e il telegior­nale. Quando, poi, è arrivato Berlusconi non si è capito quello che stava succedendo. Pensiamo alla battaglia che ha fatto la sinistra contro la te­levisione a colori. Nel 1972, a New York, vedevo la televisione a colori, a Roma nel 1977 c’era ancora la TV in bianco e nero.

Quello che scontiamo è un problema ideologico di rifiuto della dimen­sione individuale. Scontiamo il rifiuto di accettare che ciò che conta per le persone non è neanche più ciò che sono, ma ciò che vorrebbero essere: “io sono la mia fiction”. Lo racconta bene quel grande film che è “La feb­ bre del sabato sera”, con il desiderio di chi vende vernici, Tony Manero, di andare “al di là del ponte”, di stare al centro della pista, di conquistarsi cinque minuti di successo, di celebrità. Mentre qui in Italia si inneggiava alla rivoluzione, una rivoluzio­ne stava già avvenendo, ed era quella tecnologica.

Nel 1986 pubblicai un libro dal titolo “Come vi­vere, e bene, senza i comunisti. La prima guida a ciò che conta veramente nella vita”. Dato che c’era ancora il Muro di Berlino, i tipografi della Monda­dori di Verona si rifiutarono di stamparlo perché era un titolo che andava contro il loro credo politico. Forse sbeffeggiavo troppo la faccenda, ma possibile che negli anni Ottanta, mentre usci­vano i primi computer, le prime mail, la transavanguardia, il postmo­derno, mentre il mondo cambiava completamente, noi ragionavamo di Craxi, di questione morale e di De Michelis che andava a ballare? Dopo il sangue degli anni Settanta, le Brigate Rosse, Lotta Continua, c’era l’ec­citazione di vivere in un cambiamento di quella portata. Ci sentivamo liberi. Con Renato Nicolini facemmo l’Estate romana. Stava cambiando il mondo, altro che eschimo! C’era lo stesso fermento che c’è adesso, anche se tutto è più fragile e più veloce. Tutto muore la sera e rinasce al mattino. Io non so domattina come farò il sito. Chissà cosa succederà. Non è più il momento dei tempi lunghi.

IE Cosa pensa del modo in cui Grillo ha usato e usa la comunicazione via web?

R. D’A. Grillo ha usato bene ciò che aveva a disposizione. Non aveva giornali a lui favorevoli, non aveva radio o TV su cui contare. Aveva il web e lo ha usato. E la sua esperienza fornisce la prova concreta che i “telemorenti”, quelli che guardano ancora RAI1, arriveranno presto al loro loculo. Dopo ci sarà un’altra storia, un altro mondo. Il mondo come lo abbiamo conosciuto è davvero finito. In futuro non ci sarà la stessa percezione delle cose che abbiamo noi. Le nuove forme di connessione che ci sono ora permettono anche ai paesi del Terzo mondo di essere protagonisti: loro salgono, mentre noi scendiamo. Niente li potrà più fermare. Noi non avremo più il benessere che avevamo prima, e tutto per via dello shock tecnologico. In questo contesto, il vecchio modo di interagire e di comunicare, con i quotidiani, i giornali e la carta, non ha più spazio. Il telefonino è ormai il nostro strumento principe di lavoro.

IE Alla luce di quello che descrive, la nostra classe politica pare non avere alcuna capacità di comunicare, di mettersi in sintonia con il tempo attuale...

R. D’A. La classe politica di oggi non ha la percezione del completo sfascio economico e sociale, dell’impossibilità di sostenere il confronto con chi produce in paesi in cui la manodopera costa la metà di quanto costa in Italia. Non percepisce di vivere in un mondo completamente interdipendente. Quando anche in Cina aumenteranno i salari e si im­borghesiranno ci sarà l’India, e poi l’Africa. Siamo cittadini del mondo.

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