Tra bread e spread. La nuova etica del consumo

Di Marino Niola Martedì 03 Settembre 2013 14:29 Stampa

La crisi economica, che ha profondamente modificato le abitudini, anche alimentari, degli italiani, sta determinando la nascita di una nuova etica del consumo all’insegna di sobrietà, frugalità, sostenibilità e leggerezza. Il low cost si è trasformato da necessità in virtù e si sono riscoperti i vantaggi di una dieta povera, come quella mediterranea, ma ricca di rimandi dalla forte valenza simbolica. E il rilancio di usi e costumi tipici dei nostri nonni passa per la rete, chiudendo un circuito, solo all’apparenza paradossale, che unisce passato e futuro.


«Meno quattrini si hanno meno si è disposti a spenderli in cibo sano». Sono parole di George Orwell che sembrano fotografare le tendenze recenti che affiorano dai consumi alimentari degli italiani. Almeno stando ai dati ufficiali. Come quelli dell’Istat che, per bocca della sua direttrice Maria Carone, ha delineato un quadro a dir poco preoccupante. Dall’ultimo rapporto annuale del prestigioso istituto di statistica emerge come la crisi stia modificando in profondità le abitudini e i comportamenti dei consumatori. Particolarmente significativo appare un passaggio dove si sottolinea che «per far fronte alle difficoltà economiche le famiglie riducono la quantità o la qualità dei prodotti alimentari acquistati». Aumenta, infatti, la quota di persone che comprano cibo presso gli hard discount. E, come sempre, il Mezzogiorno, tradizionale fanalino di coda nelle graduatorie del benessere, balza in testa alla classifica della lesina forzata. Gli ultimi diventano i primi nella corsa al risparmio. In molti casi coatto.

Perché, se i nostri connazionali stringono la cinghia, non è solo per una conversione di massa all’abbondanza frugale, né per una sacrosanta istanza di riduzione degli sprechi. E men che meno per un sussulto di resipiscenza antibulimica. No, in questo caso non siamo di fronte a nessuna critica dell’economia domestica. Non c’entrano etica e dietetica. La caduta delle vendite alimentari, secondo molti osservatori, è complessiva e strutturale. E non dipende da variazioni della domanda – da una redistribuzione della spesa, determinata da nuove tendenze e sensibilità – o da diversificazioni dell’offerta. Lo proverebbe anche il crollo delle vendite nei supermercati nonostante gli sconti, le promozioni, i prezzi stracciati, qualche volta sottocosto. Il fatto è che gli italiani mangiano meno, e non sempre per scelta. Se poi mangino veramente peggio è da vedere. Intanto perché questi dati richiedono di essere letti alla luce di ragioni non puramente e semplicemente economiche e statistiche. I numeri conducono a tutto purché se ne esca, per andare in cerca delle realtà che essi significano. E che non sono mai riducibili a un solo ordine di ragioni. Le misure matematiche non sono immediatamente traducibili in misure sociali e culturali. Bisogna arrampicarsi sulle cifre come su una piattaforma per gettare uno sguardo d’insieme sul complesso paesaggio antropologico che si va ridisegnando sotto i nostri occhi. E che le scelte alimentari contribuiscono a fotografare.

È interessante, in questo senso, il quadro che emerge da una rilevazione del Panel famiglie Ismea-GfK Eurisko che indica, nel 2012, una forte crescita della spesa in prodotti bio. Il boom riguarda soprattutto il Nord, che rappresenta il 70% del mercato, seguito dal Centro con il 23% e dal Sud con il 7%. In certi settori – prodotti da forno, snack, bevande – gli incrementi si aggirano intorno al 20% e, in generale, si attestano intorno al 10% per pasta, uova, frutta e ortaggi.

Senza voler sottostimare la crisi, che c’è e picchia duro, è il caso di prendere in considerazione anche le risposte all’emergenza che si traducono in nuovi stili di vita. Che non possono essere spiegati semplicemente in termini numerici. Come tutti i fenomeni riconducibili in un modo o nell’altro entro la galassia varia e mutevole del low cost.

Dove alle cifre dell’economia reale si sovrappongono le proiezioni dell’economia simbolica. Che stanno determinando la nascita di una nuova etica del consumo, una ristilizzazione dell’immagine stessa del mercato all’insegna della sobrietà. Perfino di una neomitologia della frugalità. Generando un’etica della sostenibilità come antidoto alla bulimia consumistica e un’estetica della leggerezza come rimedio contro l’obesità del superfluo. Una filosofia easy, emblema di un vivere giovane che ha lo stesso bioritmo della cosiddetta “generazione perduta”. Nato dalla necessità economica, dunque, il low cost sta diventando una cultura, un mainstream che guarda avanti e anticipa il futuro facendo, appunto, di necessità virtù. Spesso, e non a caso, virtù domestiche. Sono sempre di più i nostri connazionali che si sono rimessi a cucinare la domenica e nelle feste comandate. Ma anche nel quotidiano. Si rispolverano le ricette di una volta. Abbandonate per mancanza di tempo. E adesso riscoperte per impiegare il tempo. E risparmiare denaro. Al punto di sfiorare l’autarchia alimentare. Autoproducendosi lo yogurt, preparando conserve e marmellate, piantando germogli sul davanzale e pomodori in terrazzo. Quel che si dice curare il proprio orticello. Che è anche un modo per trasformare le tradizioni, frettolosamente dismesse negli anni dello sballo dissipativo, in beni rifugio cui tornare ad aggrapparsi in momenti difficili come questo che stiamo vivendo. Chilometro zero, casa, famiglia, dimensioni concentriche di una località intesa come porto sicuro. E che si rivela come l’unico welfare aperto sette giorni su sette, 24 ore su 24. È in questo quadro sociale che nasce la fortuna, anche mediatica, della dieta mediterranea e, in senso lato, delle cucine povere. Rivalutate – a dirlo è l’antropologa Elisabetta Moro, direttrice scientifica del MedEat Research, Centro di ricerca sociale sulla dieta mediterranea dell’Università di Napoli “Suor Orsola Benincasa”1 – come ricetta in grado di riparare i danni prodotti quell’opulenza bulimica spalmata come burro sulla vita del cittadino globale e che ha finito per ostruire le coronarie del primo mondo.

È fuori di dubbio che dopo cinque anni di convivenza con la recessione, con una crescente disoccupazione, con la riduzione del potere d’acquisto dei salari, con l’aumento delle tasse siamo decisamente una collettività sull’orlo di una crisi di nervi. Eppure, da questo scenario apocalittico stanno affiorando i segni di una trasformazione che non riguarda solo il nostro avere ma anche il nostro essere. Una vera mutazione antropologica che imprime una svolta ai nostri abiti e abitudini, usi e costumi. E anche consumi.

Non è un caso che le ultime tendenze registrino la diffusione di stili sociali che rompono decisamente con l’edonismo degli anni Ottanta. E, in parte, anche con l’individualismo di massa dei Novanta. Ma anche con la bulimia shopaholic che nell’ultimo decennio ci faceva marciare a testa bassa come asini dietro la carota del consumo à bout de souffl e. Senza un progetto, senza una meta, immersi in un eterno presente alla continua rincorsa del last minute.

Adesso, volenti o nolenti, non solo abbiamo fatto del low cost una necessità, ma stiamo anche imparando a trasformarlo in una virtù. Nel pilastro di una nuova sensibilità responsabile, solidale, in certi casi neocomunitaria. Non è un caso che si moltiplichino le forme di condivisione. Di risorse, di oggetti, di beni e servizi. Dal car sharing, che esorcizza milioni di posseduti dal culto dell’auto, inducendoli a condividere costi e benefici delle quattro ruote, al cohousing, che adatta le nostre abitudini alle misure sempre più contenute di spazi e budget. E, nei casi più green, fino agli orti condominiali. Del resto, che stia cambiando il nostro senso del possesso lo prova il ritorno di pratiche solo apparentemente giurassiche come il baratto. Cosa contro cosa, beni contro prestazioni, occhi che si guardano e mani che si stringono. È il trionfo della filiera corta, dell’economia faccia a faccia. Della strizzata d’occhio tra domanda e offerta.

Si torna perfino a fare il pane in casa. Che è un gesto dall’enorme valore simbolico, vista l’eco che l’alimento per eccellenza ha nella nostra cultura e nel nostro immaginario. È come un tuffo nel passato che diventa ritorno al futuro. Il boom del pane fai da te è, infatti, il classico esempio di innovazione che veste i panni della tradizione. Un caso di vintage alimentare.

Apparentemente si tratta di una moda generata dalla crisi. È vero, ma non è tutto. Certo, coi tempi che corrono cresce l’esigenza di fare economia. Ma oltre il risparmio c’è di più. C’è voglia di naturalità, di genuinità, di semplicità, di convivialità, di sicurezza. Alle ragioni economiche si aggiungono istanze morali, spinte ambientali, tendenze securitarie. Che si materializzano in quel cibo per antonomasia che è il pane quotidiano. Emblema supremo della vita proprio perché base della nutrizione umana. Al punto di diventare un simbolo sacro e politico di comunione e condivisione. Per i cristiani e non solo. Gli uomini diventano compagni, da cumpanis, perché si spartiscono il pane. Che ha la stessa origine della parola padre. Ma ha alle spalle anche una madre. Il lievito madre, appunto. Altra sostanza che ha una profondissima risonanza nel nostro immaginario. Nell’antica mitologia la sostanza acida che fa crescere l’impasto è sempre dono di una dea. O della Madonna in persona. Che la regala agli uomini perché la facciano passare di mano in mano. Nell’Italia di una volta un pezzetto di fermento non si negava a nessuno, neanche ai nemici. Proprio quel che fanno adesso gli adepti dell’autoproduzione, che si uniscono in comunità solidali. E scambiano gratuitamente fra loro pezzetti di lievito staccati dal corpo centenario di “madri inacidite”. Figlioletti con tanto di nome di battesimo da coccolare come dei tamagotchi.

Oggi paradossalmente è la rete a rilanciare usi e costumi dal sapore arcaico. Che spopolano nella blogosfera, nei forum e nelle chat. In questo modo, i due estremi della storia si toccano. E la sobrietà forzata dei nonni si trasforma in abbondanza frugale dei nipotini. In questa metamorfosi, che almeno in parte intercetta domande lasciate senza risposta dalla politica tradizionale, si intravede uno dei possibili algoritmi del postconsumismo. Bread contro spread.

Se questi esperimenti di comunità anti-individualistica si generalizzassero, ci troveremmo davvero in un nuovo tornante della storia. E, del resto, proprio questo significa la parola crisi, dal greco krino, cioè separare. Il momento che separa un modo di essere, di vivere e di sentire dal momento successivo. Tempo di difficoltà, dunque, ma anche di bilanci e di rinnovamento. Di separazione del grano dal loglio, della lana dalla seta, del necessario dal superfluo. Come dire che è in frangenti come questi che una collettività mostra il suo vero volto. E sceglie cosa vuole diventare. A riprova del fatto che i grandi mutamenti sociali hanno spesso nell’alimentazione una leva potente e un segnale premonitore. Perché, come diceva Anthelme Brillat-Savarin, padre della gastronomia moderna ma anche protagonista della rivoluzione francese, il destino delle nazioni dipende dal modo in cui si nutrono.


[1] E. Moro, La dieta mediterranea tra i presocratici e l’UNESCO. Retoriche di ancestralizzazione e politiche di patrimonializzazione, in “Voci. Annuale di scienze umane”, 2013; A. Keys, M. Keys, Mangiar bene e stare bene (con la dieta mediterranea), Piccin, Padova 2009.
Acquista la rivista

Abbonati alla rivista