Angela Merkel, totus politicus

Di Nicolò Carboni Mercoledì 22 Settembre 2021 16:39 Stampa
Angela Merkel, totus politicus Istockphoto/Rost-9D

 

Notte elettorale del 18 settembre 2005. La SPD del Cancelliere uscente Gerhard Schröder e la CDU di Angela Merkel (capo del partito da appena qualche mese) si giocano la maggioranza al Bun­destag sul filo di poche migliaia di voti. Schröder tiene la scena, si sbraccia, ha la camicia stirata di fresco e ripete che l’incarico di for­mare un nuovo governo deve spettare a lui, negando la possibilità di qualsiasi grande coalizione con i cristiano-democratici; Angela Mer­kel; la telecamera indugia sulle sue smorfie, chiaramente vorrebbe essere ovunque tranne che in quello studio televisivo. Il suo partito, la CDU aveva nove punti di vantaggio nei sondaggi ma, mese dopo mese, quel margine si è ristretto sempre di più, anche a causa di una sua pessima performance televisiva dove ha confuso salario netto e salario lordo. Quando il presentatore le dà la parola, però, accade qualcosa: con lo sguardo fisso su Schröder si limita a poche parole: «mi sembra chiaro che l’Unione ha ottenuto più voti; sono certa che dopo qualche giorno di riflessione anche i socialdemocratici accette­ranno questa realtà». Il 14 novembre Schröder si dimette da leader della SPD e rinuncia al suo seggio in Parlamento; una settimana dopo Angela Merkel giura come nuovo Cancelliere tedesco, alla gui­da di una grande coalizione tra CDU/CSU e SPD.

Sedici anni, quattro tornate elettorali (tutte vinte) e quattro governi dopo la cifra di Angela Merkel si riassume ancora tutta in quel breve scambio di battute televisivo, qualche giorno di riflessione per com­porre i contrasti (con i partner di governo, ma se necessario pure con Alexis Tsipras o Vladimir Putin) e la realtà come principio assoluto cui ogni disegno, ogni processo politico, ogni ideale deve – prima o poi – piegarsi. Come per i fenomeni naturali, come nella chimica quantistica che, da ricercatrice, ha studiato e praticato – con più d’un successo – nei plumbei laboratori statali della DDR. Addirittura da­ vanti al più grande fatto storico della sua giovinezza, la caduta del Muro, Angela Merkel non ha cambiato approccio: con una amica ha attraversato uno dei checkpoint ormai abbandonati ma, anziché rincorrere subito il sogno occidentale, è tornata a casa dopo poche ore, si è coricata e, la mattina dopo, è andata al lavoro come sempre. Solo più tardi si avvicinerà a Demokratischer Aufbruch, uno dei tan­ti movimenti popolari nati col crollo della Repubblica Democratica, grazie al quale inizierà la sua carriera politica. Qualche giorno di riflessione, appunto.

Oggi, a trentadue anni da quel novembre berlinese e a sedici dal suo primo giuramento come Cancelliere federale, l’intera Europa, ma pure il mondo, hanno imparato a conoscere i giorni di riflessione di Angela Merkel. Nel 2015, per scherzo ma non troppo, un sondaggio tra i giovani ha eletto il neologismo merkeln tra le parole dell’anno, un verbo scherzoso che starebbe a indicare “il non far nulla aspettando lo svolgersi degli eventi”. Sarcasmo, certo, ma capace di nascondere una punta di verità. Anche per i tedeschi, che pure l’hanno votata in maniera quasi plebiscitaria per trent’anni, Angela Merkel appare come una figura sostanzialmente indecifrabile, comparsa di sorpresa sulla scena politica e capace di dominarla quasi senza fare nulla, un po’ come quei guerrieri della letteratura orientale capaci di attendere l’ultimo secondo utile prima di colpire. Lo sa bene Helmut Kohl, il Cancelliere della riunificazione, padre fondatore della Germania moderna, che chiamava Angela Merkel “mein Mädchen” finché la ragazzina, con una durissima lettera alla Frankfurter Allgemeine Zei­tung, non lo mise alla porta distruggendo pure le ambizioni del suo vero pupillo Wolfgang Schäuble.

Kohl non glielo perdonerà mai e, anche negli ultimi anni, continuerà a ripetere di «essersi cresciuto una serpe in seno». Ma il vecchio capo della CDU e l’ex ministro delle Finanze sono state solo le prime vittime illustri di Angela Merkel. Nel 2002 sarà la volta di Edmund Stoiber che – dopo aver ottenuto la candidatura a Cancelliere per la CDU/CSU – si schianterà contro la SPD mettendo fine alla sua carriera politica. Scorrendo gli articoli di giornale dell’epoca pare che Merkel, pur non facendo mistero di volersi giocare la partita, a un certo punto tirò il freno, forse intuendo i rapporti di forza in campo. Ancora una volta, riflessione e principio di realtà. Gli anni successi­vi sono stati, sul fronte interno, un sostanziale gioco a ripetere. Da una parte Angela Merkel, dall’altra vari uomini – democristiani o socialdemocratici – tutti sconfitti. Nella SPD la sua vittima più illu­stre è stato Martin Schulz, popolarissimo presidente del Parlamento europeo e candidato del PSE alla guida della Commissione europea nel 2014. Il leader socialdemocratico prima ha visto il suo tentativo frustrato dalla scelta del governo tedesco di sostenere Jean-Claude Juncker, poi, lasciato Strasburgo per sfidare la Cancelliera alle elezio­ni federali, ha perso ed è stato costretto a rifiutare l’incarico da mi­nistro degli Esteri che Angela Merkel, perfida, gli offrì nonostante si fosse sempre detto contrarissimo a qualsiasi coalizione con la CDU.

Non è andata meglio, neppure recentemente, ai suoi compagni di partito: Manfred Weber, storico capogruppo della CDU a Strasbur­go, è arrivato vicinissimo alla presidenza della Commissione solo per trovarsi abbastanza velocemente ricollocato alla sua mansione parla­mentare quando Angela Merkel ha concordato con Emmanuel Ma­cron di dare l’incarico a Ursula von der Leyen.

Tra i suoi avversari storici l’unico con cui la Cancelliera ha ricostruito un vero rapporto personale e politico è Wolfgang Schäuble, diventa­to negli anni una delle figure cardine del primo merkelismo, soprat­tutto durante la crisi dell’euro.

Settembre 2008. I telegiornali mostrano i banchieri di Lehman Bro­thers con gli scatoloni per strada, un anno dopo la crisi finanziaria innescata dai mutui subprime americani si trasforma nella crisi del debito sovrano. I funzionari della Commissione europea scoprono che un paese aveva addirittura falsificato i propri bilanci: la Grecia è sull’orlo della bancarotta, si teme per la tenuta dell’eurozona. In quei mesi Angela Merkel ha appena rivinto le elezioni e si appresta a costruire una coalizione con il Partito liberale, Guido Westerwelle assume l’incarico di ministro degli Affari esteri, Wolfgang Schäuble va al ministero delle Finanze.

Semplificando, ma non troppo, si può dire che quello è il momento in cui gli europei si accorgono di Angela Merkel e del suo gover­no. Schäuble, in particolare, diventa lo stereotipo del tedesco rigi­do, indisponibile a ogni compromesso, pronto a far uscire la Grecia dall’euro e dall’Unione europea pur di non spendere i soldi della casalinga sveva per salvare i conti disastrati dei paesi mediterranei; i liberali, invece, sembrano incarnare appieno il nemico perfetto per le sinistre europee: un partito piccolo, di ispirazione neoliberista, at­tentissimo ai conti e poco interessato allo Stato sociale, i falchi che saranno resi famosi da tante ricostruzioni a mezzo stampa. Nei giorni più bui della crisi greca si distingue pure la semisconosciuta ministra del Lavoro e delle Politiche sociali, una nobildonna di antico blaso­ne, che propone la vendita del Partenone e altri tesori archeologici per pagare i debiti; il suo nome era Ursula von der Leyen.

In quegli anni di nottate al Consiglio europeo, interminabili nego­ziati con l’eurogruppo, la Banca centrale europea e il Fondo mone­tario internazionale, emerge l’Angela Merkel che abbiamo imparato a conoscere, instancabile tessitrice di compromessi, contraria a ogni rottura, sempre pronta a mediare per tenere insieme ogni istanza. Allo stesso tempo, però, Angela Merkel non ha mai mostrato il ben­ché minimo interesse a una riflessione complessiva sul funzionamen­to dell’euro, dell’architettura istituzionale della UE o una apertura a strumenti considerati eterodossi o troppo innovativi (come gli euro­bond, ad esempio). Ha atteso qualche giorno e messo tutti, alleati e oppositori, davanti a un dato di realtà: l’unica strada percorribile era quella più prudente, ogni altra opzione avrebbe creato fratture insanabili. Paradosso nel paradosso, il vero visionario in tutta questa vicenda è stato proprio l’uomo indi­cato come il più arcigno difensore dei conti pub­blici tedeschi, quel Wolfgang Schäuble dalle cui intuizioni nacquero l’ESM e gli altri strumenti di cui l’Unione europea si è dotata per rispon­dere alle crisi.

Rispetto ai suoi colleghi di governo, quasi tutti uomini e quasi tutti dell’Ovest, Angela Merkel non ha mai visto nell’Europa unita il grande orizzonte ideale cui far tendere la nuova Germa­nia del XXI secolo ma l’ha sempre intesa come uno strumento in più a disposizione del Cancelliere per far valere l’interesse nazionale tedesco, arrivando addirittura a ritardare l’erogazione di un prestito necessario alla Grecia per il timore di perdere una piccola consulta­zione elettorale locale in Nord Reno-Westfalia (che, comunque, non finì bene). Se alcuni suoi omologhi, francesi soprattutto, si sentivano investiti di una missione storica quasi superomistica, la Cancelliera ha sempre rifiutato qualsiasi tentazione demiurgica: i paesi del Sud avevano sbagliato (forse addirittura peccato) a spendere soldi che non avevano e, ora, toccava a loro fare lo sforzo maggiore per salvarsi. «Ich bringe mich nicht selbst um», non mi suiciderò pare abbia detto una Angela Merkel in lacrime a un basito Barack Obama che, al G20 di Cannes del 2011, provava a convincere la delegazione tedesca a impegnarsi di più per risolvere la crisi del debito sovrano. Pressata dal presidente americano, da Nicolas Sarkozy e da praticamente tutti gli altri presenti, la Cancelliera arrivò addirittura a recriminare l’in­fluenza degli Alleati (ovvero di Stati Uniti e Francia) nella scrittura della Legge fondamentale tedesca che sancisce, in maniera assoluta, l’indipendenza della Bundesbank dal potere politico. Convinta, non senza ragione, che le istituzioni europee non avessero ancora la forza per sperimentare soluzioni più coraggiose, Angela Merkel ha voluto puntare tutto sul suo rapporto con i colleghi capi di Stato e di governo, sul Consiglio europeo che – proprio negli anni della crisi greca – di­ventava in maniera irreversibile il fulcro del potere continentale, con Commissione e Parlamento a seguire dalle retrovie.

Tra il 2009 e il 2013 Angela Merkel, senza che nessuno se ne ac­corgesse, ha riformato l’Unione europea più in profondità di qual­siasi manifesto o dichiarazione, accentuando una traslazione verso il modello intergovernativo difficilissima da fermare, figuriamoci da invertire. Il metodo dei vertici fiume, delle nottate, dei compromessi continui è tagliato sulla misura delle giacche sgargianti che la Cancel­liera ama indossare, nessuno come lei domina le fatiche, le tattiche, addirittura le piccinerie politiche necessarie per mettere ordine nella cacofonia di interessi che sgorga da quelle riunioni. Angela Merkel è al tempo stesso decisore ultimo e camera di compensazione per ciascuno, arbitro e giocatore.

Concentrarsi sui propri colleghi è tornato utile anche durante l’altra grande crisi europea, quella prodotta dalla Brexit. Mentre a Londra Theresa May e i suoi ministri erano convinti che, alla fine, sarebbero riusciti a negoziare accordi individuali con i singoli Stati scavalcan­do completamente Michel Barnier e la Commissione, a Berlino la Cancelliera rifiutava ogni proposta britannica, mandando ai colleghi europei un messaggio impossibile da ignorare. Dopotutto Angela Merkel è l’unico capo di governo in carica ad aver visitato tutti i ventisei paesi dell’Unione almeno una volta: nessuno l’ha mai fatto o si è preso la briga di provarci, un segno geopolitico piuttosto chiaro.

Questa centralità però apre a un inquietante interrogativo, chi saprà sostituirla? Forse non era del tutto sbagliata l’ironia sferzante di Yanis Varoufakis che, a un giornalista, arrivò a dire: «Angela Merkel? Una catastrofe per l’Europa. Ma la rimpiangeremo, chi verrà dopo sarà si­curamente peggio». Chissà se, alla fine, la malizia non si trasformerà davvero in un complimento.

Estate 2015. La Siria è un paese devastato, migliaia di persone in fuga attraverso Turchia, Grecia, ex Jugoslavia; ad attenderli trova­no i fili spinati ungheresi e la polizia di frontiera, alcuni percorrono a piedi le autostrade, è la rotta balcanica. Angela Merkel decide di rivolgersi alla nazione con un rarissimo messaggio televisivo: «Wir Shaffen das», ce la faremo, e annuncia che la Germania – in manie­ra unilaterale – accoglierà i richiedenti asilo siriani. A fine 2016 il territorio tedesco alloggia circa un milione e seicentomila rifugiati diventando, improvvisamente, il quinto paese al mondo per numero di profughi ospitati.

Il “Time” dedica ad Angela Merkel la sua copertina e la proclama, con una retorica molto americana, “Cancelliera del mondo libero”. In patria però le cose vanno male: passata la commozione iniziale cominciano a farsi sentire le prime voci dissonanti; la popolarità della Merkel cala ai minimi, mentre AfD (propaggine locale dell’interna­zionale sovranista) guadagna consensi. Oggi, sei anni dopo, i dati del ministero del Welfare ci dicono che circa il 49% di quei richiedenti asilo lavora e paga le tasse, mentre il 75% si dichiara «apprezzato dai propri concittadini». Angela Merkel non ha mai chiarito come abbia maturato la decisione, inattesa e sorprendente per una politica abi­tuata al merkeln, di sfidare opinione pubblica, alleati e tenuta sociale in nome di un superiore principio etico. Forse lo scopriremo solo se prima o poi la Cancelliera vorrà scrivere un’autobiografia.

Tuttavia, anche in questa storia dove umanità e pietas finiscono per intrecciarsi, non manca una vicenda collaterale, meno edificante e molto più cinica. Negli stessi mesi in cui la Germania accoglieva i profughi siriani, il governo tedesco indirizzava la Commissione eu­ropea verso un accordo con Erdoğan per sigillare in maniera defini­tiva la rotta balcanica garantendo il blocco dei migranti ai confini dell’Unione. In cambio di questo servizio, l’autocrate turco ha ri­cevuto e continua a ricevere decine di miliardi di euro dal bilancio europeo, mentre le altre rotte migratorie (principalmente quella del Mediterraneo centrale) rimangono un problema aperto. In aggiun­ta a questo discutibile patto con Ankara, criticato da buona parte delle ONG internazionali, la Merkel non ha tentato in alcun modo di estendere il suo “buon esempio” a livello europeo, cercando di costruire una coalizione per la riforma del Regolamento di Dubli­no o, quantomeno, per arrivare a una distribuzione obbligatoria dei richiedenti asilo. Con un solo gesto, umanitario quanto vogliamo, Angela Merkel è riuscita a sottrarre la Germania dal dibattito euro­peo sull’asilo senza però finire nel girone dantesco degli euroegoisti alla Orbán. Un capolavoro che, ancora una volta, rivela l’incredibile capacità della Cancelliera di cogliere l’attimo esatto in cui è utile fare la propria mossa; tuttavia, anche qui, assistiamo a una Germania poco interessata alle soluzioni complessive, dedita al cabotaggio del contemporaneo. Accogliendo i siriani Angela Merkel non ha risolto la crisi migratoria europea, ha risolto un potenziale problema politi­co tedesco, evitando il rischio di doversi schierare con i paesi dell’Est o con i mediterranei in uno scontro senza alcun vincitore.

Sochi, residenza estiva di Vladimir Putin. Angela Merkel e il presi­dente russo conversano alternando le rispettive lingue (lui imparò il tedesco da agente del KGB di stanza a Berlino, lei studiò il russo a scuola, come materia curriculare). Improvvisamente una porta si apre e Koni, il labrador nero di Putin, entra nella sala riunioni. Angela Merkel è visibilmente terrorizzata, a quanto pare non ha mai amato i cani. Alla fine dell’incontro, conversando con alcuni giornalisti, la Cancelliera dirà: «Ho capito perché l’ha fatto, per provare che è un vero uomo. La Russia non ha nulla, non ha successo politico o econo­mico. Gli rimane solo questo». Nonostante questo incidente Angela Merkel era e rimane il leader occidentale con cui il capo del Cremlino si sente più a suo agio, non solo perché la Germania ha resistito a ogni pressione americana per fermare il progetto Nord Stream (una infrastruttura fondamentale per i tedeschi, che permette al gas russo di arrivare in Germania senza passare dai difficili territori ucraini e bielorussi), ma pure perché – unici tra i grandi del mondo – condi­vidono una infanzia e una giovinezza trascorse nel socialismo reale di matrice sovietica. Sia Putin che Merkel prima hanno vissuto in un mondo dove il più piccolo errore, una parola fuori posto, una battuta potevano fare la differenza tra una vita dignitosa e le carce­ri della polizia segreta, poi hanno visto questo colossale monolite crollare sotto il suo stesso peso e, poi ancora, si sono reinventati in una società diversa, con valori diversi, organizzazioni diverse, pericoli diversi. Forse è proprio questa formazione totalmente eterodossa ri­spetto a tutti gli altri leader occidentali ad aver spinto Angela Merkel verso una politica estera curiosa nei confronti dell’Est e a tratti quasi diffidente verso i tradizionali alleati atlantici. Attentissima al corti­le di casa mitteleuropeo, la Cancelliera ha protetto fino allo stremo la democratura di Viktor Orbán accettandone le intemperanze nel Partito Popolare Europeo in nome della catena del valore industriale che lega il basso costo del lavoro ungherese alle case automobilistiche di Wolfsburg e Monaco ed è sempre stata piuttosto tiepida verso il desiderio europeo (ma sarebbe meglio dire francese) di punire le vio­lazioni dei diritti fondamentali in Polonia. Meglio accettare qualche eccesso e tenere l’Europa orientale saldamente nel quadro europeo che lasciarla alla mercè di Putin o di qualche pezzo di deep State ame­ricano terrorizzato dalla Russia.

Proprio gli Stati Uniti rimangono il grande cruccio di Angela Merkel; nel 2003 da capo dell’opposizione contestò la decisione di Schröder di non partecipare all’invasione dell’Iraq e, una volta al potere, si impegnò a costruire un rapporto personale e politico con George W. Bush, riuscendoci molto bene dato che l’ex presidente, a luglio 2021, ha voluto rilasciare una intervista ai media tedeschi dedicata interamente all’eredità mondiale della leadership tedesca.

Con Barack Obama, invece, le cose non sono iniziate benissimo. Come racconta lo stesso presidente nella sua autobiografia, Angela Merkel ha una diffidenza naturale per chi ama troppo i discorsi reto­rici o è a suo agio davanti a grandi folle. Ci fu addirittura un picco­lo incidente diplomatico quando, nel 2008, l’allora senatore chiese l’autorizzazione per un comizio davanti alla Porta di Brandeburgo; la Cancelleria fece filtrare un certo disappunto e, alla fine, l’entourage di Obama optò per il meno scenografico parco di Tiergarten.

Negli anni successivi, mentre la stima reciproca cresceva, matura­vano pure le divergenze politiche; fu l’Amministrazione americana, tramite Timothy Geithner (come confermato dal segretario al Teso­ro nel suo memoir) a fermare il piano franco/tedesco per “rimuove­ re” l’ormai impresentabile governo Berlusconi in Italia e fu sempre Washington a imporre all’establishment tedesco il salvataggio della Grecia e dell’euro.

Solo con la crisi ucraina e l’espulsione della Russia dal G8 ci sarà un riavvicinamento tra Stati Uniti e Germania che culminerà con Barack Obama in visita a Berlino nell’ultimo viaggio ufficiale del suo mandato. Un passaggio di consegne simbolico, reso ancora più significativo dall’arrivo alla Casa Bianca del successore di Obama. Oggi, dopo i difficili quattro anni di Trump, Angela Merkel ha potu­to chiudere il cerchio, restituendo il favore e dedicando all’America la sua ultima visita ufficiale da Cancelliera, restituendo idealmente a Joe Biden quella fiaccola democratica che Obama le aveva consegna­to. Sempre costruttiva e mai subalterna, Angela Merkel ha inseguito gli interessi geostrategici tedeschi anche e soprattutto quando diver­gevano da quelli dell’alleato americano, con Putin prima e, oggi, con la Cina di Xi Jinping. Appena qualche mese fa, in un formato abbastanza insolito, Emmanuel Macron, Angela Merkel e il presidente cinese si sono incontrati per un vertice dedicato al rilancio della partnership tra Unione europea e Cina con l’obiettivo, inviso agli americani e agli inglesi, di arrivare presto a un accordo commerciale com­plessivo. Americana con Biden, russa con Putin, cinese con Xi, Angela Merkel in questi anni ha saputo costruire una Germania mai così globale e mai così capace di far sentire la propria voce, il tutto sfruttando al massimo le leve europee (con Macron spesso utile comprimario ma raramente protagonista). All’estero come in patria il primo principio resta quello di realtà, il resto sono sovrastrutture.

Aprile 2020, l’anno del Coronavirus. Il mondo in lockdown, milioni di persone sono chiuse in casa, centinaia di morti al giorno, tornano d’attualità parole antiche: coprifuoco, quarantena. Angela Merkel, come tutti i suoi colleghi, si rivolge spesso alla nazione, interviene al Bundestag e sui media. Nel complesso il sistema istituzionale tedesco ha retto, i land e i sindaci si sono lanciati in qualche intemperanza ma nulla di troppo preoccupante, inoltre ristori e sostegni sono ar­rivati molto velocemente, garantendo la pace sociale. Dopo anni di schwarze null il governo ha promosso una serie di investimenti in deficit che non si vedevano da tre decenni. Era dal 1991, da Kohl, dall’anno della riunificazione che la Germania non si imbarcava in uno sforzo finanziario simile.

La pandemia è l’ultima grande crisi che Angela Merkel ha dovuto affrontare ma, anche qui, la Cancelliera si è trovata in una posizio­ne assolutamente originale. Unica leader di un grande paese con un passato nelle scienze dure, Angela Merkel ha compreso molto veloce­mente sia le implicazioni economiche che quelle mediche del Covid. C’è una sua conferenza stampa, diventata immediatamente virale, in cui con una naturalezza quasi sconcertante spiega come funziona l’andamento di una curva logaritmica in base ai vari fattori di conta­gio. Lo fa a braccio, senza fogli, senza un appunto. Nessun collabo­ratore aveva preparato quell’intervento. Angela Merkel in quell’oc­casione ha svelato un doppio tratto del suo carattere: da un lato la sicurezza di sé e dei propri mezzi, dall’altro la grande fiducia che ha sempre riposto nell’opinione pubblica tedesca. Mentre altri leader in altri paesi seguono il mantra comunicativo del dumb down (Silvio Berlusconi una volta disse: «il pubblico è un bambino di undici anni, manco troppo intelligente»), lei ha scelto la via più onesta. Accanto a questo approccio scientificamente rigoroso, la Cancelliera è stata attentissima a scusarsi, a volte anche in maniera accorata davanti al Parlamento, per ogni limitazione della libertà personale imposta ai suoi concittadini. Cresciuta in un paese dove i diritti civili erano una concessione che poteva essere revocata in qualsiasi momento (magari dopo una soffiata dei vicini di casa), Angela Merkel ha sentito in pieno il peso delle restrizioni e, forse per la prima volta in assoluto, ha cercato una connessione sentimentale con i tedeschi che, ancora una volta, l’hanno premiata.

Anche in Europa tutti guardavano alla Germania, non solo per la sua gestione della pandemia ma anche, forse soprattutto, per com­prendere quale sarebbe stato l’approccio dell’Unione alla più grande tragedia del suo tempo. A inizio pandemia l’UE non ha brillato per decisionismo; Christine Lagarde, a febbraio 2020, mentre l’Italia en­trava in lockdown, sosteneva non ci fosse bisogno di interventi stra­ordinari. Appena qualche mese dopo, a maggio, Francia e Germania hanno presentato un piano da 500 miliardi di euro che, molte notta­te insonni dopo, a luglio, si sarebbe trasformato in Next Generation EU. Senza Angela Merkel oggi il Recovery Fund non esisterebbe, è stata lei a rompere – in maniera inedita – lo storico asse tra Germa­nia, Olanda e “paesi frugali” per schierare tutto il peso tedesco con Francia, Italia e Spagna, è stata lei a definire il compromesso finale che ha permesso a Mark Rutte di non tornare in patria totalmente umiliato dagli scansafatiche mediterranei, è stata lei a placare po­lacchi e ungheresi dando ampie rassicurazioni riguardo le questioni legate allo Stato di diritto e, infine, è stata lei a voler aprire un credito non scontato al nuovo governo italiano guidato da Giuseppe Conte.

Nel tessere l’accordo, però, Angela Merkel non è stata mossa da affla­ti umanistici o, di nuovo, da più o meno fantasiosi momenti hamil­toniani (lei stessa ha detto che Next Generation EU è uno strumento temporaneo e Wolfgang Schäuble, oggi presidente del Bundestag, ha scritto sul “Financial Times” che la ripresa di lungo periodo passa in solido dalla disciplina di bilancio); si è limitata a rimanere fedele alle sue convinzioni di sempre: la Germania ha un interesse vitale nella sopravvivenza delle economie europee, in particolare quelle più integrate col sistema industriale tedesco e, soprattutto, la pandemia è stata un vero trauma esogeno, impossibile da prevedere e che ha col­pito tutti allo stesso modo. Se nella crisi dell’euro c’era, in fondo, un peccato, col Covid questa dimensione luterana dell’espiazione come strumento per redimersi viene meno e, dunque, la Germania non ha avuto problemi morali a fare la sua parte. Non un cambio di linea, ma un cambio di contesto. Come col crollo del Muro, come con Kohl, come con i migranti.

Secondo i sondaggi Angela Merkel rivincerebbe con facilità le elezio­ni. Il suo consenso personale – non solo in Germania ma nel mon­do – supera il 75% delle preferenze. Addirittura gli americani, di solito molto poco esterofili, la considerano la più importante leader mondiale contemporanea. La Cancelliera però ha fatto la sua scelta, non inseguirà un inedito quinto mandato e – forse per risarcimento postumo – non batterà neppure il record del suo vecchio mento­re accontentandosi (si fa per dire) del terzo posto assoluto, dietro a Kohl e a un certo Otto von Bismarck. Ma cosa rimane della sua lunghissima epopea? La CDU, stando agli ultimi sondaggi disponi­bili, rincorre a fatica una rediviva socialdemocrazia, Armin Laschet, candidato Cancelliere, manca del carisma e dell’esperienza necessaria per essere un erede credibile (gli elettori tedeschi, interpellati in un sondaggio, voterebbero Olaf Scholz a larghissima maggioranza se po­tessero eleggere direttamente il capo del governo), le due donne più vicine ad Angela Merkel, per motivi diversi, hanno lasciato l’agone politico nazionale: Ursula von der Leyen è a Bruxelles come presi­dente della Commissione europea, Annegret Kramp-Karrenbauer ha dovuto abbandonare la guida del partito dopo uno scandalo che ha visto l’elezione in Turingia di un candidato sostenuto da AfD. Come se non bastasse, le elezioni del 2021 potrebbero consegnare la guida del paese a una inedita coalizione SPD-Verdi-Linke, mandando l’U­nione fuori dal governo per la prima volta dal 2005. Gli elettori che Angela Merkel aveva conquistato col suo stile cannibale, capace di accogliere e fare proprie le proposte degli altri partiti (l’abbandono del nucleare, ad esempio, o le norme sul salario minimo volute dalla SPD), con la sua uscita di scena sembrano intenzionati a tornare a casa, mentre il gruppo dirigente della CDU si sta risvegliando dopo un sonno (e un sogno) durato quasi vent’anni.

Anche l’Unione europea sentirà la sua mancanza, nessun membro attuale del Consiglio europeo ha i suoi rapporti personali con ogni singolo collega, nessuno ha la sua memoria storica, nessuno ha la sua capacità di proporre – e a volte anche imporre – i necessari compro­messi. Si aprono degli spazi per Ursula von der Leyen, se davvero ha imparato la lezione della sua Cancelliera, ma il rischio è quello di un vuoto di potere che rischia di rendere il governo dell’Unione europea ancora più difficile.

La Mädchen che si fece Mutti, la Ossi che ha conquistato l’Ovest, la Cancelliera del mondo libero che dialoga in russo con Putin, la regina d’Europa come la chiama un account satirico su Twitter. An­gela Merkel è stata tutto questo e anche qualcosa di più, vera totus politicus, ha incarnato appieno l’idea della politica come massima professione intellettuale. Quando i giornalisti le hanno chiesto quale sarà la cosa più bella che si aspetta dopo le dimissioni, Angela Merkel ha risposto «non dover più prendere nessuna decisione».

Il nostro problema rimane chi le prenderà al suo posto.