È Biden l’uomo giusto?

Di Martino Mazzonis Martedì 23 Luglio 2019 12:08 Stampa


Secondo quanto raccontato dalla moglie Jill a “Vogue”, Joe Biden ha sciolto definitivamente la riserva sul correre o meno per le primarie democratiche del 2020 il giorno dei funerali di George W. Bush. L’atmosfera istituzionale, «il decoro e il rispetto reciproci» hanno convinto il senatore del Delaware per trentacinque anni, divenuto vice di Obama, che si possa tornare a quel tempo in cui la politica era anche decorosa.

Per certi aspetti la promessa politica di Biden è tutta qui. Nei suoi comizi non si perde in descrizioni puntuali delle politiche che in­tende adottare ma spiega che, per tornare a funzionare, le istituzioni americane hanno bisogno di compromessi, di negoziati e accordi tra i due principali partiti. Ha ragione da vendere: il sistema bipartitico e la democrazia USA si sono retti sulla capacità di trovare terreno comune, una volta più a sinistra, una volta più a destra a seconda dei tempi, del presidente e della composizione delle delegazioni demo­cratica e repubblicana a Washington. Negli otto anni da vicepresi­dente, Biden ha toccato con mano l’inadeguatezza del sistema quan­do non è possibile negoziare su nulla: il secondo mandato di Obama è stato caratterizzato soprattutto da ordini esecutivi (l’equivalente dei nostri decreti legge) perché con la maggioranza del Grand Old Party nei due rami del Parlamento non c’era modo di far passare una legge che avesse una qualche importanza.

L’altra caratteristica della candidatura lanciata da Biden a Filadelfia è quella di promettere esperienza di governo (“Io ci sono stato”, “I’ve been there”) e capacità di unire il paese dopo anni terribili di divi­sioni, odi, insulti, litigi. Per farlo si tratterà – sostiene il candidato democratico in testa a tutti i sondaggi dal secondo in cui è entrato nell’agone – di non essere estremi. Non nei toni, non nei contenuti. Tornare a essere migliori.

C’è davvero bisogno di questo? È possibile? È davvero Biden la figura adatta per unire l’America? La risposta a tutte queste domande è af­ fermativa ma in parte anche negativa. La domanda cruciale è, soprat­tutto, cosa significa oggi rimettere assieme il paese? C’è un terreno di centro dove farlo? È la moderazione la risposta? Forse, ma non nel modo in cui questa veniva in­tesa nei good old days, i bei vecchi tempi a cui si riferisce Biden.

Un primo assaggio della distanza tra tempi mo­derni e good old days lo abbiamo avuto nel pri­mo dibattito tra candidati democratici, quando la senatrice della California Kamala Harris ha colpito Biden per alcune posizioni politiche pre­se nel passato, quando l’America era dominata politicamente dai bianchi e certe questioni e temi declinati in una certa maniera apparivano come la normalità. Non è più così e gli attacchi di Harris si sono fatti sentire nei sondaggi (così come anche le buone performance di Elizabeth Warren e Pete But­tigieg). Se vuole rimanere a lungo il front runner, Biden dovrà fare i conti con il suo passato, non rivenderlo come usato sicuro.

I vecchi tempi in cui in Congresso ci si parlava, infatti, sono gli stes­si in cui a Washington e nel partito democratico sedevano ancora i Dixie democrats figure razziste che detestavano le leggi sui diritti volute dal presidente Johnson. E Biden, facendo riferimento a quei tempi, ha proprio citato figure politiche di entrambi i partiti con una storia di razzismo e suprematismo. La stampa e i social media non glielo hanno perdonato. Una tipica gaffe delle sue, politico noto per uscite e battute a sproposito? O un modo di essere e guardare alle cose non adatto all’America del 2020? I vecchi tempi infatti sono anche quelli in cui i democratici votarono la conferma del giudice Clarence Thomas alla Corte Suprema nonostante le accuse di molestie sessuali rivoltegli da Anita Hill. A guidare la commissione che interrogava Hill c’era proprio l’allora senatore del Delaware. La vicenda è natural­mente tornata prepotentemente di attualità durante le audizioni per la conferma del giudice Kavanaugh: per la seconda volta nella storia degli Stati Uniti i senatori hanno creduto all’uomo e non alla donna che lo accusava di molestie. Allora fu persino peggio: i membri della commissione che interrogarono Hill erano tutti e solo maschi bian­chi – lei è afroamericana, come l’ultraconservatore giudice Thomas. Ma i problemi che Biden potrebbe trovarsi a fronteggiare proprio a causa del suo passato moderato (in Italia avremmo detto consociati­vo), non finiscono qui. È stato infatti anche uno degli estensori della cosiddetta “Crime Bill”, una legge che ha reso più facile incarcerare le persone e ha di fatto contribuito alla detenzione di massa degli afroamericani e al boom dell’industria delle carceri private (attenzio­ne, però, quella legge fu votata anche da Bernie Sanders e nessuno glielo rinfaccia). Biden ha anche dovuto fare mea culpa sull’aborto perché nel 1971 ha votato un emendamento che proibisce l’uso di denaro dell’assicurazione medica pubblica Medicaid per le interru­zioni di gravidanza. La spiegazione data durante il forum di Planned Parenthood, l’organizzazione che ha consultori in tutto il paese e fa lobby e advocacy per il diritto delle donne a scegliere, non rispon­de a una delle critiche cruciali ma spiega la necessità di cancellare quell’emendamento per rendere più efficace il funzionamento delle assicurazioni sanitarie pubbliche che il candidato Biden promette di espandere. In ciascun caso siamo di fronte a passi indietro o affer­mazioni che possono non convincere l’elettorato giovane e più di sinistra, che è una componente importante della base democratica. Non a caso Biden ha sì un largo vantaggio, ma i concorrenti diretti alla sua sinistra, sommati, lo superano. Se fosse uno scontro a due o tre, insomma, l’ex vicepresidente avrebbe meno vantaggio.

Un altro tema serio e importante su cui l’ex senatore del quasi para­diso fiscale Delaware è in difficoltà è quello della tassazione. Durante una cena di raccolta fondi con la presenza di molti miliardari Biden ha detto: «Sapete che mi hanno criticato per aver detto che i ricchi sono patriottici quanto i poveri (…) non vogliamo demonizzare i ricchi (…). La verità è che tutti voi sapete cosa deve essere fatto. Possiamo essere in disaccordo su alcune cose ma la verità è che siamo tutti allo stesso timone e nessuno deve essere punito. Nessuno cam­bierà lo standard di vita, nulla cambierebbe radicalmente. Io non sono la rivoluzione (…). Le diseguaglianze sono un vero problema e permettono ai demagoghi di intervenire e dire che la ragione per cui siamo messi così sono gli altri (un attacco al populismo sandersiano), voi non siete gli altri. Ho molto bisogno di voi e se vincerò la nomi­nation non vi deluderò». Queste frasi non piaceranno a nessuno tra quanti spiegano che per ampliare i programmi di welfare o condurre una lotta seria al cambiamento climatico servono risorse da reperire attraverso l’aumento delle aliquote sui più ricchi. Si tratta di un’affer­mazione che è davvero distante dai toni della maggior parte dei suoi concorrenti. Biden sembra dimenticare come e perché le disegua­glianze sono cresciute: i nuovi miliardari pagano poche tasse grazie a buchi nel sistema fiscale – le grandi corporation, come Amazon, ad esempio, spesso riescono a non pagarne affatto – e le loro fortune crescono grazie agli investimenti finanziari. Questo non significa che Biden abbia un programma in continuità con gli anni Novanta: an­che per lui le diseguaglianze sono un tema cruciale, ma la proposta è quella di una riduzione delle tasse per i lavoratori e una espansione di Medicare e Medicaid, le due assicurazioni sanitarie pubbliche.

In materia di politica estera, di cui è un esperto, è un po’ tradizionalista e mediamente “falco” – che non vuol dire guerrafondaio. Il caos ucrai­no, diciamo, è anche un po’ demerito suo (non si fa qui riferimento alla controversia relativa alle pressioni sul governo di Kiev per dimenti­care un’inchiesta su un’impresa per cui lavorava il figlio Hunter).

Al fondo c’è una concezione della politica che interviene ma non troppo, che contribuisce allo slancio, che si adatta ai cambiamenti culturali – come ha fatto lo stesso Biden –, che risponde alle onda­te di sdegno. E che pone al centro grandi questioni morali, magari sottovalutate. Come il tema delle molestie sessuali nei college, su cui l’ex vicepresidente si è davvero impegnato molto. O come la lotta al cancro, che per Biden è diventata centrale dopo la morte di suo figlio Beau – che è la ragione tragica per cui non ha corso nel 2016 nono­stante lo stesso Beau gli abbia chiesto di farlo prima di morire, come racconta nelle belle e toccanti pagine di “Papà, fammi una promessa” (edito in Italia da NR edizioni) il libro spesso commovente dedicato alla sua vicenda personale recente.

E qui veniamo alla forza di un uomo che ha perso la moglie Neilia Hunter e la figlia Naomi in un incidente stradale nel 1972. E che poi ha visto morire da vicepresidente suo figlio. Lo stesso uomo che in tanti anni di Senato ha sempre preso il treno per andare e venire dal Delaware e che nessuno può tacciare di essere uno che cambia opinione solo per convenienza. Biden sa farsi capire, sa parlare ai bianchi della middle class povera ma è anche un navigato membro dell’élite di Washington che conosce le dinamiche politiche. Se urla una cosa nel microfono è perché ci crede. E se dice che occorrerebbe tornare ai bei tempi che furono lo fa perché davvero pensa che si possano ottenere risultati. Nonostante di fronte ci sia un partito re­pubblicano chiuso, rancoroso e totalmente nelle mani del presidente Trump. Un partito che per fare quello che Biden auspica dovreb­be cambiare profondamente. Difficile che ciò accada nei primi due anni della prossima presidenza per un problema tecnico: a presentarsi al voto saranno i membri uscenti del Congresso e i vincitori di primarie in cui i conservatori avranno ancora la meglio. Bi­den parla dei tempi andati anche perché sa che il suo elettorato è quello bianco e non giovane. In­teressanti in questo senso i sondaggi sulle secon­de scelte: chi preferisce Biden ha come seconda scelta Sanders e viceversa. Distanti politicamente ma maschi, bianchi, molto adulti.

Attenzione però a darlo per morto con gli afroa­mericani: Biden è il vice di Obama, il presidente nero ha scelto lui, è diventato suo amico e soda­le. E Biden ha ricambiato. L’affetto tra i due è reale e non è un caso se il primo spot di lancio della campagna per le primarie riprenda una pre­sentazione del vice fatta dal presidente durante la cerimonia di consegna della Medal of Freedom, la massima ono­rificenza americana non militare. E siccome tra i primi Stati a votare c’è la Carolina del Sud, dove gli elettori afroamericani democratici sono il 60% del totale, questo è un vantaggio. Ricordiamolo: avere un vantaggio iniziale in diversi Stati rende le candidature più credi­bili, genera attenzione, riduce il campo dei concorrenti. E Biden, tra l’altro, ha avuto il super vantaggio di essere la figura più nota tra i concorrenti. Anche per questo è balzato immediatamente in testa ai sondaggi. La sua forza è anche la teoria della eleggibilità. La formula recita: Biden è noto, rassicurante e dopo quattro anni di caos trum­piano è la persona che ci vuole. Abbiamo visto con Hillary Clinton, figura diversa e donna, certo, che la formula non sempre funziona.

Il vero grande dubbio sulla figura politica che appare oggi come il più probabile sfidante di Donald Trump è se sia davvero la scelta migliore per un paese in crisi di identità che ha bisogno di affrontare in maniera risoluta alcuni grandi nodi, emergenza climatica in testa. La prossima presidenza, per mille ragioni che vanno dal condominio globale con la Cina alla sempre rimandata riforma dell’immigrazio­ne, alle domande sociali delle minoranze richiederebbe grandi idee. Le stesse che sembrava incarnare Obama nel 2008 e che – a causa della crisi e della moderazione obamiana – produssero una certa de­lusione a sinistra. Undici anni dopo però le cose sono cambiate, i millennials sono adulti, le nuove generazioni sono cresciute con idee diverse da quelle dei loro genitori e mettono in dubbio alcuni pilastri di ciò che significa essere gli Stati Uniti d’America. Tornare ai tempi andati non è quel che vogliono. Questo significa che Biden sarebbe un cattivo presidente? Niente affatto: tutti ricordano e adorano JFK, ma le leggi sui diritti civili e le riforme sociali le ha fatte il texano Lyndon Johnson. Uno che Washington la conosceva e usava ogni mezzo per metterla in riga.