Più Europa e meno uniformità europea

Di Giuliano Amato Martedì 23 Luglio 2019 11:26 Stampa


Non ci attendiamo grandi trasformazioni nel funzionamento interno e nell’azione dell’Unione europea per il solo fatto che tutti, europeisti e antieuropeisti, hanno promesso che i cambiamenti ci saranno. C’è di mezzo la capacità di resistere al nuovo che le istituzioni europee hanno dimostrato in più occasioni di avere; e c’è l’attitudine dei lead­ers a evitare decisioni atte a modificare uno status quo in cui ciascuno, negli anni, ha trovato il suo spazio e le sue autodifese.

Dal voto europeo dello scorso maggio è tuttavia emerso un fatto nuovo: il successo elettorale dei sovranisti – che riflette la loro presa in molti paesi dell’Unione, in alcuni casi persino maggioritaria – e il loro maggior peso in un Parlamento europeo che, pur rimanendo con una maggioranza europeista, vede ridisegnati i tradizionali rap­porti di forza. È un male o un bene? A mio parere potrebbe essere un bene. Questo scossone elettorale potrebbe infatti trasformarsi nello sprone necessario affinché quel “pachiderma” che è diventata l’UE torni a muoversi. Se guardiamo a quanto avvenuto in questi ultimi anni, infatti, ci accorgiamo che buona parte dei difetti che l’Europa ha dimostrato di avere, degli errori e dei guasti politici che ne sono seguiti, sono imputabili essenzialmente al suo immobilismo rispetto a priorità che in più occasioni erano state individuate, ma sulle quali è poi mancato ogni tipo di azione.

Spesso, anche commentatori autorevoli, nel denunciare i difetti dell’Europa, individuano un facile bersaglio nell’inondazione di le­gislazione europea di dettaglio che, di per sé, non sarebbe prova di immobilismo, ma di attivismo. Si tratta però, in questo caso, del frutto dell’attività di quella macchina istituzionale e burocratica eu­ropea che non ha mai smesso di funzionare. A rimanere immobile, in questi anni, è stata invece la macchina delle decisioni politiche che contano, quella incarnata soprattutto dai Consigli dei ministri e dal Consiglio europeo. Facciamo i conti qui con un processo evolutivo che può essere spie­gato nel modo in cui lo ha fatto in un bel libro pubblicato alcuni anni fa un vecchio giornalista europeista, Giles Merritt, che contie­ne già nel titolo, “Slippery Slope”, il richiamo al declivio scivoloso lungo il quale stava scivo­lando l’Europa. A parere di Merritt, infatti, non hanno torto coloro che sottolineano i limiti della attuale burocrazia di Bruxelles. Nei primi anni dopo la nascita della Comunità europea essa era formata da persone motivate dalla voglia di dare concreta realizzazione al progetto europeo, che quindi avevano, anche se da semplici funzionari, una visione propositiva sul futuro possibile dell’Europa. Poi, pian piano, quando l’Europa, proprio per costruire se stessa, ha avuto bi­sogno di regolamenti, di direttive, di norme di dettaglio – che spes­so, non dimentichiamolo, sostituiscono con una norma uniforme quelle degli Stati in modo da evitare la frammentazione del mercato comune – è avvenuto che i funzionari hanno smesso di pensare a come realizzare al meglio il progetto europeo per concentrarsi invece sul singolo comma di ogni regolamento. L’orizzonte insomma si è via via ristretto. Anche il giovane Alberoni ci spiegava che l’amore prima genera l’innamoramento e poi sfocia nella molto meno ecci­tante istituzione matrimoniale. Il fenomeno europeo ha subìto una evoluzione simile.

Sarebbe però eccessivo imputare alla burocrazia di Bruxelles tutta la responsabilità per la situazione di stallo attuale. Affinché il sogno eu­ropeo possa continuare e trasformarsi in realtà è necessario che la pro­gettazione politica si prenda carico dell’introduzione di imprescin­dibili innovazioni. Il difetto principale non sta tanto nel fatto che si producono direttive e regolamenti per la vita comune, ma che questo non venga accompagnato, preceduto, incanalato da visioni che pro­spettano e impongono i cambiamenti che sono necessari. Abbiamo assistito così al dispiegarsi di una contraddittoria dinamica: da un lato il continuo profluvio di regolamenti e direttive frutto della dinamica della macchina; dall’altro l’immobilismo delle decisioni politiche.

Forse a qualcuno sembrerà sbagliato parlare di immobilismo, soprat­tutto se si prendono in considerazione i provvedimenti inediti assunti negli anni seguiti all’inizio della crisi economico-finanziaria e che ci hanno consentito, sebbene malconci, di sopravvivere alla tempesta, dal fiscal compact alla istituzione del meccanismo di stabilità. Non va però dimenticato che sin dall’ottobre del 2012, in un documento adottato dai quattro presidenti – presidente del Consiglio europeo, presidente dell’Ecofin, presidente della Banca centrale e presidente di turno – veniva indicato un ventaglio di riforme ritenute necessarie per evitare che il risanamento finanziario, ineludibile per i paesi con alto debito pubblico, con il suo rigore trascinasse con sé le economie e i livelli di protezione sociale di quegli stessi paesi. Tra le riforme indicate c’era quella di introdurre una “funzione di stabilizzazione”, con finanziamento ad hoc nel bilancio europeo, che permettesse di sostenere direttamente non i bilanci pubblici in via di risanamento ma le economie dei paesi in corso di risanamento, affinché il tas­so di investimento non risentisse dell’indebolimento della capacità di spesa dell’amministrazione, e gli stessi livelli di protezione sociale non scendessero al di sotto di un livello ritenuto minimo. Questa e altre proposte sono poi sta­te trasferite nei Blueprint della Commissione dell’anno seguente e poi, dopo le elezioni per il Parlamento europeo del 2014, in due successivi documenti dei presidenti, che nel frattempo da quattro erano passati a cinque con l’aggiunta del presidente del Parlamento europeo. Oggi molti si rammaricano per ciò che è accaduto in Grecia e si chiedono come sia potuto succedere. Do­mande ancor più significative se pensiamo che da sette anni l’indicazione del modo per evitare che questo accadesse giace in una serie di documenti su cui la macchina burocratica non poteva evidentemente operare da sola e rispetto ai quali è mancata la spinta decisionale degli Stati membri, prigionieri di una sfiducia reciproca che li ha paralizzati.

Nel frattempo, grazie anche a questa incapacità decisionale delle isti­tuzioni dell’UE, crescevano negli Stati nazionali le spinte sovraniste, che si facevano portatrici di una istanza per alcuni tratti condivisi­bile, ossia la richiesta di una difesa nazionale laddove l’Europa non si dimostrava in grado di offrire tutele. All’origine delle richieste dei cittadini che si riconoscono nelle idee sovraniste vi è forse soltanto un sentimento di legittima autodifesa da parte di ceti deboli che si vedo­ no abbandonati. Quegli stessi ceti deboli che, nei paesi del Sud Euro­pa più interessati dall’arrivo dei migranti, da qualche anno chiedono, paradossalmente, che l’Europa faccia di più per l’immigrazione.

Altro elemento da segnalare è la disattenzione che hanno avuto le forze politiche tradizionali rispetto alla lotta al cambiamento climati­co. Se non ci fosse stato il movimento promosso dalla giovane Greta Thunberg la questione climatica avrebbe continuato a rimanere in secondo piano e la sinistra avrebbe perseverato nel mettere l’ambien­te all’ultimo posto nei suoi programmi. Oggi si è invece venuto a cre­are un movimento consistente di giovani che, consapevoli di dover vivere il 2050, si chiedono se nel 2050 il pianeta sarà ancora vivibile. Chi conosce nei profili anche tecnici le discipline che riguardano l’ambiente e il cambiamento climatico sa che da anni l’azione por­tata avanti su questi fronti è frutto di normative europee alle quali gli Stati nazionali sono costretti ad adeguarsi. Del resto, imparammo molti anni fa che gli effetti dei cambiamenti climatici travalicano i confini degli Stati, passano da un paese all’altro senza che nessun muro riesca a fermarli. Anche in questo caso si può intravedere una nuova domanda di Europa.

Bisogna allora ricordarsi di quello che scriveva nel suo ultimo libro, “Guasto è il mondo”, Tony Judt, quando, constatato il trasferimento di molte decisioni che contano nella sfera sovranazionale, affermava che è importante che gli Stati rimangano tra i soggetti che parteci­pano al grande tavolo decisionale dell’arena globale. Coloro che ci arrivano da soli sono infatti i soggetti forti delle stesse arene naziona­li, mentre i soggetti deboli hanno bisogno che la loro voce, destinata altrimenti a rimanere inascoltata, sia portata in quei consessi proprio dai loro Stati. Da soli infatti non riuscirebbero mai a far valere le loro ragioni. Potrà allora accadere – e sta già accadendo, ad esempio, nel caso dell’immigrazione – che la maggiore spinta che gli Stati naziona­li possono avere in futuro dagli interessi rappresentati dai sovranisti si traduca in una pretesa di soddisfare di più le domande dei ceti che questi rappresentano non a livello nazionale ma, più opportunamen­te, al tavolo sovranazionale, essenzialmente al primo tavolo sovrana­zionale, che è quello europeo, e si impongano così con più forza le decisioni che non si è stati capaci di prendere negli ultimi anni.

Da questo punto di vista, il cambiamento che è intervenuto negli equilibri politici dopo le elezioni europee ha dentro di sé una forza che può divenire maggior spinta per il processo di integrazione, visto che è solo attraverso l’integrazione che si può dare risposta alle do­mande insoddisfatte che hanno portato a questa situazione politica. Ci auguriamo che gli europeisti prendano atto dello spazio che così si apre per riprendere il percorso dell’integrazione. Nel farlo farebbe­ro bene a rinunciare ai grandi disegni “sovrastrutturali”, per aprirsi invece ad azioni utili ad avvicinare le istituzioni europee ai cittadini. Oggi, per dirla in gergo europeo, è meglio essere ancora funzionali­sti, concentrarsi cioè su progetti sui quali vi sono domande di Euro­pa non soddisfatte e adoperarsi affinché queste domande trovino ascolto.

Sono da tempo convinto che avvicinare le isti­tuzioni ai cittadini significa fare in modo che le istituzioni per i cittadini contino. Il Parlamento europeo è vissuto oggi da molti europei come una strana agenzia di regolazione formata da settecento membri invece che da sette. Al di là del momento elettorale – che nell’ultimo caso è stato particolarmente sentito perché vedeva contrapposte in maniera netta due visioni an­titetiche – la sua attività non viene vissuta dai cittadini come qualcosa che li riguarda da vicino. Diverso sarebbe se il Parlamento europeo avesse ad esempio il potere di stabilire per legge i livelli minimi di protezione sociale al di sotto dei quali nessun paese può scendere, se avesse il potere di tassare – e quindi anche di detassare – in funzione di obiettivi di politica indu­striale o sociale, se avesse, insomma, il potere di incidere maggior­mente nell’offrire tutele economiche e sociali ai cittadini.

Di qui una regola della cui ineluttabilità bisogna convincere coloro che non ne sono convinti: per avvicinare di più i cittadini all’Euro­pa bisogna rafforzare i poteri delle istituzioni europee, non quelli degli Stati nazionali nei confronti delle istituzioni europee. È però anche necessario che ciò avvenga nel rispetto delle identità nazionali. Nell’insieme delle attività comuni occorre effettivamente imparare a riconoscere più spazio a tali identità e quindi regolare con meno uniformità e con maggior spazio per le diversità nazionali i fenome­ni che ricadono sotto la competenza europea. Questo significa più mutuo riconoscimento e meno uniformità. Per regolare uno stesso fenomeno ci sono infatti due modi già sperimentati nella nostra vita comune. Uno è quello di stabilire una unica regola per tutti; l’altro sta nel dire che dobbiamo accettare l’uno le regole dell’altro a patto che alcuni principi comuni siano rispettati da tutti. La chiave sta nel resistere alla tentazione dell’uniformità e riconoscere, come ha fatto negli anni la Corte dei diritti umani di Strasburgo, che nell’at­tuazione di principi comuni occorre mantenere un margine di ap­prezzamento per le diversità nazionali. È questo un fattore decisivo affinché i diversi europei si sentano rappresentati dall’Europa. In una costruzione complessa come quella europea, che ha per definizione quelle che in inglese si chiamano multilayer identities, le identità a più livelli, la democrazia si realizza quanto più ciascuna di queste identità trova il suo riconoscimento nell’insieme.

Un esempio molto persuasivo è quello del referendum europeo. Cosa c’è di più democratico di un referendum in cui tutti sono chiamati a scegliere se adottare o meno una data decisione? Eppure, nel caso di un referendum europeo le ragioni della democrazia non vengono rispettate in maniera ottimale se viene adottato il principio un citta­dino un voto, perché il voto che rappresenta le istanze dei paesi più piccoli verrebbe schiacciato da quello dei paesi più grandi. Il referen­dum europeo va quindi organizzato in modo che non solo ciascun elettore abbia diritto di voto, ma anche che ci sia un congegno di ponderazione che tenga conto delle diversità nazionali. A maggior ragione questo è vero negli ambiti decisionali che vanno oltre l’eco­nomia e che riguardano la sfera più intima dell’esistenza delle perso­ne: vita di coppia, procreazione, vita e morte. L’importante, certo, è non dare spazio a differenze che mettano a repentaglio regole basilari sull’organizzazione dello Stato, dalla divisione dei poteri al rispetto dei diritti fondamentali.

Se vogliamo che venga riconosciuta più autorevolezza alle istituzioni comuni e contemporaneamente vogliamo una loro maggiore vicinan­za ai cittadini europei dobbiamo rafforzarne la legittimazione dando alle identità nazionali lo spazio che meritano nelle decisioni europee e allo stesso tempo sottrarre allo Stato nazionale quelle decisioni che solo a livello europeo realizzano l’effetto di soddisfare i bisogni dei cittadini. E quindi prendere atto che nell’insieme, paradossalmente, occorrono più Europa di quella di cui ci siamo dotati sinora e meno uniformità europea in ciò che all’Europa facciamo fare.