Multilateralismo, de-occidentalizzazione e bi-globalizzazione: qualche riflessione

Di Alberto Bradanini Mercoledì 20 Settembre 2023 15:05 Stampa
Multilateralismo, de-occidentalizzazione e bi-globalizzazione: qualche riflessione Illustrazione di Emanuele Ragnisco

 

La tesi qui cautamente esposta muove dall’assunto che il mondo esterno a “The West” (da 6,5 a 7,2 miliardi d’individui, a seconda della “costellazione” di riferimento) è quanto mai eterogeneo. Una parte non è in grado di opporsi al dominio USA, una parte si posiziona bilanciata ma da posizioni gregarie, un’ultima parte gioca invece un ruolo da protagonista, nello sforzo di sottrarsi all’egemonia del sovrano imperiale. Alcuni di questi ultimi guardano poi a una prospettiva ideologicamente e istituzionalmente distinta da quella del politologo imperialista Francis Fukuyama, secondo il quale le nazioni sarebbero tutte destinate a precipitare nell’imbuto di democrazia liberale/economia di mercato: è solo questione di tempo. Una teoria finora smentita dagli eventi e partorita dalla destra americana che punta a legittimare la dottrina corporativa neocoloniale. «Il paradiso dei ricchi – affermava Victor Hugo – è fatto dell’inferno dei poveri», così come «l’arroganza dei potenti si nutre della passività degli oppressi», ma l’ontologia dell’immobilismo non durerà in eterno. Per il dizionario Treccani, intanto, s’intende per multipolarismo «quel sistema di politica internazionale, o anche interna di un paese, fondato sull’esistenza di più blocchi o gruppi di potenza». Esso si contrappone insieme al bipolarismo e all’unipolarismo, vale a dire al predominio condiviso con un altro soggetto e a quello egemonico di una sola potenza.
Scorrendo a volo d’uccello le principali teorie delle relazioni internazionali, vediamo che per l’idealismo (Immanuel Kant, Woodrow Wilson, Alfred Zimmern, John Maynard Keynes, Arnold J. Toynbee) e il neoliberalismo (Robert Keohane, Stephen D. Krasner) l’essere umano è al centro del palcoscenico, la guerra è una patologia e la sua scomparsa l’obiettivo principale. A dispetto della natura anarchica delle relazioni internazionali, la pace perpetua sarebbe raggiungibile attraverso l’interazione bi-multilaterale tra le nazioni, investendo sui nessi politici/economici e sviluppando istituzioni democratiche (quelle a suffragio universale) ritenute intrinsecamente pacifiche, sebbene tale assioma sia smentito dalla storia. Per gli idealisti poi le intenzioni contano più delle conseguenze di queste, e occorre battersi per i valori anche quando farlo può apparire ingenuo, lottando contro cinismo, apatia etica e insensibilità ai bisogni sociali.
Per la scuola realista (Thomas Hobbes, Hans Morgenthau, Edward Carr, Reinhold Niebuhr) e neorealista (Kenneth Waltz, Robert Gilpin), lo Stato è il principale protagonista della scena internazionale e il conflitto – pacifico o bellico, senza distinzione tra cosiddette democrazie e autocrazie/dittature – il carattere dominante. Un modello, questo, che tende a ripetersi con le medesime caratteristiche, senza riguardo a tempi e luoghi, e secondo il quale i rapporti interstatuali si basano sul potere e il loro motore principale è un punto di convergenza tra lotta per la supremazia e fissazione sulla sicurezza, che presuppone a sua volta la forza militare. In questo schema teorico, le ragioni politiche prevalgono su quelle economiche e tra i potenti che ne hanno fatto uso vediamo von Clausewitz, Otto von Bismark, Henry Kissinger, Richard Nixon, Charles de Gaulle, Iosif Stalin.
Per il marxismo/neo-marxismo (Lenin, Immanuel Wallenstein, Samir Amin, Giovanni Arrighi e altri), le relazioni internazionali sono invece caratterizzate (all’interno) dalla lotta di classe e (all’esterno) dalla rivalità tra i paesi dotati di armi, capitali, conoscenze e quelli poveri, da sottomettere e sfruttare. La centralità assiologica si basa sui rapporti economici, la sovranità nazionale, la lotta al colonialismo (occupazione militare) e al neocolonialismo (finanza, corruzione, ricatti economici), sempre compatti nella difesa di privilegi e ricchezze private.
Infine, per il postmodernismo, la teoria critica, l’istituzionalismo liberale e il costruttivismo – con qualche differenza tra questi –, i rapporti tra gli Stati devono fare i conti con l’attivismo di entità non statuali, organizzazioni multilaterali, governative e non, soggetti privati pacifici (media, internet, movimenti d’opinione) e anche violenti (terrorismo, apparati pubblici deviati o nascosti, milizie occulte ecc.). In sintesi, e con intuibili distinzioni, tali scuole di pensiero ritengono possibile raggiungere un sufficiente grado di stabilità, a prescindere dagli apporti di un potere unipolare benigno (solitamente ipotetico), sotto l’egida di organizzazioni internazionali funzionali e universalmente riconosciute (si veda, in specie, Robert Keohane).
Sin qui la teoria, che deve sempre fare i conti con le imprevedibili variabili del corso degli eventi, fonte perenne di sorprese, che rende arduo ogni processo ermeneutico e ancor più d’azione. Davanti alla categoria della complessità, poi, il ridotto spazio di un articolo rende apodittica qualsivoglia asserzione, e richiede dunque l’indulgenza del lettore. Violando tuttavia la saggia consegna di astenersi da ogni previsione, soprattutto quando riguardano il futuro, si tenterà un’approssimazione cognitiva di alcuni scenari, muovendo dall’analisi dei due neologismi del titolo.
Nonostante il giogo di una propaganda orwelliana, l’air du temps lascia intuire un salutare bagno di de-occidentalizzazione, o meglio de-americanizzazione, graduale ma tangibile in gran parte del mondo non-occidentale, seppure secondo tempi, sensibilità e contesti diversi. Non si tratta di una sfida al canone valoriale delle interrelazioni economiche, culturali e via dicendo (per non parlare del mescolamento di grammatiche di vita, usi e costumi, che continuerà comunque il suo corso), quanto di una campagna storica per la riconquista di sovranità e indipendenza d’azione, presupposto strutturale affinché anche i popoli oppressi possano generare benessere e contenere la bulimia d’arricchimento infinito delle oligarchie globaliste. È dunque intuibile la ragione per la quale tale disegno è avversato dal corporativismo militarizzato dell’impero atlantico.
Il secondo neologismo – che la narrativa dominante impone senza alcuna prova quale minaccia ai superiori valori del “Regno del Bene” – appare di ancor più agevole confutazione. Un’ipotetica bi-globalizzazione USA-Cina, sul modello Stati Uniti-Unione Sovietica (fino al 1991) è quanto mai distante dall’evidenza. Il pianeta sarà plurale. Il momento unipolare USA è tramontato agli inizi del secolo in coincidenza con due eventi, il robusto affermarsi della Cina e il ritorno della Russia dopo il decennio distruttivo di Eltsin. Se poi a vent’anni di distanza, la cogestione del pianeta da parte di un ipotetico gruppo di happy few è anch’essa fuori dai flussi prevedibili della storia, è ancor meno realistica una mitologica conduzione sino-americana del pianeta, sia alla luce della totale indisponibilità USA a ogni genere di condivisione, sia per l’affermarsi (e che si aggiungono al peso bilanciatore della Cina) di soggetti tutt’altro che marginali: Russia, beninteso, e poi India (i cui tassi di crescita e demografia hanno superato la Cina), Brasile (e Sud America), Indonesia (e Sud-Est asiatico) e un giorno non lontano l’Africa tutta.
Tale orizzonte non riguarda l’Europa, continente in accelerata via di emarginazione, prima o poi anche economica, essendo ormai un mero e afono “protettorato” occupato da 78 anni da truppe americane (la NATO è un’entità militare aggressiva euro-atlantica agli ordini di generali USA), e sul piano domestico un’entità indefinibile se non per quello che non è (né federazione, né confederazione, né Stato unitario), retta da norme illeggibili e da una burocrazia al servizio delle potenti corporazioni globaliste, e profumatamente pagata per imporre le politiche antisociali di un fallimentare neo-ordo-liberismo, anch’esso agli ordini di Wall Street/City di Londra. E a farne le spese sono, ma non solo, i paesi gregari e sprovveduti come l’Italia.
Nel prevedibile futuro l’affermarsi di una pluralità di soggetti, pur con diverso peso specifico, crescerà parallela con la difesa/recupero di sovranità e risorse (non vi sono segnali, però, che tale evoluzione riguarderà i paesi europei). Certo, il potere abusivo del sovrano autoincoronatosi padrone del pianeta verrà difeso con unghie affilate, alimentando discordia, tensioni e conflitti, ricorrendo all’ombra minacciosa delle 800 basi militari sparse nel mondo, per continuare a opprimere e sfruttare. Quell’attempato sovrano, tuttavia, troverà pane per i suoi denti, e prima o poi dovrà accettare di tornare ad essere un paese normale, non la sola nazione indispensabile al mondo, secondo la patologia lessicale di Bill Clinton (1999). Quanto al mondo emergente-resistente, esso tende a identificarsi in specifici raggruppamenti, in primis i BRICS (Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica), poi la SCO (Shanghai Organization Cooperation), l’Unione economica euroasiatica e altri regionali, in Asia, Africa e in America Latina, dove cresce l’insofferenza verso l’egemonismo militar-finanziario dell’impero unipolare.
A quella barriera multipolare di contenimento deve aggiungersi la RCEP (Regional Economic Cooperation Partnership), la più grande area di libero scambio al mondo (oltre 30% della popolazione e del PIL mondiale) che insieme ai paesi ASEAN e alla Cina include gli “occidentali” Australia, Giappone, Corea del Sud, Nuova Zelanda e Singapore, alimentando l’irritazione del sovrano bi-oceanico.
Infine, qualche dato: al 31 dicembre 2022, il PIL complessivo dei paesi G7 è stato di 43.538 miliardi di dollari in potere d’acquisto internazionale (PAI) e di 49.186 miliardi in parità di potere d’acquisto (PPP). Per i BRICS, i dati sono rispettivamente di 26.227 miliardi e 51.117 miliardi di dollari, dunque già ora superiori. Se ai BRICS si aggiungono Argentina, Algeria, Iran, Arabia Saudita e Turchia, tra quelli che hanno chiesto di aderirvi, il PIL (al 31 dicembre 2022) è stato di 29.500 miliardi di dollari in PAI e di 60.000 miliardi in PPP. Resta pacifico che se al G7 si sommano le nazioni occidentali che non ne fanno parte, la ricchezza del mondo sviluppato resta maggiore. Le distanze tra i due contesti si vanno però accorciando sempre più, poiché il mondo emergente ha tassi di crescita più elevati. La linea divisoria non è dunque tra Cina e Stati Uniti-Occidente-mondo, ma tra Occidente a guida USA, da una parte, e Cina-resto del pianeta, dall’altra.
Per ora, la prima economia al mondo restano gli Stati Uniti, di gran lunga anche la prima potenza militare (secondo il SIPRI di Stoccolma, il bilancio militare degli USA equivale alla somma di quelli delle dieci nazioni che seguono in graduatoria, ivi comprese Cina e Russia). La Cina segue a ruota, media potenza militare, ma grande potenza economica e in ottimi rapporti con la Russia, a sua volta media potenza economica (più che media, invero, disponendo di immense risorse materiali-energetiche) e grande potenza militare. Gli schieramenti di un tempo sono sottoposti a usura, come rivela il variegato posizionamento su guerra in Ucraina e sanzioni USA-UE: la maggioranza dei paesi ha formalmente condannato la Russia, ma non si è piegata alle ingiunzioni sanzionatorie occidentali, suscitando l’irritata sorpresa di Europa e Stati Uniti.
In conclusione, il mondo non vede un orizzonte di bi-globalizzazione, ma semmai la graduale, benefica de-americanizzazione all’interno di una multi-globalizzazione a presenza modulare.