Quando il lavoro non basta

Di Fabrizio Pirro Mercoledì 14 Maggio 2014 16:14 Stampa

Uno degli effetti della crisi è che il lavoro non basta più, sia perché non ce n’è per tutti sia perché non è più sufficiente a garantire il tenore di vita a cui le famiglie erano ormai abituate. Questo problema interessa in particolare il ceto medio, che ha subito non solo un netto peggioramento delle proprie condizioni economiche, ma, soprattutto, un ridimensionamento delle aspettative di avanzamento sociale normalmente riposte nei figli.

Una sensazione di precarietà pervade oggi il “ceto medio”, indipendentemente dalla sua reale giustificazione. È la conseguenza di un cambiamento significativo nella vita quotidiana di chi era riuscito a far prendere al proprio destino, grazie all’istruzione, una strada diversa da quella dei suoi genitori. Di chi era riuscito, grazie al suo lavoro, a garantire a sé e alla sua famiglia una certa agiatezza, economica e non solo. Agiatezza che si concretizzava in una casa comoda per una famiglia con due o tre figli, con elettrodomestici in cucina e in “sala da pranzo” acquistati a rate, nella garanzia di vacanze ristoratrici una volta all’anno, in un’automobile per viaggiare comodi, in un vestire e un mangiare dignitosi per tutta la famiglia e nella immancabile partecipazione alle tante feste, comandate e no, segno di appartenenza a una fitta rete di legami di parentela.

Il lavoro dava una buona retribuzione e prospettive di carriera, quindi soddisfazione immediata e potenziale. Molte volte si affiancava al reddito del capofamiglia quello della moglie, occupata in professioni che permettevano di conciliare attività lavorativa e impegni famigliari, come quelle di maestra o di segretaria in qualche studio. Anche in questo caso, quindi, c’era la soddisfazione di integrare il reddito famigliare e la possibilità di una vita attiva diversa da quella della propria madre e impensabile per la madre della propria madre. Le entrate erano di fatto sicure e permettevano di guardare a lungo termine, da un lato immaginando una vecchiaia tutelata dal regime pensionistico e dall’altro prospettando per i propri figli uguali se non migliori condizioni di vita, grazie alla possibilità di farli studiare e diventare così ingegneri, medici o avvocati. Quando questo meccanismo si è inceppato, si è iniziato a cercare il colpevole: chi lo ha trovato nell’euro, chi nell’Europa e nelle sue regole, chi nel malgoverno, chi nel sistema di governo. Qui non vogliamo avventurarci su questo terreno. Ci interessa, invece, cogliere gli effetti di questa crisi dalla prospettiva del mondo del lavoro. Soffermarci sul fatto, cioè, che la crisi è percepita come grave perché incide allo stesso tempo sul presente e sul futuro. Perché corrode proprio i pilastri sui quali era stato edificato il precedente mondo di certezze. Perché diffonde un senso di vulnerabilità in quei soggetti che se ne sentivano finalmente lontani e facevano proprio di questo la loro affermazione sociale. Il carattere assunto oggi dal lavoro fa sentire allora questo gruppo sociale colpito più di altri, perché mette in discussione ciò su cui aveva costruito la sua identità. Che cosa è successo? Per semplificare: il lavoro non basta più. E ciò con due significati. In primo luogo, non basta più perché non ce n’è per tutti. Il problema della disoccupazione è un problema evidente nella sua cogenza. La mancanza di reddito stronca qualsiasi prospettiva sul nascere. Avvicina più rapidamente alla povertà. Impedisce di ragionare sul futuro. Non è ovviamente perdere il lavoro il problema in sé, quanto piuttosto trovarsi in un mercato che non ne offre altri, soprattutto per persone che hanno superato i 45-50 anni. Ma fortunatamente tale fenomeno non riguarda questo gruppo in maniera significativa, toccando ad esempio meno il pubblico impiego e le banche e interessando, invece, soprattutto la produzione industriale, dove i colletti bianchi non sono mai stati una presenza significativa. Certo, chi ci si trova invischiato è costretto a forme contrattuali dalla durata instabile e dalle poche garanzie. Ed è crisi.

La scarsità di lavoro, però, si riverbera anche sul futuro: rende incerto il futuro dei figli. Su di essi si era investito in affetti, aspettative e anche denaro, con l’università, magari i corsi di lingua (e l’immancabile apparecchio per una dentatura in ordine), e ci si sente ora incapaci di garantire loro una qualche sicurezza che permetta di avere una casa, costruire una famiglia, proseguire nel percorso immaginato. E il senso di precarietà monta. E qui si innesta un gioco complicato tra le aspettative negate, le prospettive immaginate e la concretezza dei fenomeni. Sappiamo infatti che, malgrado tutto, l’università è comunque un buon viatico per trovare un’occupazione, visto che la finiscono in pochi. Il problema della coerenza tra quanto appreso e il lavoro svolto c’è, ma le indagini AlmaLaurea evidenziano che i laureati trovano una occupazione dopo due o tre anni dalla fine degli studi, con caratteristiche che indicano anche una sostanziale vicinanza tra quanto appreso e quanto richiesto per lavorare. Malgrado ciò, l’immagine della precarietà finisce invece per insinuarsi nel progettare la propria vita, portando tanti studenti a immaginare una strada senza uscita, ad abbandonare gli studi e ad affacciarsi prematuramente sul mercato del lavoro, nel quale trovano occupazioni instabili, poco gratificanti e per niente garantite, figuriamoci se garantiste (questo riguarda più i maschi che le femmine, che ormai hanno capito l’importanza della formazione e riempiono tenaci le aule di qualsiasi corso di studio). Certo, l’occupazione scarseggia, ma il vero effetto della precarietà è, per i figli del ceto medio, più nel sentirsi precari che nel vivere condizioni assimilabili alla precarietà, visto che poi si rimane con i genitori, si hanno un tetto e un pasto garantiti, magari anche le vacanze e il tempo libero spesato. E però intanto si passa da un lavoro instabile all’altro, con contratti di collaborazione o, per i più “fortunati”, di somministrazione, senza una reale prospettiva di carriera e, quindi, di emancipazione. Comunque temporanei. La scarsità è, insomma, quella di lavori capaci di fornire garanzie e gratificazioni. Lavori da ceto medio, quindi.

Ma anche il lavoro dei padri e delle madri, che c’è, non basta più: non è più fonte di garanzie e soddisfazioni per chi lo svolge. Da un lato la sicurezza di una pensione che, tutta legata all’ammontare di quanto versato dei propri stipendi negli anni, diversifica la propria immagine di futuro da quella degli altri, stratificando ciò che prima era più omogeneo. Il sistema sanitario garantisce molto meno di prima l’assistenza, legandola in maniera esplicita al reddito. E l’idea di trovarsi in una condizione di decadenza viene rinforzata, ad esempio, con il rito del calcolo dell’ISEE (che sta per Indicatore della situazione economica equivalente), sulla base del quale per la maggioranza di questi soggetti il reddito famigliare risulterà superiore a quello che può garantire l’accesso a sgravi fiscali, a prestazioni meno onerose e così via, rinforzando la convinzione di essere svantaggiati piuttosto che avvantaggiati, perché non si è più in grado di accedere agli stessi servizi di un tempo.

Dall’altro lato i lavori offerti hanno perso anche di appeal. E ciò sotto diversi punti di vista. In primo luogo la retribuzione. Gli stipendi sono ormai fermi e, combinati con l’aumento del prezzo dei prodotti, non permettono di tenere uno stile di vita e di consumo agiati. E la speranza di un loro aumento è ridotta dalle difficoltà di carriera. Nel pubblico impiego il blocco dei concorsi non fa intravedere l’agognato posto da capoufficio o da responsabile di una segreteria; nel privato organigrammi sempre meno piramidali offrono al massimo carriere orizzontali, tra un lavoro e l’altro. E anche qui, quale lavoro? Qual è la sua qualità, ovvero il suo contenuto e le condizioni nelle quali lo si svolge? È un lavoro che chiede di responsabilizzarsi, ma che non offre in cambio né una maggiore retribuzione, né gratificazioni evidenti. Lo si svolge sempre sotto pressione, con scadenze ravvicinate, con modalità in continua ridefinizione. Nel pubblico impiego (ma non solo), poi, in strutture in gran parte da rinnovare, con tecnologia molte volte obsoleta: computer e macchine fotocopiatrici ormai rapidamente invecchiati e la burocratica lentezza per l’acquisto di un toner o della carta per stampare. Con colleghi nelle stesse condizioni, non avvezzi però alla solidarietà e, quindi, alle rivendicazioni collettive. Si rimane così in un limbo, rispettando le regole perché non si riuscirebbe a violarle, educati come si è al loro rispetto. E il solo rispetto delle procedure non è più l’unica cosa che venga richiesta come un tempo, quando era fonte di gratificazione e anche di certezze del proprio operato. Se si lavora in una scuola, come maestra, professore o professoressa, ci si avvizzisce nella routine quotidiana di un sistema che chiede più di prima, con riunioni per consigli di istituto, di classe e di ambito, programmazioni, attività parallele, erodendo così la risorsa tempo prima offerta da questo lavoro. Ed era una risorsa che dava status, che permetteva soprattutto alle donne di conciliare lavoro e famiglia. Così monta anche il senso di colpa di non riuscire più a seguire i propri figli. Se poi c’è un parente anziano da accudire, la scarsità di tempo e di servizi moltiplica i problemi, ai quali si riesce a fare fronte solo con la combinazione delle risorse economiche della famiglia in senso lato, magari pagando una badante tra fratelli.

Tra le vittime del passaggio da una società nella quale avere un lavoro significava possedere le chiavi di tante porte a una nella quale, pur lavorando, si riducono le opportunità abbiamo quindi sicuramente chi da tutto questo ha subito un chiaro peggioramento delle condizioni di vita, sue e della propria famiglia. Il grande ventre sociale del ceto medio, infatti, ha visto via via affievolirsi sia le speranze di miglioramento che quelle, ormai difensive, di mantenimento della propria condizione e assiste indifeso all’erosione di quanto era riuscito a ottenere nei decenni del boom italiano. C’è però anche un’altra vittima. C’è chi aspirava a essere ceto medio e sta vedendo queste speranze negate. C’è chi, da operaio, con gli sforzi di una vita, è malgrado tutto riuscito a far studiare uno o più dei suoi figli all’università, sperando in un riscatto sociale generazionale, e scopre che la promessa di emancipazione di una società più democratica è stata tradita. Che forse per i propri figli non è disponibile neanche un lavoro in fabbrica. O, se lo è, ciò è possibile solo accettando condizioni prima ritenute insostenibili, come nel caso eclatante degli stabilimenti FIAT di Pomigliano d’Arco e Mirafiori. E di altri, ben più numerosi, dei quali non sappiamo né nome, né localizzazione.

L’esaudirsi della promessa di un lavoro per tutti e di un lavoro che sia fonte non solo di reddito ma anche di soddisfazione personale è, quindi, ancora da venire. Eppure, ciò non dovrebbe diminuire gli sforzi di politici e studiosi per renderla, almeno in parte, realizzata. I margini di azione ci sono, sia su base legislativa sia con l’intervento sui luoghi di lavoro, cercando di migliorare l’efficienza organizzativa senza andare a discapito della qualità dei lavori offerti. È possibile, gli strumenti tecnici e scientifici ci sono. Occorre solo ridare fiato a una idea di società più giusta e più equa. Il contrario, insomma, di quella nella quale ci stiamo sempre più profondamente immergendo.

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