Editoriale 10/2012

Di Italianieuropei Venerdì 30 Novembre 2012 11:51 Stampa

Per la seconda volta gli americani hanno scelto Barack Obama. È, quello dello scorso 6 novembre, un voto che, come hanno sottolineato quasi tutti gli analisti, rispecchia il cambiamento che già sta interessando l’elettorato statunitense: la sempre maggiore incidenza del voto delle donne, dei giovani, delle minoranze. Testimonia però anche della volontà del popolo americano di proseguire lungo la strada del cambiamento avviato già quattro anni fa, del desiderio di lasciarsi definitivamente alle spalle l’epoca del predominio repubblicano, dello strapotere delle ricette neoliberiste, considerate ormai elemento scatenante della crisi di cui gli Stati Uniti stanno pesantemente pagando le conseguenze, più che sua possibile soluzione.

C’è un dato, forse il meno citato quando si parla dei bacini elettorali che hanno riconfermato Obama alla presidenza, che riguarda la classe di reddito degli elettori che si sono espressi in favore del candidato democratico e di quello repubblicano. Obama ha infatti ottenuto il consenso della maggioranza (60%) degli elettori con un reddito inferiore ai 50.000 dollari, e del 62% (a fronte del 35% di Romney) delle persone con redditi familiari inferiori ai 30.000 dollari. Ha in sostanza raccolto il sostegno di quella classe media o medio-bassa che non solo rappresenta la spina dorsale della società americana, ma che sta pagando più di ogni altra il costo della crisi, sia in termini occupazionali che di riduzione del potere d’acquisto. In molti hanno osservato che mai un presidente americano era stato rieletto con tassi di disoccupazione all’8% (proprio quello registrato in questi mesi negli Stati Uniti), in presenza di 23 milioni tra disoccupati e sottoccupati, con un declino del ceto medio. Obama ha smentito tale previsione proprio perché a questa classe media, a questi elettori in difficoltà, ha saputo offrire in alcuni casi (ad esempio per i lavoratori del settore dell’auto del Midwest) una risposta concreta, a tutti, almeno la speranza di riuscire, prima o poi, a tirarli fuori dalle secche della crisi economica. E gli americani hanno voluto dargli nuovamente fiducia.

È in questi due termini, speranza e fiducia, che crediamo stia la chiave di volta dell’ennesima prova di vitalità che la democrazia americana ci ha dato in queste settimane, da cui forse, anche noi europei e italiani, potremmo trarre qualche insegnamento. Sta nella capacità di un leader, persino nella crisi più nera, di indicare una via di uscita dal tunnel, di farsi carico dei bisogni, sempre più grandi e urgenti, tanto di chi lo ha sostenuto quanto di chi non lo ha mai appoggiato; nella capacità di elaborare un’alternativa, in questo caso specifico un’alternativa all’austerity, che sappia coniugare risanamento del deficit con politiche di sostegno dell’occupazione e investimenti di lungo periodo.

È proprio rimettendo al centro dell’agenda i problemi reali dei cittadini, ancora più gravi in questo momento di crisi, che anche qui, nel nostro paese, si può pensare di ricucire lo strappo che si è aperto tra politica e cittadini, di attenuare quel sentimento di sfiducia nell’operato delle classi dirigenti testimoniato dai sempre più allarmanti dati sull’astensionismo e dal voto di protesta a sostegno di alcune forze politiche emergenti.

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