Come cambiano le preferenze politiche dei lavoratori

Di Mimmo Carrieri Martedì 28 Gennaio 2020 09:59 Stampa

Le elezioni politiche del 2018 hanno reso evidente un gigantesco cambiamento negli orientamenti elettorali: al grave insuccesso del PD e di tutte le forze di centrosinistra ha fatto da relativo contrap­peso il buon risultato conquistato da esse nei quartieri centrali di alcune aree urbane, in passato spesso marcatamente spostati a destra. Il caso più clamoroso riguarda il quartiere romano dei Parioli, con­siderato tradizionalmente di destra o addirittura di estrema destra, e negli ultimi anni divenuto invece uno dei principali terreni di caccia della sinistra. Questo è sicuramente un fenomeno interessante. Ma è ancora più importante sottolineare l’evento – non solo italiano – del massiccio spostamento a destra di larga parte dei lavoratori. In particolare di quella che gli anglosassoni chiamano la working class: lavoratori, non solo dell’industria, ma anche dei servizi, impegnati in attività manuali ed esecutive, come gli operai e in generale i blue collars. Se non fa più notizia il voto a destra (o non a favore dei partiti pro labor) degli operai e dei lavoratori, negli ultimi anni si è verificato il diluvio: non è un caso che l’Italia sia, tra i paesi europei importanti, l’unico ad avere visto il successo maggioritario delle formazioni che per comodità definiamo “neopopuliste”, le quali hanno largamente beneficiato di questi nuovi orientamenti.

Per inquadrare le tendenze attuali va detto che la prima osservazio­ne da cui partire è che in Italia il “voto di classe” nel dopoguerra e per lunghi decenni è storicamente risultato comparativamente più debole rispetto ai paesi del Centro e del Nord Europa. Nell’Italia politica dal 1945 al 1993 questa più ridotta connotazione di classe era divenuta possibile in ragione della presenza di due grandi partiti, il Partito Comunista e la Democrazia Cristiana, che per le loro carat­teristiche riducevano la polarizzazione classista presente in altre realtà nazionali: infatti anche la DC aggregava una parte del voto operaio (e più in generale dei lavoratori), che per ragioni ideologiche e/o religiose non veniva catturato dal PCI.

Questa fragilità originaria del voto classista, presente in quella che è stata definita la “Repubblica dei partiti”1 e che era caratterizzata dalla forza di grandi partiti di massa, dotati di un ampio insediamento sociale, si è accentuata nella fase politica successiva, avviata dal successo elettorale del centrodestra di Berlusconi (1994). Una fase politica in cui non solo i protagonisti politici sono materialmente cambiati rispetto al passato (spariscono tutti i principali partiti storici); ma soprattutto essi, anche a sinistra, diventano organizzativamente e socialmente più deboli: in altri termini finisce l’era dei partiti di massa, che vantavano diversi milioni di iscritti, in parte larga e significativa reclutati tra gli operai e i lavoratori. All’interno di quel nuovo ciclo politico le appartenenze tradizionali dei lavoratori tendevano a ridursi e così i loro voti diventavano da subito di fatto più contendibili. E in effetti sul piano delle tendenze elettorali si è assistito a due fenomeni entrambi importanti.

Il primo consiste nel fatto che le due principali coalizioni di destra e di sinistra, le quali sono state egemoni fino al 2013 (il periodo nel quale si sono periodicamente alternate al governo), nelle occasioni in cui hanno vinto le elezioni lo hanno fatto conquistando la mag­gioranza dei consensi dei lavoratori dipendenti come condizione di successo.

La seconda è che pure la coalizione di centrodestra, costituitasi intor­no a Berlusconi, e molto più connotata a destra rispetto alla vecchia Democrazia Cristiana, anche in virtù del ruolo importante attribui­to al partito postfascista (ribattezzato come Alleanza Nazionale), ha intercettato in modo consistente il voto di ampie fasce di lavoratori dipendenti (che si aggiungeva a quello già diffuso degli autonomi). In particolare questa capacità di attrazione si riferisce, come mostrano gli studi elettorali,2 ai lavoratori dipendenti privati, e in modo specifico agli operai, e agli altri gruppi più deboli sul piano professionale e cultu­rale. Invece per tutto questo periodo i lavoratori pubblici hanno votato stabilmente in modo maggioritario, più o meno ampio a seconda delle occasioni, per la coalizione politica di centrosinistra.

Dentro questo quadro generale, di relativo (ma sintomatico) successo di Berlusconi verso la working class, si evidenziava già, nei primi anni Novanta del secolo scorso, la forza peculiare della Lega (all’epoca Lega Nord) presso gli operai delle Regioni settentrionali: anche quelli iscritti alla CGIL, tradizionalmente orientati a sinistra. Questa tendenza so­ciale è restata costante per tutti gli ultimi venticinque anni. Una quota consistente di operai, anche tra quelli iscritti alla CGIL, ha comunque continuato a votare per la Lega (e molti altri per il centrodestra). Inol­tre le rilevazioni, condotte sia attraverso sondaggi che ricerche, hanno messo in luce come una parte significativa degli operai – e in generale dei blue collars – si trovasse maggiormente in sintonia con le posizioni della Lega ostili verso gli immigrati, anche quando essi continuavano (ancora) a votare per i partiti pro labor classici.

I NUOVI IMPRENDITORI POLITICI

Quali sono le novità intervenute nel corso degli ultimi anni rispetto a questo scenario, che già da tempo segnalava il superamento, ormai consolidato, della residua propensione verso il voto di classe? L’inter­minabile crisi economica italiana, iniziata nel 2009 e non ancora del tutto assorbita, e inoltre aggravata dalla stagnazione della produttività, ha contribuito a favorire una accentuazione dei processi e dei feno­meni che si erano già manifestati negli anni precedenti. In particolare questa evoluzione è stata resa possibile dalle dinamiche intervenute all’interno del sistema politico e dai cambiamenti che si sono delineati nell’offerta politica. Sul versante della sinistra nasce (2007) il Partito Democratico, erede della tradizione di sinistra postcomunista e post-democristiana, che si presenta sin dai suoi tratti genetici con una carat­terizzazione laburista più sfumata rispetto ai suoi predecessori politici. Ma, soprattutto, il panorama italiano vede la nascita e l’affermazione progressiva di nuovi attori politici, che possiamo considerare come nuovi imprenditori politici e che diventano in corso d’opera competi­tivi su questo versante. Questi tendono a occupare, in particolare negli anni più recenti e in modo via via più accentuato, uno spazio sociale non presidiato in modo adeguato dai classici partiti pro labor (dell’area di centrosinistra). Anche per la ragione che questi partiti, in primo luogo il più importante tra essi, il Partito Democratico, sono diventati nel corso del tempo meno laburisti, se li si misura sotto il profilo de­gli interessi sociali messi al centro della loro strategia o effettivamente rappresentati. Questa minore sensibilità e minore rispondenza verso le tematiche del mondo del lavoro e le richieste dei lavoratori viene anche radicalizzata nel periodo 2014-16 dalla scelta operata dai governi di centrosinistra (in particolare quello presieduto da Renzi) di coltivare rapporti più deboli, se non apertamente conflittuali, con i sindacati: cosa che allontana drasticamente il ricorso, avvenuto in precedenza, a politiche di accordo e concertazione – sul modello dei patti sociali europei – tra governi e parti sociali. Mentre cresce la distanza tra gli attori politici classici e i lavoratori e le loro rappresentanze, al contrario questi nuovi attori colgono e interpretano il malessere sociale diffuso, che diventa evidente dopo il 2011, in modo sempre più accentuato. Il primo di essi è il Movimento 5 Stelle, un soggetto completamente inedito. L’altro soggetto è la Lega, un partito già esistente, ma che viene per così dire rifondato, e che da Lega Nord diventa Lega (e poi in se­guito Lega per Salvini premier) mostrando una capacità di penetrazio­ne crescente e che va anche largamente oltre le regioni del Settentrione.

Questi due partiti – uno dichiaratamente e radicalmente di destra (la Lega) e l’altro che nasce in modo conclamato contro il cleavage storico destra-sinistra (Movimento 5 Stelle) – costituiscono le due incarnazioni pratiche del populismo all’italiana: cosa che renderà poi possibile la loro esperienza di governo di coalizione tra il 2018 e il 2019. Per quanto antropologicamente e politicamente diversi, en­trambi questi soggetti presentano alcuni caratteri comuni, come lo scetticismo o la critica aperta verso l’Europa e le sue politiche eco­nomiche, la polemica sugli effetti negativi dell’introduzione dell’eu­ro, la critica verso le élite politiche tradizionali (sia di destra che di sinistra), la diffidenza verso gli immigrati. La Lega declina in modo più estremo questo approccio politico, e diventa, anche in Europa, uno dei simboli del cosiddetto “sovranismo”, fondato su una sorta di autosufficienza nazionale, e che consiste nel proporre la sottrazione progressiva dell’Italia ai legami e ai vincoli europei.

L’interrogativo su cui soffermarsi investe dal nostro punto di vista le ragioni in base alle quali queste posizioni – accomunabili per co­modità classificatoria nella casella del “neopopulismo” pur nella loro varietà3 – abbiano ricevuto così tanto successo elettorale, anche presso una quota ampia e crescente di lavoratori. Come è noto, questi due movimenti politici hanno riscosso la maggioranza dei consensi alle elezioni politiche del 2018, quando si erano presentati in modo molto concorrenziale tra di loro. E successivamente hanno deciso di conver­gere e hanno dato vita a un contratto di governo, che ha materializzato la coalizione giallo-verde, come è stata definita (maggio 2018-agosto 2019). Le posizioni sopra richiamate, e che facciamo rientrare per co­modità classificatoria in questa categoria del neopopulismo generica e riduttiva, hanno continuato a riscuotere un consenso maggioritario anche alle elezioni europee (2019), sia pure a parti invertite: in questo caso il voto conquistato dalla Lega, il 34%, ha doppiato quello dei 5 Stelle, che erano risultati invece il primo partito nel 2018 (come si può vedere nella Tabella 1 e, più avanti, nelle Tabelle con i dati e i confronti relativi alle elezioni politiche).

Da varie fonti di studi elettorali4 si ricava come il voto dei lavoratori dipendenti non si sia differenziato nelle ultime scadenze rispetto ai trend più generali. Nel 2018 il Movimento 5 Stelle è risultato oltre che partito di maggioranza relativa, anche il partito più votato dai la­

1_2020_Carrieri_tab.1

voratori. È interessante notare come esso sia risultato il più votato tra i lavoratori pubblici, tra i quali ha ottenuto un notevole score specie presso alcuni gruppi, come gli insegnanti. Quindi per la prima volta il centrosinistra è stato sorpassato nell’ambito di questa categoria oc­cupazionale, come è simmetricamente accaduto per il centrodestra (e in modo particolare Forza Italia), scalzato a sua volta dal suo primato tra i lavoratori autonomi. Il PD e il centrosinistra hanno mantenuto invece la maggioranza dei consensi in alcune fasce d’età (le generazioni più anziane) e tra i pensionati. Come abbiamo già rilevato, il centro­sinistra ha ricevuto i maggiori consensi elettorali presso i gruppi con posizioni professionali (e sociali) medio-alte, e soprattutto correlati a una scolarità più elevata, configurando lo strano e paradossale feno­meno del “voto di classe rovesciato”.5 A loro volta di rimando i partiti di impronta populista hanno registrato un grande successo in modo particolare tra i lavoratori più deboli e con scolarità media e bassa. In effetti mentre i 5 Stelle hanno pescato in quell’occasione in modo più vario ed equilibrato tra i diversi gruppi occupazionali, è stata la Lega a catalizzare in modo specifico e progressivo le preferenze dei ceti più bassi (come appunto gli operai e altri lavoratori esecutivi).

I dati ci raccontano quindi con chiarezza lo slittamento negli orien­tamenti dei lavoratori, interrogandoci sulle spiegazioni di tale feno­meno. Alla base di queste evidenti tendenze molti osservatori indi­viduano il successo delle severe politiche anti-immigrati propugnate dalla Lega, ma per una certa fase appoggiate anche dai 5 Stelle. E certamente le posizioni che reclamano una sorta di chiusura delle frontiere verso gli immigrati risultano molto popolari in Italia, specie tra i gruppi a basso reddito.

LE RAGIONI DEL DISTACCO DEI LAVORATORI DALLA SINISTRA

Ma il terremoto elettorale, così profondo, che si è verificato negli anni recenti non può essere ascrivibile solo a questa policy, per quan­to essa possa risultare importante. Se osserviamo gli umori e le aspet­tative dei lavoratori – come sono descritti da rilevazioni demoscopi­che e da ricerche6 – entrano in gioco anche altre variabili che aiutano a mettere a fuoco i diversi fattori causali che si trovano alla radice di questo sommovimento. La lunga crisi economica italiana non ha ancora trovato una vera inversione di tendenza, e ha lasciato una grande scia di insicurezza sociale. È questa insicurezza di fondo, che riguarda sia il presente che l’ansia verso il futuro, a dominare nelle preoccupazioni dei lavoratori italiani: la preoccupazione di perdere il posto di lavoro senza riuscire a ritrovarlo tempestivamente, o anche la preoccupazione di restare senza reddito per periodi più o meno lunghi. Il lavoro risulta la questione prioritaria per la maggioranza degli italiani, ma in termini difensivi: infatti si tratta del lavoro che i lavo­ratori intervistati vorrebbero mantenere oppure aspirano ad avere per i propri figli, in sostanza più l’occupazione che il lavoro.

Quindi nel corso degli ultimi dieci anni si è ve­rificata una ridefinizione dei valori di fondo dei lavoratori, che sono diventati mediamente più ostili verso gli immigrati. Ma questo processo è stato favorito – se non provocato – largamente da variabili strutturali e preoccupazioni materia­li: come le incertezze relative al ristagno dell’e­conomia e la difficoltà di trovare occupazioni adeguate dal punto di vista della qualità e della stabilità. Infatti oltre il 40% dei lavoratori dichiara che il reddito familiare è insufficiente per arrivare alla fine del mese, o vi arrivano stentatamente.7

È rispetto a questi problemi non affrontati – oltre che sottovalutati – e a questo diffuso malessere che si è consumato il distacco dalla sini­stra, divenuto sempre più ampio, da parte del mondo del lavoro, in primo luogo – come abbiamo ricordato – la sua parte più debole e meno protetta (un fenomeno non solo italiano, ma da noi partico­larmente acuto). Dopo il 2011 – governo tecnico sostenuto dal cen­trosinistra e poi governi di centrosinistra con premier PD – le misure relative al mercato del lavoro varate dagli esecutivi di questo periodo, e presentate come riforme necessarie e capaci di ridare grande slan­cio all’economia, hanno raggiunto solo parzialmente i risultati attesi e sono state largamente bocciate dai lavoratori. Esse sono avvenute all’insegna del credo che la liberalizzazione del mercato del lavoro, spinta anche dall’Unione europea, avrebbe (quasi) da sola risolto tut­ti i problemi di natura occupazionale: mentre visibilmente gli esiti pratici smentiscono la validità di questo assunto. Insomma mentre il centrosinistra abbracciava un credo in prevalenza liberista, conse­guendo effetti e risultati percepiti dai lavoratori – a torto o ragione – come inadeguati se non negativi, erano proprio i nuovi soggetti politici, sopra richiamati, quelli che si sono rivolti esplicitamente al malessere sociale e lo hanno cavalcato: hanno colto le opportunità di un nuovo fronte di imprenditorialità politica solo in parte assimila­bile al tradizionale conflitto destra-sinistra. I miglioramenti macroe­conomici, pur conseguiti dall’azione governativa dopo il 2015, sono stati considerati insufficienti dai lavoratori (e pure dall’insieme degli elettori). Invece Lega e Movimento 5 Stelle hanno avanzato proposte che si sono rivelate in maggiore sintonia con le ansie sociali che ab­biamo menzionato. Ricordiamo da un lato quella di eliminare alcune rigidità della riforma previdenziale varata nel 2012 (la Lega). E poi da un altro lato la proposta di introdurre un reddito di contrasto alla povertà, denominato ambiziosamente e allusivamente “reddito di cittadinanza”, e in realtà allocato in modo selettivo e non rivolto a tutti i cittadini (il Movimento 5 Stelle).

Il successo elettorale di queste formazioni politiche è dunque da at­tribuire a una pluralità di ragioni: disattenzione della sinistra verso le domande dei ceti popolari, profondità della crisi economica italiana che alimenta un esteso malessere sociale, abilità di questi nuovi sogget­ti nell’intercettare e dare forma ad alcune delle preoccupazioni diffuse.

Quindi in questa sede le sottolineature importanti da fare sul piano analitico riguardano soprattutto i limiti nella visione del centrosini­stra e il vistoso strabismo di cui esso ha dato prova.

Alla base di questa distorsione appare utile citare un errore di fon­do che ha accompagnato la cultura politica della sinistra, non solo italiana, nell’ultimo ventennio. Un errore dovuto originariamente al successo delle interpretazioni ottimistiche intorno agli effetti della globalizzazione, connesse all’impostazione della terza via di Blair (ispirata intellettualmente da Giddens). Da questo approccio deri­vava l’enfasi posta in special modo sulle virtù positive del mercato (come dinamismo e innovazione) e nello stesso tempo la sottovaluta­zione degli effetti incerti e non voluti sul piano sociale, pure derivanti dall’affidamento meccanico alle sole forze del mercato. Di qui conse­guiva la convinzione che la stagione dei diritti sociali e delle battaglie per l’eguaglianza sociale si fosse sostanzialmente esaurita, per essere sostituita da altre dimensioni, come quelle che una diffusa vulgata definiva come “post-materiali”. In realtà già a partire dalla fine degli anni Novanta era possibile osservare come questo approccio risul­tasse troppo schematico e ottimistico rispetto alle tendenze sociali ed economiche, che vedevano la diffusione di nuove vulnerabilità sociali, e il crescente sentimento di emarginazione di una parte dei lavoratori più deboli ed esecutivi. La grande recessione post 2008 ha aggravato queste tendenze, allargando l’area dell’insicurezza sociale in tanti paesi: accanto ai lavoratori manuali già scossi e impauriti, si aggiungevano quote crescenti di ceti medi, che percepivano il perico­lo del declassamento (quelli che vengono definiti come “vecchi” ceti medi).8 Insomma la questione sociale si riproponeva – spiazzando i calcoli di una parte della sinistra – attraverso la sua moltiplicazione imprevista, che vedeva preoccupazioni materiali diffuse, le quali non toccavano solo la parte più debole della working class tradizionale, ma si espandevano verso nuovi gruppi, come i lavoratori soprattutto giovani con alti livelli formativi, in precedenza considerati più pro­tetti. Anche alcuni degli studiosi che avevano alimentato il nuovo clima culturale da fine della storia dei bisogni sociali e delle correlate conquiste si sono misurati negli ultimi anni con una revisione, più o meno profonda, della loro impostazione: così ad esempio si può vedere nelle analisi più recenti di Fukuyama e dello stesso Inglehart, al quale va ascritta l’invenzione del concetto di rivoluzione post ma­terialista.9

Questo strabismo della sinistra è stato poi aggravato dalle scelte re­lative all’organizzazione di partito. In quasi tutti i paesi escono ridi­mensionati o tendono a scomparire i partiti di massa, che avevano costruito e alimentato una rete di legami sociali più ricchi. Il decollo del “partito cartello”, come definito dagli scienziati politici, è apparso particolarmente vistoso nella realtà italiana. Il partito cartello infatti sostituisce alla partecipazione sociale la funzione di presenza istitu­zionale e di selezione del ceto politico, come chiave principale dell’a­zione politica. Nel caso italiano la nascita, e soprattutto gli sviluppi successivi, del Partito Democratico, hanno rafforzato questa inclina­zione. E in modo particolarmente colpevole hanno provveduto a di­sincentivare e smantellare le tracce del precedente modello organiz­zativo, più radicato nella società e nei territori. Con il risultato di far scomparire dall’orbita del partito, accanto alla loro militanza come iscritti, anche le domande sociali dei più semplici e più deboli. La riduzione dei legami sociali e organizzativi (inclusi quelli con i sinda­cati) ha così contribuito a rafforzare la sottovalutazione del malessere sociale diffuso, di cui non veniva colta né la portata, né la sua faccia nuova e dirompente, non assimilabile meccanicamente ai problemi e alle terapie del passato. Insomma, anche le più recenti analisi delle scienze sociali confermano la rilevanza crescente – a lungo sottosti­mata – delle questioni materiali, legate alla crescita dell’insicurezza che tocca settori sociali imprevisti e all’aumento incrementale delle diseguaglianze.

Il punto cruciale su cui soffermarsi a questo punto riguarda quanto sia rilevante, ai fini dei comportamenti collettivi, questa montante percezione di insicurezza, la quale si traduce per tanti lavoratori in atteggiamenti di paura e di chiusura difensiva. Abbiamo sopra ricor­dato come un’altra insicurezza, quella declinata come ostilità verso gli immigrati, abbia fatto da catalizzatore dello spostamento eletto­rale di tanti lavoratori. Allora in questo impasto, che si è consolidato nell’ultimo decennio, cosa conta di più e quale variabile svolge un ruolo davvero trainante?

Da alcuni dati e analisi recenti si ricava che tra gli iscritti ai sindacati il driver di questo sommovimento è costituito dal malessere materia­le.10 Da tali dati, pure importanti, non possiamo automaticamente ricavare una generalizzazione di questi atteggiamenti all’insieme del corpo dei lavoratori. Gli iscritti ai sindacati, all’interno di queste ela­borazioni, coincidono con il nucleo materialmente più debole della forza-lavoro. Possiamo però ipotizzare che tali orientamenti siano largamente in sintonia con quelli della parte più debole e insicura del mondo del lavoro: che è poi la parte che si è separata significati­vamente dalla sinistra. Quindi, senza voler sottovalutare il peso delle politiche nei confronti dell’immigrazione, è in questo ambito che in­contriamo il cuore nevralgico dei massicci slittamenti elettorali degli ultimi anni: l’asse delle politiche sociali e di riduzione dell’insicurez­za, trascurate (o non centrate) dalla sinistra di ispirazione riformista nel corso dell’ultimo decennio, e non solo nel caso italiano.

Naturalmente non possiamo dimenticare come i partiti di centrosi­nistra risultino in tutta Europa, e in modo particolare in Italia, come il bersaglio principale delle critiche diffuse verso le politiche di au­sterità promosse dall’Unione europea senza una reale opposizione o alternativa a opera della socialdemocrazia. Questa eccessiva identi­ficazione – un realismo maggiore del re di Prussia – ha contribuito a scavare quel solco sociale così ampio verso le classi dirigenti della sinistra, che sono state largamente percepite come parte integrante delle élite conservatrici.

I DIFFERENTI COMPORTAMENTI ELETTORALI DEGLI ISCRITTI AI SINDACATI

Se osserviamo le informazioni di cui disponiamo a proposito degli orientamenti dei lavoratori iscritti ai sindacati troviamo tanto con­ferma delle tendenze generali quanto la presenza di una maggiore dotazione di risorse tese a contrastarle.11 Intanto il primo aspetto im­portante da sottolineare, coerente con i dati comparativi disponibili, consiste nel ricordare come i lavoratori iscritti ai sindacati confer­mano la loro preferenza politica per i partiti pro labor tradizionali.12 Questo comportamento politico peculiare e non omologato alle ten­denze generali segnala la persistenza di quella che viene definita come “l’azione di socializzazione politica” messa in campo dai sindacati: un’attività pedagogica rivolta agli iscritti per rafforzare la comune identità politica.13

Va però poi sottolineato che l’evoluzione nel tempo del fenomeno – si veda la Tabella 3 – evidenzia come la maggiore fedeltà dei lavora­tori iscritti, pur resiliente, si sia fortemente ridotta nel corso del tem­po.14 Questo processo corrisponde anche a una progressiva riduzione dei legami che avevano unito storicamente partiti e sindacati.15 In effetti sono stati proprio i partiti a metterli in discussione, essendosi trasformati, come già ricordato, in partiti cartello, vasti conglomerati divenuti meno interessati a organizzare con continuità la partecipa­zione attiva dei cittadini. In particolare la spinta in questa direzione si è sviluppata dopo la nascita del Partito Democratico, e ciò ha pro­dotto un allentamento delle comuni appartenenze (che è stato anche definito efficacemente come una “rottura sentimentale”), da cui a quanto pare nessuno dei due attori ha tratto alcun beneficio signifi­cativo. Questi legami sono stati molto stretti in passato per tutte e tre le principali confederazioni italiane, CGIL, CISL e UIL. Sono stati a lungo strettissimi in modo particolare per la CGIL, la confederazio­ne esplicitamente di sinistra, e che veniva da un rapporto simbiotico tanto con il Partito Comunista che con il Partito Socialista. Proprio la CGIL è il sindacato che è stato investito in modo più pesante dai colpi inferti a quel legame tradizionale: le strategie di disintermedia­zione (decisione politica senza raccordo con le parti sociali) messe in opera dalla leadership di Renzi tendevano a ridimensionare proprio le abituali vicinanze tra quel sindacato e la sinistra politica. Le elabo­razioni relative ai risultati elettorali ci confermano sia l’esistenza di questa storia pregressa, che la sua resilienza – più ridotta, ma ancora visibile – nell’ambito degli iscritti alla CGIL, i quali restano, almeno in prevalenza, elettori della sinistra storica.

I dati raccolti e presentati da Liborio Mattina mettono in luce come il fenomeno della più ridotta fedeltà del voto degli iscritti, già presente nel 2013, si sia ampliato significativamente nelle elezioni politiche del 2018.

1_2020_Carrieri_tab.2

1_2020_Carrieri_tab.3

In questa occasione gli iscritti alle tre confederazioni solo in misura ridotta hanno espresso un consenso maggiore verso le formazioni di sinistra (PD e LeU): poco più del 30% contro il 29% dei consensi che sono andati al M5S. Inoltre è interessante notare come le forma­zioni di sinistra abbiano ottenuto un risultato non solo migliore tra gli iscritti che tra i non iscritti, come era intuibile, ma in una misu­ra molto ragguardevole: gli iscritti votano a sinistra in misura quasi doppia rispetto agli altri lavoratori (15,5%). Va altresì rilevato come queste perfomance risultino simmetricamente rovesciate per quanto riguarda la destra, la quale supera largamente il 30% dei consensi nell’ambito dei lavoratori non iscritti, mentre tale percentuale scende al 15% tra gli iscritti ai sindacati. Continua a essere vero dunque, anche se meno vero che in passato, che i lavoratori sindacalizzati co­stituiscono una sorta di argine politico: una funzione che, sul piano dei numeri, si deve soprattutto all’apporto degli iscritti alla CGIL, che mantengono un tasso di fedeltà elevato, anche se decisamente decrescente. Va comunque sottolineato, a conferma della persistenza di differenze, che tra gli iscritti ai sindacati i partiti di centrosinistra perdono meno consensi nel confronto con il 2013 rispetto al calo drammatico registrato tra i non iscritti. Ma queste elaborazioni ci aiutano anche a decifrare ulteriormente i fattori causali che sono alla base di questi spostamenti profondi. I dati mostrano come i lavora­ tori iscritti si siano sostanzialmente allineati (con alcuni scostamenti) nel corso del tempo ai non iscritti nella valutazione negativa verso le politiche di accoglienza degli immigrati. Nel 2013 essi risultavano molto più aperti su questo tema, mentre le distanze tra i due gruppi si sono largamente assottigliate nel 2018 all’insegna di atteggiamenti divenuti più severi e restrittivi. Si tratta di uno slittamento valoriale di notevole portata. Esso può essere meglio capito se si esaminano i comportamenti elettorali degli iscritti anche in correlazione con le loro condizioni economiche e professionali. I lavoratori iscritti esprimono largamente un giudizio negativo, in percentuali superiori all’80%, in relazione all’andamento dell’economia. Essi inoltre pre­sentano indici di disagio economico superiori a quelli dei non iscritti (cosa che denota la prevalenza al loro interno dei ceti più deboli): oltre il 54% tra gli iscritti occupati denuncia di non essere in gra­do di provvedere adeguatamente alla propria famiglia a causa delle basse retribuzioni. Quindi da queste informazioni risulta accresciuta l’incertezza sociale ed economica nel corso degli anni recenti, e non invece attenuata, come aveva ripetuto prima delle elezioni del 2018 il Partito Democratico. È questa condizione di disagio non risolto e di aspettative frustrate, particolarmente ampia presso i gruppi più vulnerabili, a spiegare anche il maggiore irrigidimento nelle posi­zioni verso gli immigrati. Possiamo ipotizzare dunque che siano le cause strutturali ed economiche a trainare, come già ricordato sopra, l’atteggiamento più sfiduciato e pessimista dei lavoratori, che investe anche la posizione espressa verso l’immigrazione, piuttosto che un sommovimento nei valori di fondo che trova il suo epicentro nella paura verso gli immigrati. Proprio la maggiore esposizione al disagio economico degli iscritti rispetto ai non iscritti aiuta infatti a spiegare come gli orientamenti più ostili verso gli immigrati siano così larga­mente penetrati anche tra gli aderenti ai sindacati.

LE PROSPETTIVE: SEPARAZIONE, RICONGIUNGIMENTO, DIVORZIO

Come abbiamo visto, si è scavato un fossato tra la sinistra e una parte crescente del mondo del lavoro. L’interrogativo – scientifico e politico – è se questo fossato sia ormai incolmabile o sia possibile ancora intervenire con politiche ben mirate per contrastare questa deriva. Per usare un’altra metafora, è evidente che ci troviamo da­vanti una separazione non consensuale tra sinistra e (larga parte dei) lavoratori. Dunque: è in gioco la possibilità di arrivare a un qualche ricongiungimento, oppure il trend attuale si trasformerà in un divor­zio definitivo?

Il sommovimento in atto non appare facilmente reversibile. E non ci aiutano a essere più ottimisti né la evidente passività politica del­la sinistra tradizionale (parliamo non solo dell’Italia, e pur tenendo conto di qualche eccezione nazionale). E neppu­re le analisi scientifiche, le quali in alcuni casi16 tendono a considerare come strutturale il cam­biamento in corso nella morfologia politica dei paesi occidentali.

Pure nella discussione varia e incerta, che attra­versa le scienze sociali e politiche, possiamo indi­viduare due proposte da raccogliere. Come è sta­to suggerito, un presupposto indispensabile per la riscossa e la controtendenza consiste in una socialdemocrazia (o, se si preferisce, in un am­pio schieramento di forze di centrosinistra) più “assertiva”,17 in grado di impostare una nuova agenda di riforme, decisamente diversa da quella segnata dall’egemo­nia neoliberista (anche, non scordiamolo, con lo scopo di “salvare il capitalismo da sé stesso”). La seconda è quella di dare rassicurazioni protettive alla vecchia working class e ai “vecchi ceti medi”,18 raffor­zando nel contempo l’innovazione soprattutto nelle politiche educa­tive, con l’obiettivo di ristabilire le condizioni della mobilità sociale e di costruire opportunità concrete per i figli dei gruppi, quelli di cui sopra, che si sentono più minacciati dagli effetti della globalizzazio­ne. Insomma il doppio binario riformatore – non facile da ideare e realizzare – di riduzione dell’incertezza attuale e di creazione di una prospettiva futura.

 


 

[1] P. Scoppola, La Repubblica dei partiti, il Mulino, Bologna 1991.
[2] R. Mannheimer, Gli italiani e la politica, Bompiani, Milano 2003.
[3] Usiamo questa categoria del populismo, o di neopopulismo, per comodità di classifica­zione, se accettiamo la proposta di Iversen e Soskice di considerare tale fenomeno variega­to di opposizione verso partiti dell’establishment e le élite, di contrasto dell’immigrazione e di critica verso il cosmopolitismo culturale come un impasto che dà vita a un nuovo cleavage sociale e politico. T. Iversen, D. Soskice, Democracy and Prosperity: Reinventing Capitalism Through a Turbulent Century, Pricenton University Press, Princeton 2019.
[4] M. Maraffi, Le basi sociali del voto 2018: tra continuità e cambiamento, in Itanes,Vox popu­li. Il voto ad alta voce del 2018, il Mulino, Bologna 2018.
[5] L. De Sio, Strategie di partito e voto di casse: lo strano caso del Pd del 2018 “partito delle élite”, in “Quaderni di Rassegna Sindacale”, 4/2018.
[6] Si veda ad esempio M. Carrieri, C. Damiano, Il lavoro che cambia. Verso l’era digitale, Ediesse, Roma 2019.
[7] Intervistati in M. Carrieri, C. Damiano, op. cit.
[8] T. Iversen, D. Soskice, op. cit.
[9] F. Fukuyama, Identità. La ricerca della dignità e i nuovi populismi, Utet, Torino 2019; R. F. Inglehart, Cultural Evolution: People’s Motivation are Changing, and Reshaping the World, Cambridge University Press, Cambridge 2018.
[10]L. Mattina, Il voto “diviso” degli iscritti ai sindacati alle elezioni politiche del marzo 2018, in “Quaderni di Rassegna Sindacale”, 2/2019.
[11] Si veda in particolare L. Mattina, Il voto “diviso” cit.
[12] N. Mosimann, L. Rennwald, A. Zimmermann, Promuovere la solidarietà di classe in tempi difficili: il ruolo dei sindacati nel contesto dell’avanzata dei partiti della destra radi­cale populista, in “Quaderni di Rassegna Sindacale”, 4/2018.
[13] L. Mattina, I sindacati come agenti di socializzazione politica. Orientamenti ideologici e comportamenti di voto dei lavoratori sindacalizzati in Italia, in “Quaderni di Rassegna Sindacale”, 4/2018.
[14] Per un inquadramento di più lungo periodo si veda P. Feltrin, Le scelte elettorali dell’ul­timo quinquennio: voto di classe e voto degli iscritti ai sindacati, in “Quaderni di rassegna Sindacale”, 4/2010.
[15] M. Carrieri, Un lungo addio? Come cambiano rapporti tra i partiti e i sindacati, Ediesse, Roma 2019.
[16] Si veda Y. Meny, Popolo ma non troppo, il Mulino, Bologna 2019.
[17] La definizione è di C. Crouch, Quanto capitalismo può sopportare la società, Laterza, Bari-Roma 2014.
[18] T. Iversen, D. Soskice, op. cit.