Per quasi 25 anni, dalla costituzione della Commissione bicamerale Bozzi in avanti, l’esigenza di riformare le istituzioni italiane è stata al centro del dibattito pubblico, dei programmi di governo e dell’agenda delle principali forze politiche del paese (e spesso anche delle forze minori, come la Lega). Oggi si ha l’impressione che la tensione intorno a questi temi sia improvvisamente calata. Poniamoci allora tre domande: perché le riforme istituzionali non sembrano essere oggi tra le priorità dell’agenda politica? Quali che siano le ragioni, è saggio accantonare questo tema, o non è oggi più che mai necessario affrontarlo? Se il tema deve essere affrontato, da dove ripartire per non rischiare l’ennesimo fallimento?
Le reazioni politiche al referendum del giugno scorso sulla seconda parte della Costituzione sono state dominate dalla prudenza. Poiché, si è detto da più parti, il corpo elettorale ha detto no solo a quella amplissima modifica costituzionale, non a revisioni puntuali, si può ripartire da queste. Visti i sorprendenti risultati, sia in termini di partecipazione (oltre la metà del corpo elettorale), sia in termini di voti contrari alla legge costituzionale (la schiacciante maggioranza), la prudenza era inevitabile. Ed è giusto pensare, non solo per prudenza, a revisioni puntuali.
L’esperienza di un assessore al bilancio e alla programmazione di una regione, e in particolare di una regione autonoma, permette di osservare da vicino le regole di ingaggio adottate da Stato e regioni nel discutere questioni rilevanti, quali la definizione, anno per anno, delle cifre da trasferire in virtù delle principali compartecipazioni IRPEF e IVA assicurate alla regione dalla carta costituzionale. Permette anche di valutare in che misura il patto di stabilità interno è (in)capace di indurre la necessaria «disciplina fiscale» e di farsi un’idea su quali rischi corre il cittadino italiano di fronte alla proliferazione di tributi regionali in assenza di un forte coordinamento statale.
Le elezioni americane di midterm del novembre 2006 sono destinate ad avere un’importanza rilevante sulla politica americana e sulla sua proiezione internazionale. Dopo sei anni di inusuale governo unificato, da parte del Partito Repubblicano, delle istituzioni separate tra il 2001-06 (con la sola eccezione di una risicatissima maggioranza democratica di un seggio al senato tra il 2001-02), gli Stati Uniti sono ritornati al governo diviso che aveva connotato il periodo 1968-2000 (con le eccezioni del quadriennio 1977-80 e del biennio 1993-94). Infatti, sull’onda dello shock prodotto nel paese dagli attacchi terroristici dell’11 settembre 2001, il partito del presidente repubblicano George W. Bush fu in grado di riconquistare, nelle elezioni di midterm del 2002, la maggioranza al senato e di accrescere quella già esistente alla camera dei rappresentanti.
La sconfitta subita nelle urne alle elezioni di midterm segna il momento di inizio di una campagna presidenziale repubblicana che punta nel 2008 a conservare la Casa Bianca riconquistando i settori moderati e centristi dell’opinione pubblica. Se è vero che la perdita del controllo di entrambi i rami del Congresso è stata uno smacco superiore alle previsioni dei leader repubblicani – che pensavano di mantenere il controllo del senato – quando lo stratega elettorale Karl Rove si è trovato a dover spiegare al presidente George W. Bush cosa era avvenuto si è limitato a svelare un numero: 77 mila. Tanti sono stati i voti che hanno fatto la differenza nelle urne dei collegi elettorali decisivi per il voto di midterm: se fossero andati ai repubblicani avrebbero consentito di mantenere il controllo di entrambe le camere.
Diversi anni fa, fui invitato ad un confronto con un esponente neoconservatore americano di fronte alla commissione relazioni estere del Bundestag tedesco. Terminato l’evento, gli chiesi in privato che cosa sarebbe accaduto al suo movimento se la guerra in Iraq fosse andata male. Non ho mai dimenticato ciò che replicò. Rispose con tono indifferente: «Se la guerra va male, ne daremo interamente la colpa all’incompetenza del presidente e della sua squadra, e passeremo a John McCain. E voi realisti continuerete a essere una voce di minoranza all’interno del Partito (Repubblicano)». Ripenso a quella conversazione quasi ogni giorno, poiché molto di ciò che discutemmo in tale occasione si è effettivamente verificato. Soprattutto, il mio avversario mi ricordò che le idee e i movimenti ideologici sono filtrati dalle persone reali e dalla politica reale. Avere ragione non basta; senza il potere politico, avere ragione è pura impotenza informata.
In Europa come negli Stati Uniti, dove la campagna per le prossime elezioni presidenziali è in pratica già iniziata, il tema dell’energia e quello, strettamente connesso, del cambiamento climatico sono al centro del dibattito politico.
Sono temi scomodi per la politica, perché tanto il sistema energetico che quello climatico sono caratterizzati da una notevolissima inerzia: qualsiasi nuova politica introdotta oggi avrà i suoi effetti solo tra molti anni, quando i politici che hanno preso la decisione avranno da tempo abbandonato la scena. In questo, energia e ambiente sono temi simili all’educazione e al governo della popolazione, che pure offrono un rapporto costi/benefici politici decisamente poco incoraggiante per i governanti.
Politica energetica o politica dello struzzo? L’Italia è dipendente dall’estero per l’84% del suo fabbisogno energetico, percentuale che aumenta sensibilmente se si considera la sola dipendenza per il petrolio, che è pari al 93%. Questa elevata dipendenza dalle fonti di produzione non domestiche ha messo il nostro paese in una condizione di estrema vulnerabilità di fronte alle turbolenze geopolitiche internazionali, col grave risultato che l’Italia è, storicamente, alla mercè dei grandi produttori di gas e petrolio internazionali, rispettivamente Russia e Algeria e, in generale, i paesi OPEC.
Crescita incontrollata del fabbisogno energetico, sicurezza di approvvigionamenti economicamente accessibili, incertezza sugli investimenti necessari e rischi ambientali sempre più rilevanti sono le sfide globali che il «World Energy Outlook 2006» individua come prioritarie per l’intera comunità internazionale. L’Agenzia internazionale dell’energia (AIE) nel suo rapporto annuale presenta due proiezioni al 2030 delle tendenze energetiche globali: uno «scenario di riferimento», elaborato ipotizzando l’assenza di politiche innovative rispetto a quelle attualmente in atto, e uno «scenario alternativo», in cui si assume che i governi intervengano in modo deciso in ambito energetico e ambientale.
A causa della crescente domanda europea di gas e del calo dell’offerta interna, l’Europa, nei prossimi decenni, dovrà affrontare una crescente dipendenza dalle importazioni. Le aree confinanti con l’Europa dispongono di notevoli riserve e di risorse che possono coprire l’aumento di fabbisogno delle importazioni a medio-lungo termine. Con lo sviluppo di utilizzi differenziati, soprattutto per la produzione di energia, il gas sta acquistando sempre maggiore importanza per la sicurezza delle forniture energetiche europee.
Il 10 gennaio 2007 la Commissione europea ha pubblicato un insieme di documenti che costituiscono la proposta di nuova strategia energetica dell’Unione. Si tratta di un corpus vasto e complesso che tocca molti punti di estrema importanza, e che non si vuole riassumere in questo articolo. La Commissione pone le preoccupazioni ambientali al centro della strategia, proponendo un obiettivo minimo di riduzione delle emissioni di gas serra del 20% al 2020 rispetto al 1990. Da questo obiettivo fa discendere una serie di iniziative nel campo delle energie rinnovabili, del risparmio energetico, dell’utilizzo dell’energia nucleare.
Il saggio di Giuliano Amato «Ha un futuro la Costituzione europea?»1 ha l’autorevolezza duplice dello studioso e del testimone e merita un commento che affronti il nodo del problema che esso solleva. Tale problema è quello della legittimità di una architettura costituzionale che, prima che porsi dinanzi alla sovranità, si pone in rapporto con la meccanica della decisione politico-istituzionale. Il racconto dell’iter delle riunioni del Consiglio dell’Unione europea, dove gli ambasciatori surrogano la decisione politica con l’attività di compensazione degli interessi affinché la regola dell’unanimità non blocchi qualsivoglia iniziativa, bene disvela gli arcani imperi della decisione sovranazionale e intrastatuale, che tutto è, tranne che democratica. Perché questo è il problema.
L’Europa versa in una crisi profonda. Emersa dal voto francese e olandese contro il Trattato costituzionale, questa crisi coinvolge tutti gli Stati membri dell’Unione europea. La presidenza tedesca dell’UE nel 2007 cercherà di trovare una via d’uscita. Se questa occasione andasse perduta, l’Unione potrebbe benissimo sparire, disperdendosi in una moltitudine di patti bilaterali tra gli Stati-nazione europei.
Una parola d’introduzione L’idea portante delle pagine che seguono risale all’estate scorsa, quando divenne chiaro che la svolta impressa dal governo di centrosinistra alla politica estera italiana dopo la guerra del Libano aveva sorpreso positivamente l’opinione pubblica internazionale – come se si trattasse di una rara avis, di un segno di cambiamento insperato, che avrebbe potuto produrre conseguenze benefiche. Perché non assecondare questa evoluzione inattesa nell’area mediterranea, tramite una partecipazione corale di iniziative meridionali amiche, allo scopo d’irrobustire, ad un tempo, queste ultime e quelle prospettive appena socchiuse? Da questo interrogativo è scaturito il workshop su «Mezzogiorno e Mediterraneo: integrazione, sviluppo locale ed emersione» svoltosi presso la Fondazione Italianieuropei il 25 ottobre 2006, da cui è tratto il contributo che segue.
Tutti gli indicatori dei principali istituti di ricerca confermano che anche negli ultimi cinque anni il Mezzogiorno d’Italia ha conosciuto sporadici slanci di crescita economica, subito vanificati da altrettanto rapidi balzi all’indietro. Il risultato è che le disparità, storiche o recenti, tra il Sud e il Centro-Nord non sono diminuiti, ma si sono accentuati.