Milano e la sfida del governo. Cinque domande per un nuovo riformismo

Di Carlo Cerami Martedì 01 Novembre 2005 02:00 Stampa

La sinistra è all’opposizione a Milano dal 1993. Questo vuol dire che, nella capitale economica del paese, la sinistra non ha mai espresso un sindaco eletto direttamente dal corpo elettorale. Esiste, dunque, un problema che va al di là della sola politica e mette in gioco lo stesso profilo culturale del campo progressista. Con un’immagine, potremmo dire che la sinistra sembra aver smarrito in questi anni lo spirito della città di Leonardo. Una figura che viene giustamente ricordata in un recente libro di Luca Doninelli come emblema e logo naturale della città, «per aver dato non solo la grande Chiusa o il Cenacolo o per aver progettato la difesa della città in caso d’assedio, ma per la sua impronta d’ingegnere e d’artista, di genio pratico ansioso di trasformare in prassi i propri studi, di naturale progenitore del design industriale e del rapporto arte-industria, di pensatore e cerimoniere, inventore di automi maschere e fontane, per il suo temperamento che coniuga precisione e nevrosi, limpidezza musicale e necrofilia, calcolo e irrequietezza, per il subbuglio incessante della sua anima». 

La sinistra è all’opposizione a Milano dal 1993. Questo vuol dire che, nella capitale economica del paese, la sinistra non ha mai espresso un sindaco eletto direttamente dal corpo elettorale. Esiste, dunque, un problema che va al di là della sola politica e mette in gioco lo stesso profilo culturale del campo progressista. Con un’immagine, potremmo dire che la sinistra sembra aver smarrito in questi anni lo spirito della città di Leonardo. Una figura che viene giustamente ricordata in un recente libro di Luca Doninelli come emblema e logo naturale della città, «per aver dato non solo la grande Chiusa o il Cenacolo o per aver progettato la difesa della città in caso d’assedio, ma per la sua impronta d’ingegnere e d’artista, di genio pratico ansioso di trasformare in prassi i propri studi, di naturale progenitore del design industriale e del rapporto arte-industria, di pensatore e cerimoniere, inventore di automi maschere e fontane, per il suo temperamento che coniuga precisione e nevrosi, limpidezza musicale e necrofilia, calcolo e irrequietezza, per il subbuglio incessante della sua anima».1

La sinistra ha cessato nel decennio scorso di rappresentare gli umori, le aspettative, le speranze di Milano. Si è separata dalla città, sia in termini di rappresentanza di interessi, sia in rapporto ai costumi e agli stili di vita della classe media, ma anche dei ceti impiegatizi e operai. È stata minoranza politica e anzitutto culturale. Più spesso arro ccata in atteggiamenti aristocratici e velleitari piuttosto che impegnata ad allargare il suo consenso verso fasce sociali e culturali nuove e non politicizzate.

A Milano l’antiberlusconismo non è sufficiente. Non basta nemmeno il giudizio ormai diffuso circa la profonda inadeguatezza dell’attuale giunta cittadina a far fronte ai problemi che un buon governo locale deve saper affrontare. I milanesi che andranno al voto nella primavera del 2006 vorranno guardare in faccia i candidati, conoscerne le idee forza, valutarne l’affidabilità, la sincerità, la serietà. Ma anche la capacità di essere leader, di saper interpretare lo spirito della città e guardare al futuro.

Vi sono condizioni di partenza diverse dal passato e indubbiamente più favorevoli alla sinistra. Il fallimento del sogno berlusconiano, l’impoverimento di tante famiglie dovuto all’aumento del costo della vita, il degrado delle periferie. Una domanda crescente – e in parte inedita – di servizi a persone, bambini, anziani, giovani coppie, che non trova risposta nelle iniziative del comune. Un’assenza davvero impressionante di politiche per l’immigrazione, per la coesione sociale e per l’inserimento delle fasce disagiate nei circuiti dell’assistenza e del sostegno. Una totale mancanza di efficaci politiche di miglioramento della qualità urbana e della mobilità, pur in presenza di poteri speciali affidati al sindaco. Un uso del territorio confuso e talora spregiudicato, con ricadute negative sulla qualità ambientale a fronte di una cronica mancanza di dotazioni urbane collegate ai grandi progetti (spazi collettivi e infrastrutture di trasporto, in primo luogo). Di tutto questo oggi soffrono i cittadini milanesi, che attendono però dal centrosinistra una proposta forte e convincente.

Questa proposta è alla portata della cultura e dell’elaborazione del gruppo dirigente del centrosinistra milanese? Questo è il vero interrogativo, cui va data urgente risposta, visto che anche nel centrodestra sta emergendo con forza l’esigenza di superare la stagione di Albertini e di dotarsi di un programma diverso dal passato.

La sinistra ha poche settimane per sfruttare la condizione di vantaggio da cui muove. E per individuare quelle che possono divenire delle linee guida vincenti per il centrosinistra è opportuno misurarsi con la città, le sue peculiarità, i suoi processi di trasformazione.

 

Milano è una città speciale?

Senza alcuna enfasi, occorre riconoscere che Milano mostra alcuni tratti fondamentali peculiari.

 

Una «base economica» plurale e altamente versatile

Tra gli anni Settanta

e Ottanta, Milano ha compiuto una transizione «post-fordista» a costi sociali assai più contenuti rispetto a quelli patiti da molte altre realtà urbane occidentali. Tuttavia, proprio la leadership mantenuta in alcuni importanti settori di attività (dalle attività direzionali e finanziarie a quelle della comunicazione e della moda, dalle quelle formative e della ricerca a quelle dell’industria culturale ecc.) è oggi insidiata dalla qualità incerta dello spazio urbano.

Ciò che un tempo si offriva spontaneamente come ambiente favorevole allo sviluppo oggi necessita di interventi selettivi, di una regia accorta e intelligente, in grado di riprodurre la città come bene pubblico.

 

Uno spiccato orientamento all’innovazione sociale e produttiva

Milano e la sua regione urbana mostrano un’attitudine al mutamento e una capacità di riconversione continua delle dinamiche di sviluppo socioeconomico; e ciò vale non solo per quelle direttamente connesse alla produzione e alla circolazione del valore, ma anche per quelle riferibili ai circuiti del consumo e dello scambio di beni materiali e simbolici.

Tuttavia, la città mostra frequentemente sudditanza verso stili di vita e culture prodotte altrove. In questo campo è evidente che l’innovazione è spesso di tipo emulativo e alla lunga può esaurire la sua forza.

 

Una società civile densa a fronte di una regolazione politica debole

Milano ha sempre esibito una società altamente strutturata e «poliarchia», che ha imposto un confronto continuo con l’articolazione degli interessi economici e delle domande sociali di volta in volta emergenti. Questo aspetto è ambivalente: se, da un lato, costituisce un vantaggio in termini di atmosfera locale e di capitale sociale favorevoli allo sviluppo, dall’altro rende più ardua l’espressione di un progetto pubblico riconoscibile e condiviso. E anche su questo terreno è importante sfidare il contesto e sperimentare nuove forme di cooperazione sociale e politica.

 

Milano è in crisi?

Lo dice il Centro studi Assolombarda nel suo recente Quaderno di Milano.2 Milano si conferma il principale centro economico nazionale con 358.000 imprese (dati 2001), di cui 166.000 nel solo capoluogo; quasi 1.800.000 addetti, di cui il 92,8% nelle piccole e medie imprese. Il peso del settore manifatturiero è intorno al 12%, circa la metà di dieci anni fa. In grande crescita il settore terziario dei servizi innovativi quali l’intermediazione finanziaria, informatica e tecnologica. La più importante fiera d’Europa è quella di Milano. Il tasso di occupazione registra valori superiori di 6-7 punti al resto dell’Italia. Il tasso di disoccupazione è la metà della media nazionale. Milano crea un decimo dell’intera ricchezza prodotta nel paese. La Borsa di Milano, in termini di capitalizzazioni e volumi di scambio, si colloca in linea con le tendenze delle maggiori piazze finanziarie mondiali. Le sette università rappresentano il più elevato centro di formazione e istruzione esistente in Italia, con evidenti ricadute sulla ricerca e sull’innovazione di processo e di prodotto. Qui dunque, più che altrove, si avvertono i segnali dell’inversione di tendenza, della crisi economica e dell’inadeguatezza delle politiche dei governi di centrodestra ai vari livelli. Inquadrando la crisi di Milano nelle vicende mondiali, qui più che altrove si avverte la lentezza della risposta politica alle sfide imposte dall’accelerazione dei cicli economici e dalla globalizzazione dei mercati. Qui si nota forte lo scarto profondo che esiste tra l’esigenza, da tutti riconosciuta, della sfida della competizione territoriale, che presuppone visione, strategia e azioni concertate tra tutti i protagonisti del sistema territoriale, e le azioni realizzative della politica, attardate dentro una logica aziendalistica e «condominiale», proprio quando il sistema economico chiede più politiche strategiche, più leadership territoriale e più dinamismo decisionale.

Lo sviluppo economico è la condizione per il benessere di una comunità e per ricava re le risorse necessarie alle politiche redistributive e al miglioramento delle condizioni di vita dei cittadini. Oggi, una società competitiva in un mercato globale deve anche destinare una quota di risorse alla solidarietà, per includere tutti: la sfida della sinistra diviene strada obbligata per la crescita, sempre che la sinistra si rinnovi e indichi un programma capace di attrarre le classi medie e le forze sane dell’impresa.

 

Sviluppo e qualità sono inconciliabili?

Se una sfida territoriale si vince anche attraverso la qualità urbana e dell’abitare – fattore decisivo per attrarre capitali e investimenti – Milano non appare in condizioni di competere con le città dell’Europa ad essa assimilabili (da Barcellona a Lione a Monaco di Baviera) nemmeno sui dati fondamentali. La qualità dell’aria è pessima, con il sempre più frequente superamento dei valori limite delle concentrazioni di inquinanti. Il sistema della mobilità è di gran lunga inadeguato. Grandi progetti ferroviari e viabilistici già approntati attendono da anni di essere realizzati, per movimentare merci e persone e per migliorare l’accessibilità al capoluogo. La popolazione invecchia: Milano si caratterizza per la maggiore presenza di cittadini over 65 e per il minor tasso di natalità (a fronte però del maggiore flusso migratorio, pari al 7% della popolazione residente). Come ha ricordato Alessandro Balducci nella sua prolusione al nuovo anno accademico del Politecnico di Milano, assistiamo all’accelerazione del movimento (i flussi da e per Milano: 700.000 mila auto al giorno, 320.000 passeggeri FS al giorno, 30.000.000 di passeggeri all’anno negli aeroporti ecc.), alla frammentazione nella sfera economica, sociale e politicoamministrativa, alla costruzione di reti che riannodano relazioni tra le componenti della società (smarrita quella fisico-spaziale).

Milano ha attraversato un tempo in cui si sono confrontate due culture: quella che non riconosce rilevanza ai fattori di compatibilità ambientale e di inserimento sapiente delle attività umane nel territorio e quella che, muovendo dall’idea che la logica del profitto non tolleri mediazioni, si è attardata in una battaglia di retroguardia a presidio del m e ro contenimento dei metri cubi e dell’estensione degli standard, spesso rimasti sulla grafica pregiata dei piani regolatori generali a mo’ di carta dei desideri. Ma fuori del mix banale e speculativo della casa con supermercato (osteggiati per le dimensioni assai più che per l’inadeguatezza del modello di sviluppo urbano che interpretava), a Milano si è visto assai poco (se non le architetture patinate di là da venire) che fosse anche soltanto minimamente in grado di fornire ai cittadini, agli operatori, l’idea di un disegno collettivo su cui scommettere e per il quale investire le risorse.

E invece non si sfugge alla necessità di una visione che parta dalla dotazione di hardware (mobilità, connessioni, reti tecnologiche, ambiente sano e territorio non congestionato) e di software (tutte le forme dell’economia della conoscenza, dell’innovazione sociale e della produzione culturale) e che sappia dirottare le energie economiche, sociali e culturali, coordinate in una logica di progetto strategico, anche attraverso politiche di assistenza, di inclusione e coesione sociale, verso gli obiettivi più alti e lungimiranti, in primis quello di far vivere e abitare i cittadini in residenze a prezzo contenuto, accessibili e civili.

Se Milano è il crocevia di una grande regione urbana che va da Torino a Venezia, se la sua forma è policentrica e fa convivere al suo interno tanti distretti, tanti cuori, tante identità, si dovrà favorire un disegno unitario e flessibile, dove i tanti centri trovino la propria peculiare vocazione e costruiscano un sistema a rete permeato da un senso di appartenenza comunitario, con la coscienza cioè del comune destino, costruendo così quel capitale sociale, fatto di reti di relazioni e valori identificanti, su cui può crescere il consenso verso politiche pubbliche in grado di creare beni collettivi.

 

Cosa ha scambiato Berlusconi con la sua città?

Dal 2001 il centrodestra governa il paese. Il presidente del consiglio è un milanese. Da Milano arrivano anche molti ministri e sottosegretari. Si può dire che un pezzo della nuova classe politica formatasi a Milano negli anni della prima giunta Albertini si sia spostata a Roma. Ma, nonostante la città di Milano e la regione Lombardia siano state saldamente governate da maggioranze di centrodestra, non sembrano esistere canali efficaci di comunicazione e di rappresentanza di Milano, di espressione delle sue istanze e di un progetto pubblico riconoscibile di valenza non solo locale. Milano ha la straordinaria capacità di mettere continuamente in tensione le sue inerzie e le sue debolezze strutturali per produrre capacità progettuale diffusa e molteplici livelli di governo dei processi. Appare riduttivo considerare Milano una realtà bloccata, o peggio ancora in declino; tuttavia, non sembra oggi in grado di liberare energie nuove, che imprimano al movimento un passo adeguato. Presenta molti aspetti dinamici e fortemente connessi a reti sovralocali e internazionali, ma rimane una «città mondiale» largamente incompiuta. Gli interessi (anche i grandi) milanesi non sono in grado di «fare sistema» tra loro. La spinta all’innovazione non ha trovato interlocutori attenti nei governi – né in quello locale, né in quello nazionale – vittime dei propri limiti ideologici e culturali. La politica si deve invece riconnettere alla realtà milanese, anche producendo nuove conoscenze e nuove rappresentazioni del mutamento. Per questo ci siamo impegnati, in collaborazione con ricercatori del Politecnico, a trovare un nuovo tema per la città. A capire e interpretare gli ultimi quindici anni di trasformazioni urbanistiche nel quadro complessivo delle esperienze di governo e del rapporto tra interessi economici e sfera pubblica. Non ci interessa tanto uno sguardo retrospettivo, che pure è assente nel dibattito cittadino, ma quel che più conta è riuscire a cogliere il mutamento sociale ed economico della città, la sua traiettoria di crescita urbana e civile degli ultimi anni per sottoporla a una necessaria critica indirizzata a riaprire un ciclo riformista di governo.

Per fare questo è decisivo uno spostamento, una riduzione dello scarto tra ciò che Milano produce e muove in continuazione e la capacità della politica e delle sue élite di farsene interpreti e di esprimere nuova progettualità.

Una nuova prospettiva riformista non può che muovere dal superamento di un’annosa difficoltà della politica di riconoscere e confrontarsi con la società e con il mercato, così da nutrire di nuovo di realtà e concretezza un progetto pubblico di governo.

 

Milano: una nuova questione nazionale?

Le cose fin qui ricordate conducono a ribadire che Milano rappresenta ancora una questione che travalica ampiamente i confini locali. Certamente, la sfida per tornare a governare la città si gioca e si vincerà qui a Milano. Ma è indubbio che i temi che Milano stimola e contribuisce a mettere in agenda sono di portata tale da richiedere alle varie tradizioni del riformismo urbano, così radicate e prestigiose, di aprire una fase nuova, di ripensare a Milano come grande laboratorio di politiche pubbliche in grado di rinnovare quello straordinario bagaglio culturale riformista che tanto ha dato alla città e al territorio.

Di questo c’è bisogno urgente. Nel paese, ma più in generale in Europa, dove le forze progressiste e di sinistra governano tante città e regioni sforzandosi di aggiornare strumenti e visioni dello sviluppo.

La collocazione di Milano e della sua regione urbana ha quindi una grande valenza strategica. Una valenza dinamica, che richiede alla politica una marcia in più e che richiede ai riformisti di uscire da un nominalismo di facciata per radicarsi nuovamente nei processi reali che investono e mutano di continuo la faccia della nostra città e le relazioni economiche e sociali alle diverse scale.

Se una nuova classe dirigente riformista riuscirà nella sfida di rendere finalmente compiuto il profilo e la vocazione globale di Milano e della sua area, coniugando in forme nuove e sostenibili sviluppo urbano e coesione sociale e territoriale, ebbene questa classe dirigente potrà portare in dote alla cultura riformista del centrosinistra un valore aggiunto di grande significato.

 

Note

1 L. Doninelli, Il crollo della aspettative, Garzanti, Milano 2005.

2 https://www.assolombarda.it