I guasti della nuova legge elettorale

Di Giuliano Amato Martedì 01 Novembre 2005 02:00 Stampa

Il cambiamento elettorale che in modo subitaneo è stato deciso dalla maggioranza di centrodestra riaccende, fra le altre, la vecchia disputa sui rapporti di causa/effetto fra i sistemi elettorali e l’assetto delle forze politiche: sono quei sistemi a plasmare questo assetto o è piuttosto quest’ultimo che sceglie e consolida i meccanismi elettivi ad esso più congeniali? La risposta prevalente che troviamo nei libri è la seconda e quello che sta accadendo oggi da noi si presta più a confermarla che a smentirla. L’Italia aveva scelto un assetto politico bipolare, che contava tuttavia sul passare degli anni per determinare nei due poli, e pur presenza di una pluralità di componenti all’interno di ciascuno, quella coesione che gli è comunque essenziale. Il sistema elettorale, in particolare attraverso i collegi uninominali, era un ingrediente non minore di questo processo di radicamento.

Il cambiamento elettorale che in modo subitaneo è stato deciso dalla maggioranza di centrodestra riaccende, fra le altre, la vecchia disputa sui rapporti di causa/effetto fra i sistemi elettorali e l’assetto delle forze politiche: sono quei sistemi a plasmare questo assetto o è piuttosto quest’ultimo che sceglie e consolida i meccanismi elettivi ad esso più congeniali?

La risposta prevalente che troviamo nei libri è la seconda e quello che sta accadendo oggi da noi si presta più a confermarla che a smentirla. L’Italia aveva scelto un assetto politico bipolare, che contava tuttavia sul passare degli anni per determinare nei due poli, e pur presenza di una pluralità di componenti all’interno di ciascuno, quella coesione che gli è comunque essenziale. Il sistema elettorale, in particolare attraverso i collegi uninominali, era un ingrediente non minore di questo processo di radicamento. E che il processo fosse virtuoso in quanto radicasse coesione lo conferma il fatto che i due poli si sono alternativamente lanciati l’accusa di essere internamente divisi e quindi non sufficientemente coesi. Ebbene, ad interrompere il processo è ora il polo di centrodestra, il quale, da solo e avvalendosi della maggioranza di cui dispone in parlamento, cambia il sistema elettorale e significativamente impone un ibrido (ben più ibrido del cosiddetto Mattarellum), che da una parte ci riporta al voto proporzionale di lista e dall’altra introduce un premio di maggioranza per la lista o le liste coalizzate con più voti.

È proprio la cronaca dei crescenti dissensi interni al centrodestra, e della vera e propria incompatibilità che si è venuta creando fra alcuni almeno dei partiti che lo compongono, a fornirci la migliore spiegazione della scelta: si è voluto, per ora, salvare il bipolarismo, ma l’unico modo per farlo era quello di consentire all’elettorato di ciascun partito di votare per i suoi soli candidati, giacché si temeva che, negli attuali collegi uninominali, il candidato unico della Lega non avrebbe avuto i voti degli elettori, a dir poco, dell’UDC e viceversa. Il centrodestra riesce così a sopravvivere, ma solo sommando i voti separatamente presi dai suoi singoli partiti. Va aggiunto poi che il nuovo sistema, non soltanto ha questa funzione, ma è anche adattabile ad un assetto politico non più bipolare: teniamo presente, infatti, che il premio di maggioranza viene conferito alla coalizione di liste che abbia semplicemente preso più voti, con una soglia minima che arriva massimo al 20% al senato. In questo senso esso fornisce un lasciapassare più che conveniente verso la rottura delle coalizioni esistenti, offrendo la possibilità di governare alla prima fra tre o quattro o più coalizioni non maggioritarie.

Ce n’è più che abbastanza per mettere in evidenza l’allontanamento dai principi e dalle aspettative che avevano ispirato la conformazione del nostro sistema politico nell’ultimo decennio a seguito di ripetuti referendum, nei quali chiarissimo era stato il ripudio degli elettori di un sistema che aveva finito per delegare interamente ai partiti la scelta delle maggioranze e, di fatto, la scelta stessa degli eletti. Nella legge vigente in questi anni, in modo sia pure incompiuto, le aspettative insite in quel ripudio hanno avuto una loro risposta: con il collegio uninominale sono stati gli elettori a dire comunque si o no a quell’unico candidato con cui i partiti si presentano davanti a loro; e con l’assegnazione dei collegi in base al principio maggioritario si sono spinti i partiti a unire i loro simboli su quell’unico candidato e quindi a vivere la campagna elettorale, all’interno delle rispettive coalizioni, in una logica non di concorrenza, ma di cooperazione. E se lo scopo che si persegue è la coesione, è difficile porre in dubbio che la cooperazione è più adatta della concorrenza.

Ebbene, entrambe le cose si perdono con il nuovo sistema: l’assegnazione proporzionale dei seggi scatena la concorrenza fra gli stessi partiti coalizzati, rendendo ancora più difficile la coesione che essi dovranno dimostrare dal giorno successivo alle elezioni; e gli eletti non li sceglie più l’elettore, ma li scelgono i partiti attraverso liste bloccate di nomi, che non compariranno neppure nella scheda. Questo è un vulnus gravissimo alla ritrovata sovranità dell’elettore, né basta dire, per giustificarla, che in questi anni nei collegi cosiddetti «sicuri» sono stati più i partiti a «catapultare» candidati destinati comunque ad essere eletti, che non gli elettori a sceglierli davvero con il loro voto. Intanto constatare che un sistema ha un inconveniente in taluni suoi punti, non giustifica la trasformazione in sistema dello stesso inconveniente. E poi anche su questa critica, pur pertinente, una tara va fatta, perché negli stessi collegi sicuri la presentazione di un candidato disadatto o fortemente sgradito all’elettorato locale viene sempre pagata. L’esame, davanti a quell’elettorato, lo fanno tutti e se funziona il legame si crea in ogni caso. Con la lista non sarà più così. E la campagna elettorale finiranno per farla davvero, oltre naturalmente ai leaders, i tre, quattro candidati che si collocano sulla fascia di confine tra i probabili eletti e i nomi messi in lista per far numero. In tempi in cui si lamentano deficit di democrazia e si cercano modi per rafforzare i legami fra i cittadini e chi li rappresenta, questo è davvero andare controcorrente. Qualcuno dirà: si era però proposto di ripristinare, insieme alla lista, il voto di preferenza, ma si sono levate critiche feroci e si è agitato lo spettro del gonfiamento dei costi della politica e quindi dei finanziamenti illeciti. Sì è così, ed erano critiche giuste. Ma questo che cosa dimostra? Che si è scelta una strada tanto sbagliata che, al suo interno, il rimedio è peggiore del male. E l’unico modo di evitare tanto il male quanto il rimedio peggiore del male era non toccare i collegi uninominali.

E per finire, quella che appare una vera e propria assurdità, che tale è in sé e per gli argomenti, da hellzappoping, con i quali è sostenuta e difesa: il premio di maggioranza al senato. Inizialmente lo si era proposto negli stessi termini previsti per la camera, e cioè come un aiuto di Stato in seggi, sulla base dei voti complessivamente ottenuti nel paese. Ma questo – si è notato da più parti – contrasta con la Costituzione, che per il senato vuole una elezione «a base regionale», come tale non influenzata, in ciascuna regione, da fattori extra-regionali. E allora si è fatta la cosa all’apparenza più semplice e ovvia, il premio lo si è mantenuto, ma si è previsto di assegnarlo alla lista o alle liste coalizzate che hanno preso più voti in ciascuna regione. Il vizio di prima così sparisce, ma qual è il senso, a questo punto, del premio di maggioranza? Esso risponde a un’unica finalità, quella di garantire la governabilità, rafforzando la maggioranza politica della cui fiducia il governo dovrà godere in entrambe le camere. Ma dove finisce questa finalità, se il premio in una regione va a una coalizione, in un’altra regione a un’altra? E – si sono chiesti in molti – non finisce il congegno per essere per altro verso incostituzionale, giacché limita l’eguaglianza del voto per una finalità che non è più la governabilità, ma quella indecifrabile di una lotteria?

La risposta più corretta a queste domande è – secondo noi – quella affermativa: il congegno è tanto irrazionale, quanto incostituzionale. Ma sulla sua irrazionalità la maggioranza scivola e concentra le sue difese sul tema della incostituzionalità, avvalendosi degli argomenti di chi dice che non sempre una legge irrazionale è anche incostituzionale. E qui arriva hellzappoping, perché dicendo e ribadendo che il congegno non è incostituzionale, si conclude che quindi va bene così com’è e si può procedere ad approvarlo senza problemi. Ma non rimane comunque irrazionale, non rimane comunque una lotteria, non è almeno vero che non tutte le baggianate sono incostituzionali e che quelle che non lo sono non cessano per questo di essere baggianate? Domande (al momento in cui questo editoriale viene scritto) senza risposta. Del resto, per una coalizione che teme di perdere, l’ultima delle preoccupazioni è, evidentemente, la governabilità. Se tra i frutti avvelenati della sua legge elettorale c’è il rafforzamento non della maggioranza parlamentare, ma della possibilità che questa non ci sia, tanto di guadagnato.

Siamo in presenza, dunque, di un cambiamento per più versi pericoloso: riespande la «delega» ai partiti o, ancor più, alle loro segreterie nazionali, li mette in concorrenza fra di loro per la ricerca di quei voti che dovrebbero invece cementare la loro coesione, incentiva ambiguamente un bipolarismo frastagliato e un sistema non più bipolare, usa uno strumento tipico della governabilità, il premio di maggioranza, con il più probabile effetto di ridurla anziché rafforzarla. Come reagire? La prima risposta che è venuta dal centrosinistra – detta e ribadita con tutta chiarezza dallo stesso Romano Prodi – è stata la promessa e l’impegno di abrogare la nuova legge dopo la vittoria elettorale, se la avremo. Ed è una risposta che vale al di fuori e a prescindere dalla discussione se il centrosinistra debba o meno abrogare le leggi fatte dal centrodestra. In termini generali, la discussione è astrattamente oziosa, mentre nello specifico di questo caso vale per noi quello che valse in Francia, quando fu il centrosinistra di Mitterand a cambiare la legge elettorale in chiave proporzionale al solo scopo di mettere in difficoltà il centrodestra con i voti della destra estrema di Le Pen, e toccò poi al centrodestra ripristinare la logica bipolare.

Ma da noi, in Italia, è già accaduto qualcosa di più, che è ancora più importante delle prese di posizione dei leaders. Ci sono state le nostre primarie, quelle che hanno sancito la leadership e la candidatura alla guida del governo di Romano Prodi, e in esse chiunque ha visto una duplice risposta alla nuova legge elettorale. In primo luogo c’è stata nelle primarie una reazione a quella che è stata percepita come una forzatura, una imposizione fondata soltanto sui numeri di cui dispone la maggioranza parlamentare. A quei numeri si è risposto con i numeri, con una partecipazione superiore ad ogni aspettativa e ad ogni precedente di primarie in qualunque parte del mondo (in percentuale dei votanti alle elezioni). Quattro milioni e trecentomila italiani che si mettono in fila, che versano il loro contributo, che firmano un programma e infine depositano una scheda in un’urna sono davvero tanti in una occasione in cui rispondono soltanto a un tam tam volontario. È un segno di buona salute del centrosinistra e della voglia di cittadinanza attiva su cui esso può contare. Ma è ed è stato anche un segno di civilissima rivolta contro quell’imposizione e siamo in diversi a pensare che questa ha contribuito non poco a innalzare la partecipazione alle primarie.

C’è poi la seconda risposta, che è tutta inscritta in quegli oltre tre milioni e duecentomila schede, il 75% del totale, che hanno scelto il nome di Prodi. Era il nome in cui, almeno nelle primarie, si erano identificati soltanto i partiti che avevano costituito la Federazione dell’Ulivo, nessuno dei quali, nonostante le tribolate vicende della stessa Federazione, aveva presentato altre candidature. I voti per Prodi sono stati voti per l’Ulivo, voti per la coesione, voti per un’identità comune che già si percepisce nell’alone della politica e che si vuole trasformare in identità politica. E il messaggio era destinato ai partiti dell’Ulivo, che non a caso pochi giorni dopo hanno rimesso in pista la lista comune per l’elezione della camera sullo sfondo di rinnovare intenzioni unificanti, ma era destinato anche al centrodestra: voi volete spingerci alla concorrenza fra di noi, ma noi ribadiamo che vogliamo coesione e alla coesione impegniamo i nostri partiti, nonostante la vostra legge elettorale.

In questo modo, la reazione del centrosinistra alla nuova legge non è soltanto un rimando al futuro, ma è di immediata messa in moto di un processo politico antitetico alla sua logica, che avviene per di più per la spinta, inattesa nella sua forza e nelle sue dimensioni, dei nostri stessi elettori. C’è qualcosa di straordinario in tutto ciò, che per una volta rende onore alle capacità creative della politica.

È di rito concludere – ma è fondamentale farlo – che ora tocca ai partiti raccogliere tutta l’energia che c’è in quella spinta, per fare, nei tempi certo necessari, i passi unificanti che essa a suo modo ha di già anticipato. In queste primarie i nostri cittadini attivi sono stati davvero vicini ai loro, ai nostri partiti, come raramente era accaduto in passato. Ma la cittadinanza attiva non ama le docce scozzesi e può diventare ribelle e ostile a chi gliele impone. Cerchiamo di restare fedeli, allora, alla temperatura delle primarie. E di mantenerla come nostra temperatura costante. I modi per farlo non mancano e di essi dovremo parlare.