Un partito per il riformismo in Italia e in Europa

Di Alfredo Reichlin Mercoledì 01 Marzo 2006 02:00 Stampa

Con il voto del 9 aprile si chiude una intera fase politica. Quindici anni. Una transizione troppo lunga che sarebbe bene chiamare con il proprio nome, e cioè come il tentativo non riuscito di dare un assetto istituzionale e il necessario fondamento eticopolitico a una «seconda» Repubblica. Anche per questo il paese è andato allo sbando ed è rimasto esposto fino all’ultimo a rischi gravissimi. Se lo ricordo è perché bisogna apprezzare in tutto il suo valore la tenacia con cui i DS hanno tenuto ferma l’iniziativa unitaria.

 

Con il voto del 9 aprile si chiude una intera fase politica. Quindici anni. Una transizione troppo lunga che sarebbe bene chiamare con il proprio nome, e cioè come il tentativo non riuscito di dare un assetto istituzionale e il necessario fondamento eticopolitico a una «seconda» Repubblica. Anche per questo il paese è andato allo sbando ed è rimasto esposto fino all’ultimo a rischi gravissimi. Se lo ricordo è perché bisogna apprezzare in tutto il suo valore la tenacia con cui i DS hanno tenuto ferma l’iniziativa unitaria.

Il problema cruciale è evitare che il paese vada allo sbando. Perciò il dovere del centrosinistra è governare. Il che non è solo suo diritto, ma suo dovere: rimettere l’Italia in cammino. Ma se è vero che le forze che entrano a Palazzo Chigi potranno far leva sugli strumenti del governo, esse dovranno misurarsi sia con un vuoto pericoloso che riguarda il sistema politico, ma anche con processi degenerativi del tessuto democratico. C’è di fronte a loro un’Italia e una situazione internazionale che non consentono più di navigare a vista. I problemi non risolti in questo quindicennio non possono più essere rinviati. Sia pure a piccoli passi, con realismo, tenendo conto delle condizioni disastrose in cui ci muoviamo, sarà necessario affrontare – finalmente – le ragioni di una crisi dell’organismo italiano che non sono riducibili ai guasti creati da una banda di avventurieri, ma riguardano il fatto che da molto tempo questo paese non ha avuto una guida che sia stata in grado di porre il suo sviluppo su quella base realmente nuova che era imposta dai processi di globalizzazione e dalla fine del cosiddetto compromesso socialdemocratico.

Dopo anni di dispute astratte sul riformismo, ridotto quasi a mediazione dell’esistente, dovrebbe essere chiaro ormai che di questo si trattava e si tratta. Certo, di accrescere le capacità competitive del sistema economico, ma per farlo bisognava riformare cose come il «patrimonio umano» (indebolito al punto che il paese di Dante e di Galileo scende agli ultimi posti per ciò che riguarda la formazione, la ricerca, l’università); il «tasso di attività» (un italiano su due lavora a fronte di tre americani su quattro); il «tessuto sociale» (non solo le classiche ingiustizie ma l’enorme peso delle rendite, dei corporativismi, della illegalità diffusa e organizzata, e quindi il ruolo marginale attribuito al lavoro produttivo); lo spazio concesso, come in nessun altro paese dell’Occidente, ai «poteri occulti» e alle varie mafie e massonerie. Infine la sempre più incerta collocazione dell’Italia nella nuova divisione internazionale del lavoro.

È in questa degenerazione del tessuto etico-civile che la canagliesca predicazione della paura fatta da Berlusconi ha fatto presa. Il tema era questo, non le aliquote fiscali. Dunque di questo si tratta. Di grandi problemi ormai ineludibili che la sinistra deve affrontare se vuole restare protagonista della storia del paese. Il governo Prodi può cambiare molte cose, ma dubito che bastino i ministri. Quando dico «problemi ineludibili» intendo esattamente questo: prendere coscienza, senza illusioni, del fatto che se la risposta democratica e riformatrice non sarà all’altezza, l’Italia non resterà come prima. Assisteremo, temo, oltre che a un ulteriore degrado dell’economia e della vita civile, a uno sfilacciamento del tessuto democratico. La direzione del paese passerà in altre mani, che non è detto siano quelle di una formazione politica. Le grandi decisioni verranno prese da un grumo di poteri sempre più «oligarchici», non solo italiani, dove la plutocrazia del denaro si mischia con i poteri occulti, le massonerie internazionali degli affari con le grandi reti dei media. Del resto, la potenza di queste strutture già si intravede dietro l’indebolimento delle vecchie istituzioni dello Stato di diritto e parlamentare. E non riesco a capire come si possa separare la costruzione di un nuovo partito riformista dal fatto che non per caso, ma anche in rapporto a questa trasformazione del potere, assistiamo all’affermarsi di una sorta di «partitocrazia senza partiti», cioè senza popolo ma con un ruolo crescente degli eletti, del potere personale, del presidenzialismo. I quali «eletti» (non tutti in verità) si servono di una nuova burocrazia di assistenti e di funzionari che, a differenza dei tanto disprezzati funzionari di partito di una volta, non organizzano movimenti sociali né rappresentano una base di militanti.

Cosa pensano i DS? Credono di poter restare come sono, orgogliosi del fatto di essere ancora in larga parte (e pressoché da soli) un partito degno di questo nome, e pensano così di fronteggiare le opportunità e i rischi di questa nuova fase della vita italiana? Oppure è anche da questo insieme di cose che essi ricavano non rimpianti per il passato, ma la conferma che è necessario uscire dai vecchi confini per dar vita a una nuova forza politica riformista? Riformista non a parole, ma in quanto capace di pensare un’Italia diversa nel solo modo concreto, cioè mobilitando e riorganizzando le energie migliori del paese che sono grandi e non spente. Perché questo è il punto. Non è vero che non esista – sia pure potenzialmente – il «popolo» di un grande partito riformista. C’è, come dimostrano certi fenomeni sorprendenti di mobilitazione, anche al di là dei partiti. Ma per organizzare in modo permanente questo popolo bisogna dare ad esso una soggettività politica, e quindi non solo una «voce», ma un «pensiero» sul futuro dell’Italia. Insomma un ideale. Una ragione per lo stare insieme che sia fondata su un qualcosa che riguardi la nostra storia e non quella dell’Inghilterra. Cosa impossibile senza far leva sulle culture profonde che hanno riformato sul serio l’Italia, perché loro l’hanno fatta. Perché hanno costruito lo Stato repubblicano sulla base di una Costituzione che fu scritta non dai sedicenti «liberal», ma dai partiti popolari: PCI, DC e PSI. E perciò democratica perché non calata dall’alto e (unico caso in Europa) non concepita dalle classi dirigenti borghesi, ma dalle forze fino ad allora escluse dallo Stato. Lo dico per ricordare che quelle forze popolari, che in questi anni si sono fatte stupidamente processare dagli epigoni del «liberismo ristretto» e antipopolare tipico della borghesia italiana (ivi compresa quella sua variante che è l’anticomunismo degli ex «gruppettari»), sono quelle che hanno fatto la più grande operazione riformista che l’Italia moderna abbia conosciuto. Certo, ciò che dobbiamo fare adesso è diverso. Ma è di uguale portata. E non perché qualcuno ce lo imponga, ma perché una riorganizzazione dell’attuale impotente sistema politico è necessaria se vogliamo evitare che questa sorta di partitocrazia senza partiti evolva – come io temo – verso forme di potere personale e di presidenzialismo.

La ragione di questo pensare a una unificazione dei riformisti è quindi molto seria e riguarda noi, il futuro della sinistra. Perché se è vero che un non definito partito democratico può essere architettato anche nel senso del «tutto cambi perché nulla cambi», è altrettanto vero che il 9 aprile è una data periodizzante. Si chiude una intera fase politica. Si pone quindi anche per il partito dei DS – quel mio partito al quale Piero Fassino è riuscito a dare in questi anni un nerbo e una funzione «centrale» di garante della democrazia contro gli assalti di una destra sovversiva – il problema di ridefinire la sua strategia, la sua nuova funzione nazionale. Parlo di strategia in senso forte: ridefinire la giustificazione storica di una sinistra che è disposta a uscire dai suoi vecchi confini non per dissolversi, ma per la ragione che la sua ambizione (la sua funzione) è quella di svilupparsi sempre più come una forza di governo, che sia anche parte integrante di un movimento politico europeo in grado di pesare sui destini del mondo.

E vengo così al cuore della questione. L’ipotesi di un partito unificato comporta la rinuncia a questa ambizione? Se fosse così, se tutto si riducesse ad accordi e mediazioni di vertice, una nuova forza di progresso consistente non nascerà mai. Sono tanti quelli che, come chi scrive, vorranno impedire la dispersione del patrimonio storico della sinistra e non solo perché vengono da lì, ma perché quel patrimonio è componente essenziale dell’ossatura democratica italiana. Ma, detto questo, sappiamo anche benissimo che il solo modo per difendere questo patrimonio è quello di mettere la sinistra attuale in grado di fronteggiare le sfide che si presentano all’inizio di questa nuova fase della storia politica italiana. E allora? Allora è questo, solo questo il punto di partenza di ogni discussione sul partito nuovo. Perché i partiti non si inventano. Essi nascono se si coagula un nuovo gruppo dirigente il quale comincia a esprimere un disegno politico capace di dare voce a un movimento reale: a forze che chiedono rappresentanza e vogliono partecipare. È a una idea di questo genere che stiamo lavorando? È tempo che a questo interrogativo si dia una risposta chiara. È così? Perché solo se è così la sinistra non ha bisogno di difendere la sua vecchia identità. L’identità è questa funzione, non è il nome. Ed è questa funzione che comporta l’uscita dai vecchi confini e l’avvio di un processo unitario che non andrà mai avanti se noi per primi non ci rimettiamo in discussione. Di questo allora bisogna parlare, non solo del contenitore, ma del contenuto, cioè delle sfide che sono sul tappeto e che la sinistra, così com’è, non è in grado di fronteggiare.

Ho già parlato dell’Italia che ci lascia Berlusconi. Un paese alle prese con un problema che riguarda il suo futuro: se cioè resterà tra quelli che contano in un mondo sconvolto da trasformazioni rapidissime e i cui confini politici economici, culturali, religiosi non sono più quelli fissati dall’Occidente. La risposta a questa sfida non può venire solo dai DS e un partito democratico non è pensabile se non in rapporto all’avvio di una operazione costituente al livello dello Stato. Ma è anche il contesto internazionale che è cambiato e impone alla sinistra un nuovo profilo storico-politico. Tutto dice che assistiamo alla crisi del disegno imperiale della destra americana. Non regge più – il che rappresenta davvero una grande novità gravida di conseguenze – l’idea che, scomparsa l’URSS, la superpotenza solitaria sia in grado di dettare al mondo, come la Roma di Augusto, una «pax americana». Cioè imporre la propria sovranità, la propria idea del Bene e del Male, perfino le proprie leggi fino all’uso della forza militare in nome del diritto all’invasione di Stati considerati nemici. Era un grande disegno. Discutibile, ingiusto fin che si vuole, ma tale da garantire un «ordine» a un mondo carico di lacerazioni e di incertezze che si globalizzava. È questo disegno che non regge. Il che richiederebbe una analisi molto più articolata e complessa che non è alla portata di questo scritto. Mi limito qui a richiamare l’attenzione sul fatto che mentre le nuove potenze in formazione – la Cina, l’India, il Brasile – stanno già cercando di riempire il vuoto che si è creato, l’Europa tace. Cosa aspetta la sinistra europea a rendersi conto dei nuovi spazi che anche per lei si sono creati? Se non ripartiamo da qui, dalla crisi della «rivoluzione conservatrice» e quindi dalle nuove responsabilità mondiali dell’Europa, quale partito riformista vogliamo fare? Non siamo di fronte solo a problemi di politica estera, ma alla rimessa in discussione di cose che riguardano la stessa ragion d’essere di ciò che si chiama un «partito», cioè i valori, i rapporti tra culture, modelli di vita, religioni, ideologie. Ci rendiamo conto che nella nuova struttura di un mondo che non è più riducibile all’Occidente la sinistra quale noi siamo, quella che viene dall’illuminismo, dai diritti dell’uomo e dal movimento degli operai occidentali, può anche diventare irrilevante e ridursi a un fenomeno locale? La responsabilità dei nostri dirigenti è davvero enorme. L’Europa non conterà niente se non produrrà un nuovo pensiero capace di parlare al mondo non solo con il linguaggio sanfedista del senatore Pera, ma neppure con il servilismo verso il padrone americano dell’onorevole Berlusconi.

Il banco di prova del riformismo è dunque questo. È la formazione di un grande partito europeo in grado di fare politica a livello mondiale. Politica estera e politica interna fanno ormai un tutt’uno. E a ben vedere la grande difficoltà del riformismo non sta tanto nel mettere in campo un ceto politico moderno efficiente e onesto. Sta soprattutto nel dotare le persone di nuove armi politiche e sociali capaci di contrastare la potenza delle oligarchie con poteri meno fragili di ciò che resta dei partiti, dei sindacati, della sovranità degli Stati nazionali. Ed è qui che sorge una domanda molto difficile che però non può più essere evitata. Dove sta la «potenza» democratica, cioè il potere di incidere in una società molecolare dove non ci sono più i vecchi blocchi classisti, ma una somma di individui?

Io credo che stia nell’organizzarsi di un nuovo soggetto politico come lo strumento di una nuova alleanza tra le forze più creative del lavoro, dell’impresa e dell’intelligenza interessate a battersi contro il grumo di conservatorismi e perfino di tentazioni sovversive che, come si è visto, attraversano la società italiana. Perciò è uno sbaglio grave ripiegare sul partito degli eletti. Abbiamo bisogno invece di partiti meno assillati dalla gestione dell’esistente e più sociali, cioè più «culturali». Non dovrebbe trattarsi di una riedizione della vecchia alleanza tra produttori. E non solo perché al posto della vecchia società industriale c’è una società molecolare e dei servizi e, quindi, i grandi patti neo-corporativi tra sindacati e Confindustria non sono riproponibili. Ma anche perché meno di prima i soggetti si definiscono in base al reddito e più che mai contano la coscienza di sé, i valori, la consapevolezza che i propri interessi immediati non sono difendibili se non teniamo conto di quella fondamentale osservazione di Amartya Sen, il quale ci ricorda che è tempo di concepire lo stesso sviluppo economico «come un processo di espansione delle libertà reali godute dagli esseri umani», superando versioni più ristrette come quelle che lo identificano con la crescita del PIL o con l’aumento dei redditi individuali. Non si tratta di sottovalutare l’importanza dei fattori economici in senso stretto, ma di prestare più attenzione alla necessità di «rimuovere tutte quelle situazioni di esclusione e di non libertà che condizionano la creatività umana e che concernono la miseria come la tirannia, l’ingiustizia come la mancanza di beni pubblici».

Si tratta, quindi, per una sinistra riformista moderna di fare perno su un progetto nazionale il quale coinvolga le nuove generazioni non soltanto per la sua architettura, ma per il fatto che tiene insieme due grandi idee forza: l’idea della libertà e l’idea della sicurezza. L’idea della libertà come piena possibilità di affermazione delle proprie facoltà, in un mondo nel quale sempre più la volontà di ciascuno di determinare il proprio destino lavorativo diventerà la condizione del vivere. Ed è evidente che la condizione per affermare se stessi è la cultura e la formazione. Ma è anche la sicurezza come costruzione di nuove reti di protezione, come nuove funzioni pubbliche e come produzione di nuovi beni collettivi. Ma soprattutto come capacità di includere i diversi, di creare solidarietà, di gestire le interdipendenze.

Non sarà facile. Abbiamo bisogno di una cultura politica che ci liberi dalla subalternità al fondamentalismo di mercato come dalla nostalgia per il vecchio statalismo. Esistono ormai al mondo troppe cose che la vecchia lotta politica incentrata sul dilemma Stato o mercato non può più comprendere. Perciò bisogna puntare su un nuovo rapporto tra gli individui e la comunità, e quindi sulla rinascita della società civile per ricostruire i legami sociali e i poteri democratici distrutti dalla lunga ondata della destra su scala mondiale. Io non so se questo è la conferma che il socialismo non è un «cane morto». Personalmente, penso di sì. So però che, muovendo da un’altra base storica e ideale, altre culture e forze stanno pensando cose simili a queste, e anche più avanzate di queste.