L'Europa dopo i referendum

Di Giuliano Amato Lunedì 02 Maggio 2005 02:00 Stampa

Che cosa accadrà della Costituzione europea dopo i no degli elettori francesi e olandesi? E che cosa accadrà dell’Europa? A qualche settimana ormai dai due referendum e dopo i tanti commenti che essi hanno già suscitato, è soprattutto la seconda la domanda su cui vale la pena fermarsi in una rivista come la nostra, che vuole essere di aiuto alla politica. Non solo perché i possibili destini della Costituzione si sono venuti sufficientemente delineando, ma anche perché la scelta fra l’uno o l’altro dipenderà da ciò che l’Europa saprà essere, e quindi dai percorsi che la politica saprà imboccare, nei mesi che abbiamo davanti.

 

Che cosa accadrà della Costituzione europea dopo i no degli elettori francesi e olandesi? E che cosa accadrà dell’Europa? A qualche settimana ormai dai due referendum e dopo i tanti commenti che essi hanno già suscitato, è soprattutto la seconda la domanda su cui vale la pena fermarsi in una rivista come la nostra, che vuole essere di aiuto alla politica. Non solo perché i possibili destini della Costituzione si sono venuti sufficientemente delineando, ma anche perché la scelta fra l’uno o l’altro dipenderà da ciò che l’Europa saprà essere, e quindi dai percorsi che la politica saprà imboccare, nei mesi che abbiamo davanti.

Sino a quando rimane aperto il processo delle ratifiche e vi sono quindi Stati membri nei quali la relativa procedura va avanti, non si può dire che la Costituzione sia morta. La ormai famosa Dichiarazione n. 30, allegata al Trattato costituzionale e da tutti sottoscritta, prevede che a due anni dalla firma, se i quattro quinti degli Stati avranno ratificato e gli altri avranno avuto difficoltà a farlo, il Consiglio europeo valuterà la situazione. Ciò significa che fin dall’inizio uno o più «no» lungo il percorso erano ritenuti possibili, ma non ostativi della continuazione del processo. E significa anche che al momento (o meglio, al momento in cui questo editoriale viene scritto) non c’è ragione di escludere che ai quattro quinti si arrivi. Se a Francia e Olanda si aggiunge il Regno Unito (che ha deciso di «sospendere» il suo referendum), più la Danimarca e la Repubblica Ceca (che sono i paesi in cui l’aspettativa di un «sì» è comunque la più problematica) si arriva a cinque paesi senza ratifica. Nel caso che negli altri venti questa ci sia, i quattro quinti sarebbero raggiunti e il Consiglio europeo sarebbe davanti al problema del che fare.

Qualcuno dice, giustamente, che sarebbe bene spostare una tale valutazione dal 2006 al 2007, perché nel 2006 il presidente francese, che sarebbe ancora Chirac, potrebbe solo ribadire le ragioni del no, mentre nel 2007 un nuovo presidente, che magari nella campagna per la sua elezione avesse ripreso il tema della Costituzione, sarebbe forte di un diverso mandato e avrebbe margini maggiori e diversi. Certo si è che a quel punto sarebbe ancora possibile ipotizzare un nuovo voto sul medesimo testo dove è stato negativo (ipotesi massima e a più bassa probabilità di realizzazione), ovvero rimettere a un nuovo voto solo le parti I e II, che sono la vera Costituzione, lasciando a una fase separata la parte III, che è in realtà una parziale riscrittura dei complessi Trattati esistenti e la cui indigeribilità in un voto popolare ha tanto pesato nei referendum di maggio, ovvero ancora concordare parti specifiche da salva re per innestarle nei Trattati esistenti (che rimarrebbero altrimenti come sono), ovvero, da ultimo, far cadere tutto e aprire un nuovo processo.

Questo è il quadro per quanto riguarda la Costituzione. Ma qual è il punto? Il punto è che la scelta che potrà essere fatta fra due o tre anni (e ad una scelta dovremo comunque arriva re anche se non saranno raggiunti i quattro quinti, sia pure, a quel punto, in un ventaglio di opzioni più limitato) dipenderà fondamentalmente dalle scelte che nel frattempo avrà fatto la politica sulla direzione da imprimere alla vita quotidiana dell’Europa, interpretando in chiave non costituzionale, ma appunto politica il voto negativo degli elettori. Lo sappiamo tutti che il no solo marginalmente ha riguardato la Costituzione e che è stato in primo luogo un no all’Europa che non cresce, che non difende a sufficienza dagli effetti perversi della concorrenza globale, che si riempie di immigrati e allarga i suoi confini senza spiegare sino a dove li vuole port a re, che (è il caso degli olandesi) costa più di quanto dà, che infine decide di questo e di quello senza che i suoi cittadini ne siano tempestivamente e sufficientemente informati, salvo a trovarsi addosso, dopo, le conseguenze di ciò che è stato deciso.

Davanti a questa congerie di motivi, diviene determinante la lezione politica che se ne trae in vista delle future decisioni europee e qui, ahimè, ciascuno è indotto a trarre la sua lezione politica, in ragione dei giudizi e dei pregiudizi che già nutriva sull’Europa, nonché dei benefici politici che si aspetta di poter trarre dal voto. C’è chi dice che il voto segna la fine dell’Europa dei burocrati, che la parola deve tornare ai veri rappresentanti democratici, e tali sono soltanto i governi dei singoli Stati con i loro parlamenti, e che quindi è bene adattarsi a un’Europa più inglese e meno integrata. C’è chi dice all’opposto che è l’Europa dei negoziati fra gli Stati che ha fatto il suo tempo, perché sue sono le debolezze europee e suo il vuoto di politica e di crescita attorno alla moneta unica, contro cui si sono espressi gli elettori, e che occorre fare il salto verso un’Europa finalmente integrata, magari ricominciando proprio dal processo costituente con un’assemblea direttamente eletta dai cittadini. E c’è infine chi dice che il voto deve segnare la fine dell’Europa delle liberalizzazioni e di quella degli allargamenti, in nome di un’Europa più pro t ezionista a beneficio della identità tradizionale dei suoi cittadini, della salvaguardia dei suoi prodotti e della natura pubblica dei suoi servizi pubblici.

Ebbene, l’Europa ha davanti nei prossimi mesi un’agenda ormai definita e assai impegnativa, che include l’approvazione delle prospettive finanziarie, cioè il quadro delle risorse e dei grandi capitoli di spesa a cui destinarle per gli anni 2007/2013; le politiche per la crescita, e cioè la concretizzazione della strategia di Lisbona nella cornice appunto delle nuove prospettive finanziarie; i futuri allargamenti, che vanno dai Balcani alla controversa questione turca. Se le diverse lezioni che si traggono dal voto referendario si confronteranno così come sono su questi temi in agenda, l’ipotesi più probabile è che il confronto porti alla paralisi e che entriamo in una rinnovata fase di eurosclerosi dagli esiti imprevedibili. E l’esito più probabile è che l’eurosclerosi dia ulteriore alimento all’euroscetticismo, che di Costituzione difficilmente si torni a parlare e che a quel punto si avvii l’ articolazione di una geometria variabile, che renderà sempre più inglese l’Europa allargata, collocando al suo interno isole di cooperazione rafforzata.

Prima di interrogarsi sulla desiderabilità di un simile sbocco, e prima di metterlo quindi al centro della sua attenzione, è bene che la politica si interroghi invece sul modo in cui intende affrontare l’agenda dei prossimi mesi, per contrastare la deriva dell’eurosclerosi, arrivando a decisioni, che siano nell’interesse comune e corrispondano agli interessi e ai bisogni degli elettori. Ed ecco allora le domande a cui oggi deve rispondere.

Le prospettive finanziarie devono contare su risorse sufficienti a far partecipare in misura adeguata i nuovi Stati membri ai fondi comuni, senza tagliare bruscamente fuori le zone ancora deboli dei nostri paesi? Oppure il no olandese (e la ritrosia di altri) devono prevalere su tutto, aprendo la strada a un’Europa non più capace di colmare i suoi squilibri interni? E per migliorare le nostre prospettive di crescita occorre un impegno comune nella ricerca e nel rafforzamento del nostro capitale collettivo e sociale, oppure è meglio che ciascuno faccia da solo altrimenti cadiamo nelle mani dei burocrati, che è l’unica cosa che davvero avremmo in comune? E sempre in tema di crescita, dobbiamo eliminarle le barriere interne che ancora ci impediscono di avere un mercato europeo dell’elettricità, del gas, dei servizi finanziari, dei trasporti, dei servizi, che generano rendite e quindi costi elevati per le nostre imprese e per i nostri consumatori, oppure il no al referendum degli elettori francesi deve cancellare la parola stessa «liberalizzazioni», anziché spingerci ad una migliore copertura sociale di chi dalle stesse liberalizzazioni può trovarsi effettivamente danneggiato? E dei Balcani dobbiamo ancora occuparci, evitando che diventino un buco nero entro i confini dell’Europa, oppure di allargamenti è meglio non parlare più e l’Europa che c’è lecca le sue ferite, rinunciando anche a quel limitato ruolo di potenza regionale che ha finora saputo svolgere, proprio attraverso il potere di attrazione esercitato sui paesi vicini?

Sarà bene che la lezione politica dei voti referendari sull’ Europa la discutiamo nel prisma di queste domande e non nell’ambito artificiale di quelle artificiali discussioni sui modelli, nei quali tendiamo troppo spesso a disperdere energie e a liofilizzare i problemi. E sarà bene che a farlo sia per prima la famiglia socialista, ferita da un voto che in Francia l’ha spaccata e che rischia di rigettarla in una delle sue (delle nostre) tradizionali guerre ideologiche. Anche perché, se una lezione di sicuro c’è per la nostra famiglia, questa investe diritto il coraggio di essere socialisti. Il che significa non ignorare mai le ragioni e i sentimenti dei nostri elettori e di quelli che comunque vogliamo rappresentare, ma non limitarsi per questo a echeggiare le loro reazioni. È giusto essere contro i guasti della concorrenza globale, non è giusto, e non è socialista, assecondare per questo tendenze xenofobe. È giusto che i cittadini dei nostri Stati non sappiano a cose fatte che i balcanici sono diventati loro concittadini europei, non è giusto cancellare la prospettiva dell’accesso dei Balcani alla nostra Unione, quando ciò possa accadere per un difetto di dialogo democratico all’interno di questa, che porti ad un atteggiamento contrario, fondato solo su reazioni emotive.

In conclusione: il primo difetto dell’Europa fotografata dai no referendari è un difetto di democrazia e di esso la famiglia socialista per prima deve farsi carico; ben sapendo però che una Europa più democratica non è un’Europa che asseconda pavida le reazioni provocate nei cittadini da una sequenza di decisioni sino ad oggi troppo elitarie. È piuttosto un’Europa che le decisioni future le fa scaturire da un dialogo più intenso e più argomentato con loro, facendosi convincere dalle loro ragioni, ma anche incanalandole entro i binari tracciati dai valori che costituiscono il nostro irrinunciabile patrimonio comune e dai progetti che ne sono il necessario svolgimento. Se non sarà così, sarà inutile che di Europa si continui a parlare. E sarà inoltre impensabile, e privo di senso, che di Costituzione si torni a parlare.