Una riforma socialdemocratica per un'Europa che invecchia

Di Wolfgang Merkel Martedì 01 Marzo 2005 02:00 Stampa

La storia della socialdemocrazia è stata la storia della capacità di adeguarsi a circostanze in continuo cambiamento. La vocazione alla revisione, usata in passato per stigmatizzare i riformatori socialdemocratici, è divenuta una delle virtù decisive per il successo della socialdemocrazia del futuro. Nonostante ciò, molto dipende da quanto revisioni e riforme siano effettivamente adatte alle sfide che la socialdemocrazia deve affrontare oggigiorno. Altro elemento cruciale è la profondità del processo di revisione e l’oggetto che partiti e governi socialdemocratici intendono riformare: si tratta delle proprie strategie, degli strumenti, delle politiche, delle istituzioni, o dei propri valori fondanti? Il politologo di Harvard Peter Hall distingue tali interventi di cambiamento in cambiamenti di primo, secondo e terzo grado. Quelli di primo grado modificano le politiche governative, quelli di secondo gli strumenti politici e le strategie politiche, mentre quelli di terzo vanno a porre mano ai valori di base nonché agli obiettivi normativi fondamentali della socialdemocrazia.

 

La storia della socialdemocrazia è stata la storia della capacità di adeguarsi a circostanze in continuo cambiamento. La vocazione alla revisione, usata in passato per stigmatizzare i riformatori socialdemocratici, è divenuta una delle virtù decisive per il successo della socialdemocrazia del futuro. Nonostante ciò, molto dipende da quanto revisioni e riforme siano effettivamente adatte alle sfide che la socialdemocrazia deve affrontare oggigiorno. Altro elemento cruciale è la profondità del processo di revisione e l’oggetto che partiti e governi socialdemocratici intendono riformare: si tratta delle proprie strategie, degli strumenti, delle politiche, delle istituzioni, o dei propri valori fondanti? Il politologo di Harvard Peter Hall distingue tali interventi di cambiamento in cambiamenti di primo, secondo e terzo grado. Quelli di primo grado modificano le politiche governative, quelli di secondo gli strumenti politici e le strategie politiche, mentre quelli di terzo vanno a porre mano ai valori di base nonché agli obiettivi normativi fondamentali della socialdemocrazia.

In un mondo in rapida mutazione, i partiti socialdemocratici debbono essere in grado di condurre in porto riforme di primo e secondo grado, al fine di evitare quelle di terzo. In caso contrario, seppure vincenti in sede elettorale, rischiano di perdere la propria identità di partiti paladini della giustizia sociale e di non poter essere più distinti dai partiti cristiano-democratici o conservatori. Ma quali sono i grandi impegni che la socialdemocrazia dovrà affrontare all’alba del XXI secolo? Vale la pena citarne almeno tre, giacché per essi la socialdemocrazia non ha ancora trovato risposte adeguate di primo e secondo grado.

 

Globalizzazione

La socialdemocrazia dovrà necessariamente modificare le proprie politiche economiche a controllo statale tradizionalmente impostate sulla domanda al fine di ottimizzare il welfare economico. Dovrà smantellare le regole e le misure protezionistiche che inibiscono la crescita economica, senza per questo esporre gli strati più vulnerabili della società all’imperversare delle forze di mercato allo stato puro. L’istruzione e le politiche sociali dovranno fungere da complemento alle strategie economiche fondate sulle dinamiche di mercato al fine di creare una società che non sia solo prospera e libera, ma anche giusta, solidale e tesa alla coesione sociale. Ora, mentre i New Labour e alcuni dei nuovi Stati membri esteuropei dell’UE tendono a preferire le forze del libero mercato nel raggiungimento di tale obiettivo, alcuni dei maggiori partiti e governi socialdemocratici del continente continuano a palesare inclinazioni protezionistiche (soprattutto la Francia) e perseguono politiche di mercato del lavoro strettamente regolamentate (ad esempio la Germania) nell’intento di salvaguardare l’obiettivo di una società socialmente equa a breve termine. La socialdemocrazia scandinava sembra aver avuto maggior successo nel corso degli ultimi dieci anni nel trovare un equilibrio tra gli scopi economici e quelli sociali, come d’altronde indicato dalla dinamica economica, dai dati occupazionali, da una distribuzione più equa delle opportunità, nonché dalla coesione sociale.

 

Europeizzazione

La socialdemocrazia deve conquistarsi uno «spazio politico europeo», così da recuperare parte di quella capacità direzionale a livello europeo perduta negli ultimi vent’anni sui mercati internazionali in ragione della globalizzazione. Il progetto neoliberale dell’«integrazione europea negativa», ossia la creazione di un mercato interno europeo, dovrà essere accompagnata da una «integrazione positiva», cioè dal coordinamento e, se necessario, dall’armonizzazione delle politiche di bilancio, fiscali, occupazionali, sociali e ambientali dei paesi dell’UE. La Dichiarazione di Lisbona costituisce una fase necessaria, ma non sufficiente verso la realizzazione degli obiettivi socialdemocratici. La miopia di molti Stati membri genera un problema a livello di concertazione di un’azione collettiva. Se paesi come il Regno Unito o alcuni dei paesi membri nordici o est-europei vogliono continuare a insistere primariamente sulle proprie prerogative nazionali, i paesi che invece intendono approfondire il discorso dell’integrazione dovrebbero farlo. Mentre l’ampliamento dell’Europa è fondamentalmente un concetto neoliberale, quello dell’approfondimento è genuinamente socialdemocratico.

 

Cambiamento demografico

Le società europee stanno invecchiando, anche se non tutte alla medesima velocità. Ciò richiede una revisione della politica sociale: le modalità di finanziamento del welfare State, l’articolazione tra politiche per la famiglia, istruzione e carriera professionale delle donne; e implica un ricollocamento delle priorità dello Stato sociale. Ma quali sono i cambiamenti di primo e secondo grado che si rendono necessari ad affrontare la sfida posta dall’invecchiamento della popolazione senza abbandonare l’obiettivo socialdemocratico di una società giusta e solidale?

 

La sfida

A partire dagli anni Sessanta l’Europa ha vissuto una costante flessione dei propri tassi di natalità, toccando il proprio minimo storico con l’avvento del nuovo millennio. Il tasso medio di fertilità degli Stati membri dell’Unione nel 2001 è stato di 1,47 figli per donna. Durante lo stesso periodo di tempo, l’aspettativa di vita ha fatto registrare una crescita continua, raggiungendo livelli senza precedenti. La porzione inattiva della popolazione cresce costantemente, mentre diminuisce quella attiva. Ciò significa che una sempre più esigua popolazione attiva deve sostenere un numero sempre maggiore di pensionati, disabili e disoccupati. Ma un acuto osservatore si rende conto che questi sono dati derivanti da una massiccia aggregazione, che cela al suo interno differenze significative e rivelatrici tra paesi e tra diversi tipi di capitalismo del welfare.

Gli Stati assistenziali liberali, primariamente anglosassoni (come UK e USA), quelli continentali (ad esempio Italia e Germania) e quelli scandinavi sono sollecitati in modo diverso tra di loro dal fenomeno dell’invecchiamento delle rispettive società. Giacché l’aspettativa di vita non varia granché in seno al gruppo dei paesi OCSE (eccezion fatta per il Giappone), le dimensioni della problematica dipendono in modo specifico dal volume finanziario del welfare State, dalle sue modalità di finanziamento, dai tassi di fertilità, dal grado di integrazione delle donne nel mercato del lavoro, dalla media reale dell’età di pensionamento e dal rapporto tra la popolazione economicamente attiva e quella inattiva.

 

Le soluzioni

Nel caso del mondo «liberale anglosassone» (nel caso degli USA si tratta di un dato marginale) il welfare State fa registrare volumi finanziari che variano da livelli bassi (USA) a livelli medi (il Regno Unito). Nel 2001 la spesa sociale nel Regno Unito rappresentava il 21,8% del PNL. Una porzione considerevole di tale spesa è finanziata attraverso la fiscalità generale e non dalle ritenute previdenziali detratte in busta paga. Il tasso di fertilità nel 2001 era di 1,63 figli per donna, ben al di sopra, dunque, della media di 1,47 dell’UE sempre nel 2001. L’età reale di pensionamento (62 anni nel 2000) era palesemente più elevata rispetto a quella dell’Europa continentale (media UE 60,9), mentre il rapporto tra popolazione attiva e inattiva si presentava migliore di quanto riscontrato nella maggior parte dei welfare State del continente. Mentre il tasso di occupazione nel Regno Unito si attestava sul 78% nel 2003, la media dell’Unione europea era del 70,7%. In breve, gli Stati sociali anglosassoni liberali, con i propri benefits mirati e condizionali all’impiego, tassi di disoccupazione più bassi, maggior partecipazione delle donne al mondo del lavoro, con sistemi previdenziali privati sviluppati e in espansione e con il sistema di finanziamento tramite tassazione, sembrano essere meno vulnerabili alla pressione finanziaria esercitata dall’invecchiamento della popolazione. Da un punto di vista socialdemocratico questi paesi pagano uno scotto piuttosto alto. Ciò è particolarmente vero per Stati Uniti e Australia, ma è applicabile anche al Regno Unito. Dopo sette anni di governo del New Labour, la diffusione dei piani previdenziali privati continua a generare dualismo sociale e spese crescenti a carico delle famiglie per polizze di copertura assicurativa privata. La sola occupazione non è in grado di indurre flessioni significative degli alti tassi di povertà, né del numero di famiglie senza lavoro. Lo Stato assistenziale britannico sarà forse poco esposto alle minacce che scaturiscono dal problema della sostenibilità finanziaria, ma ha di fatto sacrificato gli obiettivi di uguaglianza a favore di un maggior numero di posti di lavoro, di più posti di lavoro a bassa retribuzione, di un accesso ineguale alla previdenza sociale e dell’esclusione dei gruppi socialmente vulnerabili. I programmi di lotta alla povertà infantile svolti nel corso dei due mandati del governo Blair non sono riusciti a controbilanciare sufficientemente l’aumento dell’ineguaglianza e della povertà registrato negli ultimi vent’anni.

I welfare State «continentali» sono senz’altro più tormentati dalla non sostenibilità delle proprie modalità di finanziamento. La spesa sociale è considerevolmente più elevata in Francia (con il 28,5%) e in Germania (con il 27,4% nel 2001), ed è in larga misura finanziata dal sistema delle ritenute in busta paga, dagli effetti non certo positivi sull’occupazione. Il carattere bismarkiano dell’assicurazione sociale del welfare State continentale è particolarmente vulnerabile alle problematiche degli andamenti demografici. Una popolazione attiva la cui consistenza si riduce sempre di più, come indicato dai dati relativi al tasso di occupazione (nel 2001 72,1% in Germania e 69,8% in Francia), non è più in grado di sobbarcarsi il grosso del peso della previdenza sociale. Ciò emerge già con chiarezza in seno al sistema pensionistico tedesco, di cui circa il 30% (dati del 2004) è finanziato da imposte generali prelevate dal governo federale. Gli elevati costi fissi del lavoro impediscono la crescita del numero di posti e portano ad alti tassi di disoccupazione; le regole ancora inflessibili che disciplinano il mercato del lavoro creano un divario profondo tra chi è dentro e chi è fuori; il carattere precario dell’occupazione dei più giovani e l’assenza di un sistema completo e di alta qualità di custodia giornaliera dei figli rende il lavoro o comunque la carriera professionale delle donne difficilmente compatibile con la cura della prole. L’Europa continentale continua a perpetuare le responsabilità tradizionali di assistenza in ambito familiare, che fanno gravare sulle donne un onere assolutamente sproporzionato. Ne conseguono bassi tassi di fertilità e di occupazione femminile. Seppure le donne siano altamente qualificate – e sempre più spesso meglio degli uomini – le strutture istituzionali rimangono ferme al cliché che tradizionalmente vede la figura maschile incarnare il ruolo di capofamiglia. Ciò vale in modo particolare per la Germania e l’Europa Meridionale, ma in misura minore per il Belgio e certamente non per la Francia, col suo sistema generalizzato di custodia dell’infanzia, scolarità a tempo pieno, e con i suoi consistenti assegni familiari. Non sorprende, dunque, che sia stata la Francia, nel 2001, a raggiungere i più alti tassi di fertilità dell’Europa Occidentale (1,9), mentre il Belgio è rimasto a 1,65 e la Germania (1,29), la Spagna (1,25) e l’Italia (1,24) sono andate ad attestarsi ai livelli più bassi. D’altro canto, il tasso di povertà e i livelli di disuguaglianza del reddito in Germania sono ancora molto inferiori rispetto a quelli del mondo anglosassone, grazie al persistere di salari relativamente alti per i lavoratori scarsamente qualificati e all’applicazione di schemi passivi di welfare assai generosi. La Germania e l’Europa del Sud si trovano di fatto prese nella «trappola del welfare senza il lavoro».1 Gli Stati continentali in cui vige la previdenza sociale hanno di fronte un doppio dilemma: non sono finanziariamente sostenibili a lungo termine, ma non attuano neppure un sistema sociale particolarmente equo, visto che di fatto discriminano le donne, i giovani e altre categorie esterne al mondo del lavoro. Investire nell’istruzione, allargare l’occupazione tra le donne e le fasce anziane, trasferire l’onere della sicurezza sociale dai contributi alla fiscalità generale e fornire servizi sociale di alta qualità sono condizioni sine qua non per la sostenibilità a lungo termine e per una maggiore equità sociale.2

Grazie al tipo di welfare State adottato e alle politiche sociali estremamente attente alle donne e all’infanzia, i welfare State scandinavi (socialdemocratici) si sono meglio adattati ai cambiamenti post-industriali e alle sfide poste dall’andamento demografico. Questi Stati hanno sottratto dall’ambito familiare le responsabilità assistenziali garantendo servizi sociali capillari e di alta qualità. Le loro politiche occupazionali e sociali rafforzano le famiglie, incentivano l’indipendenza individuale delle donne, rendono la carriera professionale compatibile con gli obblighi familiari e generano sicurezza sociale grazie a un basso livello di disoccupazione. I nuclei familiari a doppio reddito si sono rivelati la forma di difesa più efficace contro la povertà infantile e hanno grande effetto in termini di incremento dei tassi di natalità. Nel 2001 i tassi di natalità in Danimarca (1,74), Finlandia (1,73) e Svezia (1,57) sono stati di gran lunga superiori alla media europea. Giacché gran parte dei sistemi di previdenza sociale sono finanziati attraverso la fiscalità generale, la crescita occupazionale non ne risulta ostacolata. Per l’alta qualità dei servizi sociali erogati, la popolazione scandinava è più propensa a pagare tasse elevate di quanto non lo siano gli abitanti dei paesi anglosassoni e anche (sempre più) quelli dell’Europa continentale. Gli alti tassi di natalità e i pensionamenti tardivi ampliano il numero dei soggetti economicamente attivi e riducono la pressione finanziaria a lungo termine sui sistemi pensionistici.

L’età effettiva di pensionamento è in Svezia pari a 63,3 anni, visibilmente superiore alla media dell’UE, di 60,9. I tassi di occupazione in Svezia (80,2%) e Danimarca (80,6%) sono tra i più alti tra i paesi dell’OCSE e di molto più alti rispetto all’Unione europea (70,7%). La Scandinavia non è il mondo socialdemocratico perfetto in questi tempi di globalizzazione e cambiamento demografico. Ciononostante sembra incarnare il meccanismo più adatto a trovare un equilibrio tra le necessità di un’economia aperta, l’invecchiamento della società e la giustizia sociale.

 

La lezione

Ma quale lezione trarre dall’esperienza scandinava per porre rimedio alle debolezze specifiche dei paesi anglosassoni (ineguaglianza, alti tassi di povertà) e dell’Europa continentale (elevata disoccupazione, discriminazione delle donne e di chi è fuori dal mondo del lavoro)? Ovviamente non possiamo semplicemente trapiantare il modello di Stato assistenziale scandinavo in scala uno a uno e innestarlo nell’Europa continentale, in Gran Bretagna, in Australia o negli USA. Le politiche di welfare sono strettamente legate agli orientamenti generali e più sono generose e universali, più fanno affidamento su società omogenee e inclini alla fiducia. Ma è pur vero che i socialdemocratici fuori dalla Scandinavia possono trarre da quest’ultima insegnamenti utili ad adeguarsi ai cambiamenti economici, demografici e societari attraverso riforme di primo e secondo grado senza per questo perdere la propria identità o abbandonare i propri obbiettivi di creare una società equa. Partendo dall’esperienza scandinava, Gosta Esping-Andersen ha recentemente proposto una riscrittura del contratto sociale. Le sue argomentazioni potrebbero essere riassunte in tre contratti sociali parziali: un nuovo contratto per la famiglia, un nuovo contratto di genere, un nuovo contratto per l’occupazione.

Il fulcro del «nuovo contratto per la famiglia» dovrebbe consistere in una strategia d’investimento imperniata sui bambini. Ciò implica una sostanziosa garanzia di reddito per avversare la povertà infantile, un’alta qualità dei servizi di custodia giornaliera, scolarità a tempo pieno e ottimizzazione dell’occupazione femminile. I nuclei familiari a due redditi rappresentano la migliore forma di difesa contro la povertà infantile. L’affrancamento dalla gabbia dell’indigenza familiare, che restringe sostanzialmente le opportunità di vita dei bambini, deve rappresentare una priorità fondamentale in seno alle politiche socialdemocratiche.

Il «nuovo contratto di genere» dovrebbe andare ben oltre il concetto oggi di moda, ma spesso burocratico e superficiale, di integrazione trasversale delle problematiche di genere (gender mainstreaming) che la politica propone. I risultati ottenuti dalle donne nel campo dell’istruzione negli ultimi anni sono maggiori di quelli conseguiti dagli uomini. Inoltre, l’economia post-industriale dei servizi è propizia alle donne. Le donne debbono essere attratte verso il mercato del lavoro, rendendo quest’ultimo compatibile con gli obblighi familiari. Questo non vuol dire che gli uomini non debbano esser pronti ad accollarsi in futuro ben più incombenze familiari di quanto non facciano adesso. Ma né le donne né la società hanno a disposizione il tempo per aspettare un cambiamento della coscienza maschile che si produrrà solo a lungo termine. Migliorare l’indipendenza economica e il sistema di sostegno alle donne significa migliorare il welfare collettivo del tessuto sociale. È irrazionale investire nell’istruzione delle donne per poi precludere loro l’accesso al mercato del lavoro, perpetuando la scarsa compatibilità tra lavoro, carriera e famiglia. Senza risolvere il problema della compatibilità, le società europee si stanno imprigionando in un meccanismo votato alla stabilizzazione su bassi livelli di fertilità, con conseguenze disastrose tanto in termini di welfare che di giustizia sociale.

Il «contratto per l’occupazione» dovrà andare a ridurre la disoccupazione alzando i tassi di occupazione. Le ritenute previdenziali dovranno essere ridotte, il pensionamento posposto, mentre la deregolamentazione del mercato del lavoro dovrà essere accompagnata da schemi di sicurezza sociale, di formazione e riqualificazione professionale. Giacché è realistico attendersi che in un’economia di servizi altamente qualificati una parte consistente della popolazione occupi posti di lavoro di basso livello, questi posti dovranno essere sovvenzionati. È particolarmente importante che le misure in materia di istruzione, formazione e mobilità siano estese, così da evitare la povertà generazionale e l’intrappolamento generazionale delle famiglie negli strati più bassi della società. I lavori di basso livello non devono trasformarsi in trappole di povertà per i meno qualificati. Le politiche sociali e prima di tutto quelle familiari debbono giovare al mercato del lavoro e viceversa. Il mondo anglosassone e la maggior parte degli Stati sociali del continente hanno molta strada da fare verso la realizzazione di tali contratti. Il mercato da solo non condurrà ai cambiamenti necessari. Lo Stato dovrà svolgere un ruolo cruciale per conferire capacità alla gente investendo nella gente stessa. Gli investimenti devono cominciare prima di tutto dai bambini e dalle famiglie. Una miscela nuova, produttiva e socialmente equa di assistenza all’infanzia, istruzione, occupazione femminile, sicurezza sociale delle famiglie e una più lunga, ma più flessibile vita lavorativa sono indispensabili per stilare un nuovo contratto sociale nell’era della globalizzazione e del cambiamento demografico.3

 

 

 

Bibliografia

1 G. Esping-Andersen, Why do we need a new welfare state, Oxford University Press, 2002.

2 W. Merkel, Social Justice and the three worlds of welfare capitalism, in «Archives Européennes de Sociologie», 1/2002, pp. 59-91.

3 L’articolo è la versione italiana di Ageing Europe: what makes a successful social democratic reform?, pubblicato su «Progressive Politics», vol. 4.1, 2005.