La pelle dell'orso

Di Carlo Pinzani Lunedì 03 Gennaio 2005 02:00 Stampa

«Sono sempre stato convinto che la Russia sarebbe tornata alle sue frontiere del 1914 e che non si sarebbe fermata fin quando non avesse conseguito lo scopo». Queste parole scritte da Winston Churchill nel 1920 dovrebbero esser tenute presenti nella valutazione della prolungata e accesa contesa elettorale ucraina, conclusasi con la vittoria del candidato progressista e democratico Viktor Yuschenko a spese del capo del governo Viktor Yanukovich, rappresentante degli interessi conservatori della vecchia nomenklatura dei tempi sovietici.

 

«Sono sempre stato convinto che la Russia sarebbe tornata alle sue frontiere del 1914 e che non si sarebbe fermata fin quando non avesse conseguito lo scopo». Queste parole scritte da Winston Churchill nel 1920 dovrebbero esser tenute presenti nella valutazione della prolungata e accesa contesa elettorale ucraina, conclusasi con la vittoria del candidato progressista e democratico Viktor Yuschenko a spese del capo del governo Viktor Yanukovich, rappresentante degli interessi conservatori della vecchia nomenklatura dei tempi sovietici.

La contrapposizione non aveva soltanto risvolti sociali e di politica interna, ma anche etnici e relativi alla collocazione internazionale del paese. Le due coalizioni avevano e hanno un diverso radicamento geografico, nella parte occidentale del paese quella di Yuschenko e nell’Est quella di Yanukovich. Questa situazione di diversità culturale ed etnica in un unico territorio è tutt’altro che eccezionale nell’ambito dell’ex-Unione Sovietica: e, tuttavia, nel caso dell’Ucraina, che per secoli è stata soggetta alla sovranità russa, acquista un significato del tutto peculiare, soprattutto perché i confini occidentali della Russia (e, per converso, quelli orientali della Polonia) hanno fatto registrare nel tempo una tragica variabilità.

A questa non riuscì a porre fine neppure un’accurata indagine condotta nel quadro degli accordi di pace alla fine del primo conflitto mondiale, che portarono nel 1919 alla individuazione della cosiddetta «linea Curzon» come confine etnico tra Polonia e Ucraina. Anche questa linea fu presto superata dai polacchi che, alleati dei nazionalisti ucraini dell’atamano Petliura, riportarono nel 1920 la vittoria sull’Armata Rossa, giunta alle porte di Varsavia al momento in cui Churchill rivendicava la sua previsione. Dopo la seconda guerra mondiale la «linea Curzon» tornò a delimitare i confini tra Polonia e URSS, nel quadro di uno spostamento a Occidente tanto dei confini polacchi ai danni della Germania, quanto di quelli sovietici ai danni della Polonia.

Se alla considerazione della variabilità dei confini di questa parte dell’Europa nella storia contemporanea e alla connessa frammentazione etnica si aggiunge la considerazione degli aspetti religiosi, il panorama si frastaglia ulteriormente. Al cattolicesimo dei polacchi e all’ebraismo, diffusissimo fino al secondo conflitto mondiale, si devono aggiungere la confessione cattolica di rito greco e quella ortodossa, prima autocefala e poi subordinata al patriarcato di Mosca, in un mosaico dai contorni indefiniti e dalle intense appartenenze religiose.

Anche se l’Ucraina non era mai stata indipendente, se non per il breve periodo dal 1917 al 1920, l’identità nazionale ucraina fu riconosciuta dal nuovo potere bolscevico. Questo, pur ponendo fine all’esperimento indipendentista, concesse all’Ucraina una considerazione speciale nel sistema dell’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche.

Vero è che nella tradizione politica e culturale russa la visione prevalente dell’Ucraina era, ed è tuttora, quella di considerarla una «piccola Russia», per tutte le affinità sociali e politiche che nel corso dei secoli si erano aggiunte a quella linguistica e che, nell’autoritarismo dell’Impero zarista, avevano condotto a una sorta di assimilazione culturale dell’Ucraina nella Russia, peraltro mai pienamente accettata dalle élites ucraine.

Al momento della formazione dell’URSS nel 1923, anche l’Ucraina si dette una nuova Costituzione modificando quella approvata nel 1919 in pieno comunismo di guerra; in essa si riaffermava in termini assai chiari, se non addirittura enfatici, che la Repubblica socialista sovietica ucraina faceva parte dell’Unione «come Repubblica indipendente per trattato » e che «la sua sovranità (era) ristretta soltanto nei limiti indicati dalla costituzione dell’URSS e solo nelle materie che ricadono sotto la giurisdizione dell’URSS».1

La solennità delle affermazioni costituzionali non impediva che anche l’Ucraina rientrasse nel singolare ordinamento dell’URSS, federazione di popoli e non di Stati, finendo per configurarsi come un’appendice essenziale della Repubblica federativa sovietica russa, cioè dell’organismo di gran lunga maggioritario dell’Unione in termini di territorio e di popolazione. In realtà, sia l’Unione sia la Federazione russa erano un mosaico di «Repubbliche ricavate artificialmente secondo linee etniche che nessuno pensava potessero mai divenire confini di entità statali nazionali».2

Ma anche in questo contesto sostanziale, l’Ucraina manteneva caratteristiche peculiari. Per la già evocata mobilità dei suoi confini occidentali, dopo la pace di Versailles, essa comprendeva anche la Galizia orientale, con Cracovia e Leopoli (Lvov in russo, Lviv in ucraino, Lemberg in tedesco). Una regione che, fino al conflitto mondiale, aveva fatto parte dell’Impero austro-ungarico ed era più sviluppata economicamente dell’Ucraina centrale e orientale, godendo anche nella seconda metà dell’Ottocento di una larga autonomia concessa dall’Impero austroungarico. Le popolazioni, polacche e ucraine erano assai più sensibili ai fermenti nazionalistici che avevano scosso l’Europa centrale e i Balcani nell’ambito degli Imperi multietnici ottomano e asburgico. A proposito di aspirazioni nazionali, poi, non si può dimenticare che le popolazioni ebree di quei paesi erano i destinatari principali del messaggio sionista.

Il nazionalismo della parte occidentale era stato alla base dell’indipendenza ucraina nell’immediato dopoguerra e continuò a opporsi al potere sovietico durante gli anni Venti e anche oltre, mentre nelle parti centrale e orientale del paese prevaleva la tradizionale affinità con i russi, nonostante la tragica repressione staliniana legata alla collettivizzazione dell’agricoltura imperversasse con particolare virulenza nelle campagne ucraine.3 Fra l’altro, è a quel nazionalismo che fanno oggi riferimento i sostenitori di una più netta differenziazione ucraina dalla Russia e che non sono tutti schierati nel campo di Yuschenko.

Non si può dimenticare infatti che, anche nell’ambito del Partito comunista sovietico, il nazionalismo ucraino ebbe una non trascurabile presenza fino agli anni Trenta, presenza che si riassume soprattutto nel nome di Grusevskyj, già rappresentante di Lenin in Ucraina, ministro dell’istruzione e costretto al suicidio nel 1933 dalle accuse di nazionalismo. Ma anche dopo le purghe staliniane il ruolo e l’identità dell’Ucraina in seno all’Unione non vennero meno, come prova la cessione alla principale Repubblica dell’Unione della Crimea, territorio etnicamente e storicamente russo. Un’operazione, questa, che era al tempo stesso testimonianza del riconoscimento da parte del governo sovietico guidato da Krusciov del contributo alla grande guerra patriottica dato dall’Ucraina (ove lo stesso Krusciov aveva avuto il ruolo dirigente principale) e della relativa casualità con la quale si prendevano in URSS le decisioni attinenti alla struttura dell’Unione.

 

1. Già da questi cenni sulla storia dei territori oggi appartenenti all’Ucraina si deduce immediatamente la delicatezza della questione dei confini che, fortunatamente, sinora non è emersa. Ma che essa sia presente, lo si evince non solo dalle minacce di secessione dello schieramento sconfitto dalla cosiddetta «rivoluzione arancione» (una formula mediatica che fa nascere qualche dubbio sulla sua spontaneità), ma anche dalla preoccupazione nutrita dall’Ucraina indipendente di definire il più rapidamente possibile, attraverso appositi trattati, i propri confini. Già in epoca sovietica i confini erano stati pattiziamente definiti con la Polonia, l’Ungheria, la Slovacchia e la Bielorussia. Nel 1997 si è poi giunti alla conclusione dei trattati con la Romania e con Russia, che peraltro non li ha ancora ratificati.4

D’altronde, la netta spaccatura politica tra la parte occidentale del paese e quella orientale dimostra la persistenza delle divisioni etniche, culturali ed economiche.

Ne consegue la necessità di evitare ogni approccio superficialmente ideologico alla questione ucraina, considerata come scontro decisivo tra forze politiche nazionaliste, filoccidentali e progressiste, da un lato, e conservatori nostalgici dell’Unione Sovietica e del comunismo dall’altro. Gli enormi danni che da semplificazioni di questo genere possono derivare si sono già visti nella Russia post-sovietica, che, negli anni Novanta, ha subito un tragico declino economico, morale e sociale anche rispetto ai bassi standard ereditati dall’esperienza comunista.

La dissoluzione dell’Unione Sovietica fu decisa in forme sottratte a qualsiasi logica non solo democratica, ma anche semplicemente istituzionale: l’accordo stipulato in forme semiclandestine l’8 dicembre 1991 a Belaya Vezha dai presidenti russo, bielorusso e ucraino che decretava la fine dell’Unione Sovietica concludeva il processo di riforma tentato da Gorbaciov e già messo in crisi, prima dalla istituzionalizzazione della Repubblica federativa russa e dalla elezione di Eltsin alla presidenza di questa nel maggio dello stesso anno e poi, definitivamente, dal tentato colpo di Stato conservatore dell’agosto.

E se le ansie di indipendenza nazionali erano reali e perfettamente comprensibili negli Stati baltici e anche in Georgia, nelle altre Repubbliche, Ucraina compresa, esse fornivano la copertura ideale e politica alla conservazione del potere da parte dei gruppi dirigenti locali, contrari alle riforme gorbacioviane e divenuti improvvisamente indipendentisti. Eltsin aveva dichiarato che la sussistenza dell’URSS dipendeva dalla fedeltà dell’Ucraina, e Kravchuk, dopo aver di nascosto appoggiato i golpisti conservatori di Mosca, affermò l’indipendenza dell’Ucraina, essendosi fatto autorizzare pochi giorni prima dell’accordo di Belaya Vezha da un referendum, che smentiva quello tenuto nella primavera precedente e favorevole al mantenimento dell’Unione.

I timori delle Repubbliche in ordine alla conservazione dell’Unione si alimentavano soprattutto delle agitazioni democratiche che, in quel periodo, percorrevano le città russe e che, estendendosi, avrebbero potuto porre in discussione l’autorità dei burocrati che nel sistema sovietico erano giunti ai vertici del potere locale. Ne consegue che la dissoluzione dell’Unione Sovietica, lungi dall’essere un inno alla «gloria delle nazioni » – per riprendere l’ingiustamente fortunata espressione di Helène Carrère D’Encausse – fu invece un’operazione conservatrice, orchestrata da Eltsin per eliminare ogni vestigia di dualismo di potere con Gorbaciov e creare i presupposti per avviare un avventato, rapido e in definitiva rovinoso processo di riforma dell’economia, come veniva perentoriamente richiesto dall’Occidente.5

Il fallimento del comunismo e la dissoluzione dell’URSS condizionano ancora tutte le situazioni attuali nell’Europa centrale e orientale e, dopo l’allargamento dell’Unione, dell’intero continente europeo.

Premesso che la causa principale di quel fallimento fu il dissennato e crudele utopismo con il quale i bolscevichi instaurarono e portarono avanti il loro progetto, non si può dimenticare che, nelle fasi finali del processo, le responsabilità occidentali furono gravissime – e anzi determinanti – sia per il clamoroso insuccesso del disperato tentativo di Gorbaciov di riformare il socialismo reale, sia per le sofferenze inflitte ai popoli ex-sovietici e in particolare a quello russo.

Si allude qui soprattutto a quello che è stato definito «il trionfalismo del dopo guerra fredda»6 e che, in realtà, è il coronamento dell’interpretazione più ideologizzante della medesima guerra fredda, tradizionalmente prevalente nella storiografia occidentale, e specialmente americana, sul XX secolo. Questa tesi non costituisce soltanto un esempio di cattivo uso della storia, ma è anche – come sempre avviene in questi casi – il fondamento propagandistico di una linea politica i cui sostenitori, in realtà, finiscono per essere prigionieri della loro propaganda.

Dalla convinzione tanto profonda quanto infondata che la caduta del comunismo fosse dovuta all’interpretazione più dura della politica di containment, i dirigenti occidentali, e segnatamente quelli americani, hanno dedotto che la migliore politica nei confronti della crisi sovietica fosse quella di stare alla finestra, con una sorta di malcelata soddisfazione, senza assumere alcuna iniziativa realmente collaborativa nei confronti di un nemico che si dibatteva in difficoltà straordinarie.

Se non si fosse effettivamente creduto che la guerra fredda era stata vinta grazie alla politica riarmista di Reagan e si avesse invece avuto coscienza del fatto che la crisi sovietica era sistemica e quasi esclusivamente endogena, sarebbe apparso certamente più giusto, proprio dal punto di vista degli interessi occidentali, aiutare le forze deboli e confuse che all’interno del sistema sovietico reclamavano la democrazia, anche se questo avesse comportato una maggior gradualità nello smantellamento strutturale del socialismo realizzato. Così, dopo che nel luglio del 1991 il G7 aveva risposto negativamente all’appello di Gorbaciov per un’immediata realizzazione delle promesse di aiuto economico formulate in precedenza, l’appoggio a Eltsin fu condizionato all’adozione della «terapia d’urto» della liberalizzazione dei prezzi e delle privatizzazioni selvagge, che hanno consentito soltanto il saccheggio delle risorse pubbliche e la decadenza produttiva.

Tra la stagnazione brezneviana e gli anni Novanta in Russia si registra una profonda continuità che investe sia l’identità dei gruppi dirigenti, sia i meccanismi di funzionamento dell’economia: la nomenklatura è riuscita in gran parte a riciclarsi, gli apparati di sicurezza per quanto indeboliti sono riusciti a mantenere il loro potere (al punto che ora uno dei loro esponenti regge il paese), la corruzione non è diminuita e, anzi, il potere della mafia (già utilizzata a fini di repressione nell’Impero zarista, con un meccanismo ulteriormente potenziato nel sistema del Gulag ove la malavita serviva al controllo delle masse utilizzate nel lavoro forzato) è aumentato, anche per le collusioni con i profittatori del saccheggio delle risorse pubbliche. Questi, accumulando ricchezze astronomiche, sono divenuti potentissimi, al punto da poter esser definiti oligarchi.7

Se a tutto questo si aggiungono le umiliazioni inflitte alla Russia nei rapporti internazionali, specialmente ad opera degli Stati Uniti – dal rapido allargamento dell’Alleanza atlantica verso Est alla penetrazione economica e politica nelle repubbliche ex-sovietiche dell’Asia Centrale, dal rifiuto di riconoscere alla Russia dei rapporti speciali con il «vicino estero», alla tenace prosecuzione degli sforzi per giungere a una difesa strategica – si comprende come in Russia le tendenze nazionalistiche e il risentimento nei confronti dell’Occidente, e segnatamente degli Stati Uniti, stiano aumentando tanto nelle deboli forze democratiche quanto nel ben più potente schieramento conservatore e, soprattutto, nella popolazione impoverita e frustrata. Non si vede proprio, dunque, come tutto questo possa aver giovato alla causa della democrazia all’interno dell’ex-Unione Sovietica.

 

2. È in questo contesto più vasto che deve essere esaminata anche la questione ucraina, al fine di evitare che, anche in questo caso, le deformazioni ideologiche collegate con la valutazione del passato continuino a far commettere ai politici occidentali gli errori commessi nei confronti della causa della democrazia in Russia. L’evoluzione politica dell’Ucraina dopo l’indipendenza non è stata molto dissimile da quella russa, anche se è stata caratterizzata da un maggior peso della nomenklatura, da un livello di corruzione inferiore e, forse, da un potere più limitato degli oligarchi, anche se uno di essi è stato ora nominato primo ministro.

In buona sostanza, in Ucraina è sinora mancata una spinta democratica del tipo di quella che caratterizzò in Russia l’ultima fase della perestroika e che trovò allora in Boris Eltsin un improbabile quanto carismatico leader. Può benissimo darsi che gli ucraini lo abbiano trovato in Yushchenko, anche se c’è da augurarsi che le sue inclinazioni democratiche si rivelino meno superficiali e strumentali di quelle dell’ex-presidente russo.

Tuttavia anche in quest’ipotesi positiva, occorre tener presente che, anche in Ucraina, il nazionalismo non si sposa necessariamente con la democrazia, pur se si manifesta in senso apertamente antirusso, come invece ritengono tutti coloro che ragionano sulla base del presupposto di un inscindibile legame della Russia con l’esperienza comunista.

Già si è visto che il nazionalismo ucraino è molto complesso e che nello schieramento di Yuschchenko prevale quello della parte occidentale del paese, con tutte le sue contraddizioni, compresa quella del rapporto con la Polonia che, non lo si dimentichi, fino al 1939 esercitava la sua sovranità su una parte dell’Ucraina occidentale. Una situazione che ancora non manca di sollevare nostalgie in Polonia, specialmente a proposito di Leopoli.8 Non si vuole certo con questo insinuare che qualcuno, da qualunque parte, possa pensare a mettere in discussione i confini orientali polacchi usciti dalla seconda guerra mondiale, rischiando di riaprire un vaso di Pandora, dal quale sono già uscite immense tragedie. Quel che si vuole invece sottolineare è l’importanza della collocazione internazionale dell’Ucraina non solo per gli equilibri continentali europei, ma anche per quelli dell’intero sistema delle relazioni internazionali.

Tradizionalmente, il nazionalismo dell’Ucraina occidentale è stato rivolto all’Europa occidentale piuttosto che alla Russia e, proprio per questo motivo, la decisione di Yuschenko di recarsi a Mosca come primo passo internazionale della sua presidenza appare più una mossa obbligata che un’iniziativa spontanea. L’impressione è confermata dal fatto che, quasi contemporaneamente, si rivolgeva all’Unione europea, avanzando l’idea di una candidatura ucraina all’adesione. L’immediato fin de non recevoir opposto dal presidente della Commissione europea Barroso a quest’ipotesi è indicativo della consapevolezza che gli Stati dell’Europa occidentale hanno della delicatezza e dell’importanza della questione.

In effetti, qualsiasi decisione in materia potrà essere presa soltanto una volta che siano stati sufficientemente definiti tanto i rapporti tra la Russia e l’Ucraina, quanto la politica che l’Unione europea intende perseguire nei confronti della Russia, a sua volta si ripercuote anche sui rapporti interatlantici.

Sul primo terreno, fortunatamente, la questione degli armamenti nucleari sovietici dislocati in Ucraina è stata positivamente risolta, al pari di quella della divisione della flotta sovietica del Mar Nero. Restano invece aperte la questione dei confini ucraini orientali e quella di Sebastopoli. Ma, soprattutto, rimane irrisolto il problema dell’influenza russa sull’«estero vicino», per il quale le forze politiche russe, tendenzialmente unite, hanno in mente come modello di riferimento la dottrina Monroe rispetto all’emisfero occidentale, pur non disponendo la Russia degli strumenti necessari per esercitare l’egemonia senza sconfinare nel ricatto economico o nella superiorità militare. Si comprende dunque come l’Ucraina, al pari delle altre Repubbliche ex-sovietiche, guardi all’Occidente e agli Stati Uniti non solo come guardiani dell’indipendenza, ma anche come partners economici maggiormente in grado di soddisfare le esigenze di benessere troppo a lungo ignorate.

Sul secondo terreno l’Unione europea è stata indotta dalla pressione congiunta dei paesi già soggetti all’influenza sovietica e degli Stati Uniti ad assecondare il rapido allargamento verso Est dell’Alleanza atlantica, vincendo le resistenze russe, deboli soltanto per la debolezza generale del paese. Questa rapidità ha posto in gravi difficoltà anche l’Unione europea stessa, che ha dovuto procedere all’allargamento prima di aver compiutamente definito la propria identità e di essersi data un assetto costituzionale più stabile. Vero è che l’accelerazione subita dal processo costituzionale europeo è in gran parte una risposta alle pressioni derivanti dall’allargamento della NATO e che, quindi, il processo di unificazione europea si trova in uno stato più avanzato.

Non è pero stata risolta la contraddizione interna a quel processo fin dai suoi albori, che vede più o meno apertamente contrapposte la concezione autoctona dell’Europa e quella atlantica, con la prima finalizzata soprattutto a ristabilire il ruolo globale dell’Europa dopo la fine degli imperi coloniali e la seconda invece al contenimento della minaccia sovietica.

Soprattutto quanti hanno a cuore la prosecuzione dell’intesa euroamericana debbono auspicare che, a proposito dell’Ucraina, non si ripeta, con segno invertito, la stessa gara di velocità che, più o meno sotterraneamente, si è svolta tra NATO e UE a proposito dell’allargamento a Est.

In queste condizioni il recepimento troppo rapido della richiesta ucraina sarebbe dolorosamente risentito in Russia, un paese già troppo provato e frustrato dalla penosissima uscita dal comunismo, dalla quale ha tratto assai dubbi vantaggi sul piano della democrazia e danni gravissimi su quello del livello di vita. È questo un dato troppo di frequente trascurato dalla diplomazia occidentale, e soprattutto americana, che dal grave indebolimento della Russia ha dedotto la sua pressoché assoluta impotenza nel sistema delle relazioni internazionali, considerandola nel migliore dei casi una potenza soltanto di rango regionale. Un atteggiamento di questo genere è da giudicare negativamente per due ordini di motivi. Il primo attiene al fatto che per quanto mal ridotto sia l’apparato militare sovietico esso dispone tuttora di sufficienti capacità nucleari e missilistiche per rappresentare una minaccia per tutti i protagonisti delle relazioni internazionali e, quindi, anche per gli Stati Uniti. A vederla in questo modo, non si capisce in cosa sia consistita la vittoria nella guerra fredda, dal momento che il principale scopo di questa era l’eliminazione di quella minaccia. Il secondo ordine di motivi è strettamente correlato al primo e consiste nella maggior dipendenza della Russia dalle sue forze nucleari e missilistiche man mano che le sue capacità convenzionali si riducono, rendendo assai più ardua la prosecuzione della riduzione degli armamenti nucleari.9

La relativamente giovane età di Vladimir Putin impedisce di considerarlo fin d’ora come definitivamente perso alla causa della democrazia, anche se la sua formazione e i suoi primi anni di governo della Federazione russa fanno propendere per l’alternativa opposta. È però certo che se il leader russo non può per ora esser considerato un campione della democrazia, non sono gli inviti nelle residenze estive dei dirigenti occidentali e la loro sbandierata amicizia personale, accompagnati da una politica passiva o sordamente ostile, che potranno modificare l’evoluzione di quello che già viene definito un «nuovo Zar», perché ricorre – sicuramente in misura eccessiva – alla forza militare per contenere le spinte alla secessione assai vive nel suo sterminato paese o perché, senza farsi troppi scrupoli per il rispetto della legalità, cerca di riaffermare l’autorità dello Stato sul corrotto capitalismo russo.

Queste considerazioni non intendono certo essere una difesa dell’autoritarismo in Russia, ma tendono anzi a rafforzarvi la democrazia, proprio perché l’isolamento e la frustrazione incoraggiano il nazionalismo e le politiche autoritarie che spesso vi si accompagnano.

In questo contesto, l’indipendenza ucraina dovrebbe essere appoggiata nelle sue aspirazioni europeistiche soltanto nella prospettiva che essa possa servire a creare una politica di diffusa collaborazione su tutto il continente europeo, nella quale il rapporto tra Unione europea e Russia sia quello paritario tra due «grandi spazi» economici e politici, possibilmente aperto a una prospettiva globale per un’intesa con altri «grandi spazi» che, nel quadro delle Nazioni Unite, avvii il processo per la realizzazione di una forma di planetaria per la quale le esigenze, se non anche le condizioni, sono pienamente mature. Anche se si tratta ormai di formule quasi dimenticate, «l’Europa dall’Atlantico agli Urali» di Charles de Gaulle o la «casa comune europea» di Mikhail Gorbaciov evocano problematiche che non sono affatto superate.

E se, per avventura, sulle due sponde dell’Atlantico vi fossero delle forze che, sotto la copertura ideologica della libertà e dell’indipendenza dei popoli, tendessero a utilizzare le aspirazioni ucraine per rafforzare la concezione atlantica dell’unità europea e per inserire elementi di conflittualità nel rapporto dell’UE con la Russia – considerando quest’ultima non solo rischierebbero di vendere la pelle dell’orso prima di averlo preso, ma danneggerebbero gravemente i rapporti euroamericani, già non marginalmente compromessi dall’unilateralismo dell’Amministrazione Bush.

 

 

Bibliografia

1 Cfr. E. H. Carr, Il socialismo in un solo paese. I: La politica interna 1924-1926, Einaudi, Torino 1968, p.742. Lo storico inglese commenta così la costituzione ucraina: «nessun’altra Repubblica dell’Unione aveva mai affermato con tanto vigore il principio della propria sovranità formale».

2 Cfr. P. Reddaway e D. Glinski, The Tragedy of Russia’s Reforms. Market Bolshevism Against Democracy, US Institute of Peace Press, Washington D.C. 2001, p. 361. Si tratta di una ricostruzione analitica e criticamente fondata della politica russa degli anni Novanta.

3 Secondo Conquest la repressione contro i kulaki aveva come fondamento primario la lotta al nazionalismo ucraino, «tenacemente tenuto vivo per secoli dalle masse contadine»; R. Conquest, Raccolto di dolore. Collettivizzazione sovietica e carestia terroristica, Edizioni Liberal, Roma 2004, pp. 251- 259. Assai meno ideologizzante è il giudizio contenuto in The Cambridge History of Poland, in W. F. Reddaway, J. H. Penson, O. Halecki, R. Dyboski (a cura di), From Augustus II to Pilsudski (1697-1935), vol. 2, Cambridge University Press, Cambridge 1951, p. 433 secondo il quale i contadini ruteni, vale a dire ucraini cattolici, erano «privi di uno sviluppato senso della nazionalità».

4 Sull’importanza della questione dei confini insiste molto un autore ucraino, in un lavoro che ha tutta l’aria di essere un’opera ufficiosamente apologetica del presidente Kuchma e, in generale, della politica ucraina successiva alla dissoluzione dell’URSS. Cfr. T Kuzio, Ukraine. State and Nation Building, Routledge, Londra e New York 1998, pp. 100-118.

5 Cfr. Reddaway e Glinski, The Tragedy of Russia’s Reform cit., pp. 245-247.

6 Cfr. E. Scheckter (a cura di), Cold War Triumphalism. The Misuse of History After the Fall of Communism, New Press, New York 2004.

7 Un ottimo esempio di come l’ideologia pesi ancora moltissimo in tutte le questioni che riguardano la Russia è offerto dal recente intervento di un osservatore acuto come Marshall Goldman che, nella vicenda giudiziaria della Yukos e dell’oligarca Khodorkovsky, vede non soltanto una forma di persecuzione probabilmente ingiustificata, ma anche «(…) il rovesciamento di alcune delle più importanti riforme economiche e politiche realizzate dalla Russia dopo essersi liberata dal giogo del comunismo», trascurando così l’enormità dei furti perpetrati dagli oligarchi. Cfr. M. Goldman, Putin and the Oligarchs, in «Foreign Affairs», novembre-dicembre 2004, pp. 33-44.

9 Cfr. S. F. Cohen, Failed Crusade. America and the Tragedy of Post-communist Russia, Norton, New York e Londra, 2000, passim. Si tratta di una raccolta di articoli scritti dal biografo di Bucharin negli anni Novanta, articoli nei quali si torna più volte sui concetti esposti nel testo.