Quale legge elettorale per la Terza Repubblica?

Di Andrea Pinto Lunedì 03 Gennaio 2005 02:00 Stampa

Il dibattito sviluppatosi in queste settimane sull’opportunità di reintrodurre la legge elettorale proporzionale per rimediare ai macroscopici difetti del Mattarellum (secondo la caustica definizione di Giovanni Sartori) e a un tempo superare – secondo alcuni con il «ritorno alla Costituzione», secondo altri con il passaggio alla «Terza Repubblica» – l’era della Seconda Repubblica, si presta a un’interessante contaminazione interdisciplinare tra le regole di concorrenza che oramai governano il nostro sistema economico e quelle che governano il sistema politico che forse aiuta a capire meglio il paradosso che affligge la vita politica italiana.

 

Il dibattito sviluppatosi in queste settimane sull’opportunità di reintrodurre la legge elettorale proporzionale per rimediare ai macroscopici difetti del Mattarellum (secondo la caustica definizione di Giovanni Sartori) e a un tempo superare – secondo alcuni con il «ritorno alla Costituzione», secondo altri con il passaggio alla «Terza Repubblica» – l’era della Seconda Repubblica, si presta a un’interessante contaminazione interdisciplinare tra le regole di concorrenza che oramai governano il nostro sistema economico e quelle che governano il sistema politico che forse aiuta a capire meglio il paradosso che affligge la vita politica italiana.

Applicando le categorie del diritto della concorrenza al mercato della politica e volendo tracciare un rapido parallelismo tra l'evoluzione del sistema economico e le trasformazioni del sistema politico italiano nel passaggio dalla Prima alla Seconda Repubblica, si può dire che si è assistito a un curioso fenomeno. Infatti, a un sistema economico che si andava liberalizzando, favorendo gradualmente ma decisamente l'ingresso di new comers in vari comparti della vita economica, ha corrisposto una chiusura del «mercato politico» verso assetti «oligopolistici», grazie a una legge elettorale che, nata con l’assurdo scopo di sconfiggere la cosiddetta «partitocrazia» – ossia espellere i partiti dal mercato politico in nome delle «magnifiche sorti e progressive» di un indistinto «nuovismo» – ha in realtà prodotto, a tacer d’altro, l’avvilente fenomeno dei partiti personali. Con un evidente regresso del livello della rappresentanza politica verso assetti oligarchico-censitari, fondato su evidenti asimmetrie economiche e governato da logiche estetico-mediatiche. Partiti personali che nulla hanno a che vedere con quella personalisation du pouvoir descritta da Duverger quando parlava dei sistemi politici bipartitici caratterizzati dalla concentrazione della leadership di partito e di governo nella medesima persona, ritenuta sommamente auspicabile per assicurare la governabilità di un paese, essendone tutt’al più la degenerazione caricaturale in «chiave populista e tendenzialmente antidemocratica».

Tutto ciò accadeva – e siamo al secondo aspetto del paradosso italiano – proprio nel momento in cui il mercato politico veniva sconvolto dall'ingresso di un «nuovo soggetto economico» che, trasformandosi ben presto in soggetto politico, imponeva un sostanziale mutamento dei termini della contesa politica per effetto dell’evidente «abuso della sua posizione dominante». A dieci anni di distanza dall’avvento della cosiddetta Seconda Repubblica, il sostanziale fallimento di questa esperienza fondata sul «falso bipolarismo» – peraltro ben evidente a quanti cercarono, invano, di opporsi all’ondata nuovista evidenziandone per tempo i rischi insiti – sta accompagnando il nostro sistema-paese verso un preoccupante declino, complice per un verso la pretesa un po’ ingenua e molto populista di scambiare il governo del paese con le tecniche di «comando» di un’azienda «padronale»; per altro verso l’altrettanto assurda pretesa di sostituire modelli di partiti personali al sistema dei partiti tradizionalmente intesi che ha governato – certo non sempre egregiamente – per cinquant’anni il nostro paese.

Rispetto a tale lettura delle ragioni della crisi italiana sono ben note le obiezioni di quanti ritengono che la legge elettorale maggioritaria aveva proprio l’intento di favorire la semplificazione del sistema politico e superare i limiti, i difetti e le degenerazioni del proporzionalismo e che se ciò non è accaduto è per il carattere spurio del Mattarellum, nel quale convivono maggioritario e quota proporzionale.

In realtà le cose non stanno proprio così, sia perché la crisi della Prima Repubblica non è avvenuta, come si sa, per via politica bensì per via giudiziaria e questo elemento, tutt’altro che secondario, ne ha condizionato pesantemente gli esiti successivi, non foss’altro perché si è assistito alla singolare pretesa – favorita dalla sostanziale abdicazione della classe politica alle proprie responsabilità – di voler risolvere un’evidentissima crisi dei meccanismi profondi su cui si basava il funzionamento del sistema della Prima Repubblica con strumenti giudiziari anziché politici; sia perché le premesse teoriche da cui muovevano i sostenitori del maggioritario si sono rivelate alquanto fallaci, producendo un «pluripartitismo estremo polarizzato» e una legge elettorale dagli effetti perversi. Basti pensare alle liste civetta, alla predeterminazione degli eletti nei collegi uninominali o addirittura al caso, abbastanza unico, di senatori eletti in elezioni suppletive senza avversari.

Da questo punto di vista, se si vuol rendere proficuo il dibattito su questi temi occorre sgombrare il campo da talune ipocrisie che continuano a dominare il confronto politico, a partire dallo stucchevole dibattito sulle «primarie» che, per come è stato impostato, rappresenterebbe solo una ratifica di decisioni già prese dalla nomenklatura, in questo caso del centrosinistra.

Non credo occorra scomodare Gaetano Mosca per non essere consapevoli del fatto che in qualsiasi democrazia vi è un tasso ineliminabile e connaturato di oligarchismo; così come è altrettanto noto che non esistono leggi elettorali buone o cattive in sé, in quanto i sistemi elettorali sono o dovrebbero essere funzionali alla forma di governo e all’assetto istituzionale complessivo che si intende dare a un determinato paese e riflettere il più o meno pronunciato grado di pluralismo che caratterizza la società di riferimento e quindi il relativo sistema politico. In altri termini, il sistema elettorale dovrebbe, in genere, limitarsi ad assecondare e quindi a «ratificare» ex post l’eventuale semplificazione della rappresentanza prodottasi naturaliter nel sistema partitico per effetto della competizione politica. Esattamente l’opposto di quello che si è verificato in Italia, dove si è invece voluto alterare artificiosamente «l’innato pluripartitismo italico» forzandolo in senso bipolare, con esiti disastrosi, dando luogo a «poli a coabitazione forzata», senza rendersi conto che tradizioni e culture politiche secolari non si possono estinguere per decreto.

La conseguenza perversa, ma ampiamente prevista, è stata quella di inaridire il collegamento tra le forze politiche e il rispettivo elettorato, gran parte del quale ha preferito rifugiarsi nell’astensionismo, marcando in tal modo una disaffezione certamente provocata da altri e più deprecabili fenomeni di degenerazione del sistema, ma sicuramente accentuata da un meccanismo elettorale disincentivante la partecipazione.

In questo senso la necessità di un ritorno al proporzionale non è l’escamotage un po’ furbesco di qualche nostalgico, ma risponde all’esigenza di restituire all’Italia il sistema elettorale che le è più consono e che rappresenta – paradossalmente, ma poi non troppo – il vero «grimaldello» (e per questo è temuto) per liberare la politica da quelle «anomalie» che non hanno risolto bensì aggravato lo stato del nostro sistema politico e istituzionale.

Le ricette su questo tema sono tante. Per quanto mi riguarda e per le considerazioni svolte credo che occorra recuperare lo spirito che fu alla base della proposta formulata a metà degli anni Ottanta da Gianfranco Pasquino nel suo libro «Restituire lo scettro al principe».1 Riassumendo a grandi linee, Pasquino ipotizzava una legge elettorale a due turni senza sbarramento. Al primo turno tutti i partiti partecipavano senza alcun vincolo per concorrere all’elezione dei 2/3 dei seggi del parlamento su base rigorosamente proporzionale. Al secondo turno scattava l’obbligo degli apparentamenti elettorali, in modo che si creassero due o più coalizioni che concorrevano per eleggere il restante 1/3 dei seggi, che era quello che assicurava il premio di coalizione. E la suddivisione dei seggi tra le forze politiche della coalizione avveniva proporzionalmente sulla base dei voti di lista conseguiti dai singoli partiti al primo turno. Una proposta che conserva ancora oggi il merito di coniugare le esigenze di rappresentatività delle singole forze politiche e quelle di governabilità e che, forse, è opportuno recuperare se non altro come traccia di discussione nel momento in cui provengono da più parti sollecitazioni a «scrivere le regole della Terza Repubblica», magari attraverso una nuova Costituente.

Sollecitazioni che testimoniano come, dopo due lustri di ubriacatura novista, sta lentamente riemergendo un desiderio di politica seriamente intesa e con essa il bisogno di ritornare a «riconoscersi» nelle tradizionali e mai spente culture politiche che hanno avuto tanta parte nella storia del nostro paese.

Da questo punto di vista le convulsioni post-elettorali in atto tanto in casa ulivista dopo il fallimento della lista Prodi (la risposta di sinistra al partito personale per antonomasia) che in quella polista con l’evidente crisi di Forza Italia – che è una crisi «organizzativa» (ossia proprio del modello di partito personale) e, di conseguenza, di «identità» politica (nel senso che è assente una leggibile proposta politica) – non sono altro che i prodromi di una oramai imminente scomposizione e ricomposizione del sistema politico verso un assetto maggiormente rappresentativo e plurale, nel quale i partiti anziché «camuffarsi» dietro improbabili sigle è auspicabile che tornino a «declinare» le proprie generalità e ad assolvere la propria insostituibile funzione (costituzionalmente garantita) di strumenti di espressione della sovranità popolare e della rappresentanza politica e insieme di selezione, certo non esclusiva, della classe dirigente.

 

 

Bibliografia

1 G. Pasquino, Restituire lo scettro al principe, Laterza, Roma-Bari 1985.