La fragile egemonia dei repubblicani, il futuro dei democratici

Di Stefano Fassina Lunedì 01 Novembre 2004 02:00 Stampa

Il 2 novembre del 2004 si consolida negli Stati Uniti un ciclo repubblicano: il ciclo iniziato a metà degli anni Sessanta in reazione ai mutamenti culturali e sociali e alle connesse scelte della leadership democratica (tra cui: la legislazione per l’interruzione di gravidanza; l’universalizzazione dei diritti civili; l’introduzione dell’assistenza sanitaria pubblica; il potenziamento della scuola pubblica). La lettura dei risultati elettorali (e dei mutamenti di identificazione politica) non solo ultimi, ma dell’ultimo quarto di secolo, supporta l’interpretazione ciclica. Nel 1980 si apre la fase Reagan-Bush. Nel 1992, con la leadership innovativa di Clinton, il Partito democratico rientra in gioco, ma subisce una netta sconfitta nel 1994, quando il Partito repubblicano dell’ultra-conservatore Newt Gingrich conquista la maggioranza al Senato (52 a 48) e alla Camera (dove i democratici perdono 54 rappresentanti e diventano minoranza per la prima volta dopo 40 anni).

 

Il 2 novembre del 2004 si consolida negli Stati Uniti un ciclo repubblicano: il ciclo iniziato a metà degli anni Sessanta in reazione ai mutamenti culturali e sociali e alle connesse scelte della leadership democratica (tra cui: la legislazione per l’interruzione di gravidanza; l’universalizzazione dei diritti civili; l’introduzione dell’assistenza sanitaria pubblica; il potenziamento della scuola pubblica). La lettura dei risultati elettorali (e dei mutamenti di identificazione politica) non solo ultimi, ma dell’ultimo quarto di secolo, supporta l’interpretazione ciclica. Nel 1980 si apre la fase Reagan-Bush. Nel 1992, con la leadership innovativa di Clinton, il Partito democratico rientra in gioco, ma subisce una netta sconfitta nel 1994, quando il Partito repubblicano dell’ultra-conservatore Newt Gingrich conquista la maggioranza al Senato (52 a 48) e alla Camera (dove i democratici perdono 54 rappresentanti e diventano minoranza per la prima volta dopo 40 anni). Privo di una chiara direzione politica e di una indiscussa cabina di regia dalla campagna elettorale del 2000, il Partito democratico non riesce a contrastare l’abile iniziativa del partito di George W. Bush.

Nonostante la capacità egemonica dimostrata (anche con la netta vittoria al Senato e con l’allargamento della maggioranza alla Camera), non siamo all’inesorabile dispiegamento di un «secolo Repubblicano», dove si combattono battaglie culturali e religiose tra schieramenti omogenei e compatti. Certamente tra i 59 milioni di elettori che hanno dato fiducia al presidente vi sono importanti componenti fondamentaliste (molto visibili nei media e molto presenti sul piano organizzativo). Tuttavia, il voto non segna l’affermazione di una inespugnabile maggioranza conservatrice o, peggio, fondamentalista. La partita rimane sul terreno della politica. Una partita da giocare tra una molteplicità di culture e di interessi, dove settori significativi dell’attuale maggioranza elettorale rimangono contendibili sul terreno politico. Infatti, alla base della vittoria al margine di Bush vi sono fattori di carattere contingente e un paradigma economico-sociale a vocazione egemonica, ma fragile.

 

I fattori di carattere contingente

Innanzitutto, il vantaggio dell’essere in carica, tanto più in una situazione di guerra: il presidente uscente parte favorito in quanto fa l’agenda, tanto più quando è leader del partito di maggioranza in entrambi i rami del Congresso. Non a caso, i due terzi dei presidenti uscenti sono stati rieletti. In secondo luogo, ha pesato molto l’ansia post 11 settembre e la domanda di sicurezza, di fermezza, di determinazione da essa alimentata. Una domanda poco razionale, più sensibile alle posture che attenta alle complessità della politica estera e all’efficacia di medio periodo delle scelte. L’abilità dell’Amministrazione di presentare l’intervento in Iraq come essenziale per la sicurezza nazionale, l’inevitabile seconda tappa della guerra al terrorismo avviata in Afganistan, condotta nonostante gli ostacoli frapposti all’ONU dagli ingrati alleati europei, ha giocato un ruolo molto significativo. Nel successo di tale strategia politico-comunicativa, il conformismo patriottico e l’autocensura dei media sono stati aspetti centrali. Infine, ha pesato molto l’eredità positiva e negativa lasciata nelle casse federali e nell’immaginario collettivo dall’Amministrazione Clinton: in assenza dell’attivo del bilancio federale, non sarebbero stati possibili contestuali abbattimenti delle tasse e cospicui incrementi di spesa sociale e militare; in assenza del deficit morale legato alla vicenda Lewinsky, sarebbe stato più difficile per i repubblicani e per i leader religiosi a essi vicini giocare la carta della superiorità morale del presidente – il buon padre di famiglia – rispetto a una leadership democratica etichettata come priva di solidi riferimenti etici.

Tali contingenze positive hanno prevalso su quelle negative (la lenta ripresa dell’occupazione, le difficoltà economiche delle classi medie) e segnato in modo trasversale l’elettorato: i risultati del presidente migliorano ovunque, in tutte le aree geografiche del paese (non solo negli Stati tradizionalmente repubblicani), nelle aree urbane e suburbane; di più tra quanti non frequentano la chiesa e non posseggono armi da fuoco che tra i quanti vanno in chiesa una volta a settimana e hanno armi in casa.

 

Il paradigma a vocazione egemonica

Non è vero che nell’impostazione politico-elettorale di Karl Rove, il consigliere politico del presidente, si è solo scommesso sul nucleo duro conservatore. Oltre che supportata da fattori contingenti, i dati evidenziano anche che la vittoria di Bush è il frutto di un’abile e spregiudicata iniziativa politica guidata dal paradigma della «società dei diritti di proprietà» (ownership society) e del «conservatorismo compassionevole» (compassionate conservatism). Un paradigma a vocazione egemonica, ma fragile (vedremo più avanti). La «società dei diritti di proprietà» è fondata su principi opposti a quelli del New Deal di Roosevelt e della Great Society di Johnson. Però, come le strategie dei due grandi presidenti democratici del Novecento, si concentra sulle domande di protezione-promozione sociale delle classi medie (innovazione significativa rispetto al reaganismo). Nella società compassionevole dei diritti di proprietà, l’intervento pubblico non viene semplicemente ridimensionato. Esso viene piegato a supporto dell’allargamento dei mercati dei servizi sociali (per quanti hanno sufficiente potere d’acquisto) e del potenziamento del volontariato religioso (per quanti, nonostante i sussidi fiscali, non riescono comunque ad accedere ai mercati dei servizi sociali).

Bush ha applicato il proprio paradigma su una molteplicità di settori elettorali solitamente schierati, a maggioranza, a favore del Partito democratico. Innanzitutto le donne, oltre metà dell’elettorato (54%): Clinton nel 1996 e Al Gore nel 2000 avevano conquistato il 54% dell’elettorato femminile, nonostante la presenza di candidature indipendenti relativamente forti (7% nel 1996 a Perot e 2% nel 2000 a Nader). Il 2 novembre solo il 51% delle donne ha dato fiducia a Kerry, mentre il presidente uscente ha incrementato i suoi voti dal 43% al 48%. In particolare, tra le donne sposate si inverte il trend degli anni Novanta: Bush sale dal 46% al 55%, mentre Kerry declina dal 48% al 44%. Rilevante per tale affermazione è stata la legge per la riforma della scuola (no child left behind), voluta da Bush subito all’inizio del suo mandato. Una riforma bipartisan (sostenuta anche dal liberal Kennedy), svuotata di ogni efficacia in quanto lasciata senza risorse, ma comunque utile da sbandierare in campagna elettorale nelle aree urbane e suburbane.

In secondo luogo, gli anziani, un quarto dei votanti. Tra gli elettori ultra sessantenni, Kerry ha raccolto il 46%, un risultato peggiore di quello ottenuto da Dukakis (49%), altro senatore del Massachusetts sconfitto nel 1988 da Bush padre. Il presidente ha innalzato i suoi voti dal 47% al 54%, grazie soprattutto all’introduzione nel 2002 della copertura assicurativa per le spese per i medicinali e all’appoggio ricevuto dalla potentissima lobby degli anziani (l’American Association of Retired People, 44 milioni di iscritti), di solito roccaforte democratica. Come nel caso della riforma della scuola, un abile gioco elettorale (la misura andrà in vigore solo nel 2006), a grande vantaggio delle assicurazioni private ma difficilmente sostenibile sul piano della finanza pubblica.

In terzo luogo le minoranze (ispanici, afro-americani, asiatici), quasi un quarto degli elettori. Tra gli ispanici, dal 2001 la più numerosa minoranza presente negli USA (anche se in termini di votanti sono ancora dietro agli afro-americani), il presidente uscente ha ricevuto il 43% dei suffragi, 12 punti percentuali in più del 2000. Tra gli afro-americani ha guadagnato 3 punti percentuali (pur rimanendo in nettissima minoranza). Stesso incremento tra gli asiatici, dove il voto si distribuisce in modo più equilibrato tra democratici e repubblicani. Importante a tal fine sia l’insistenza sulla religiosità del presidente, sia la visibilità data alle minoranze nell’Amministrazione. Per il target latinos: Alberto Gonzales, ex consigliere giuridico della Casa Bianca, ora nominato (primo ispano-americano) ministro della giustizia; Mel Martinez, nel gabinetto di Bush come ministro alle politiche per la casa, eletto a novembre primo senatore cubano- americano in rappresentanza della Florida. Per il target afro-americano, Condoleeza Rice, ex consigliere per la sicurezza nazionale e ora segretario di Stato; Colin Powell, ex segretario di Stato; Rod Paige, ministro dell’istruzione. Per il target asiatico, Elaine Chao, ministro del lavoro.

Infine, i movimenti religiosi di ispirazione progressista. L’Amministrazione Bush non si è rivolta al variegato arcipelago religioso solo con proposte reazionarie. Essa ha anche dispiegato iniziative di immagine improntate alla solidarietà nei confronti dei paesi più poveri del mondo: con il Millenium Challenge Account e il President’s Emergency Plan for AIDS Relief sono stati promessi stanziamenti per lo sviluppo di circa il 50% superiori a quanto speso in media negli anni Novanta; con l’offensiva diplomatica per la definizione del conflitto in Darfur come genocidio si è tentato di presentare l’interventismo dell’Ammnistrazione come umanitario.

L’offensiva sui segmenti moderati dell’elettorato non pare abbia beneficiato degli interventi di cospicua riduzione delle tasse. I medesimi exit poll dai quali è venuta fuori la rilevanza della componente valoriale nella scelta elettorale indicano che la riduzione della pressione fiscale è stato un tema rilevante soltanto per il 5% degli elettori. I tagli delle imposte realizzati dal 2001 al 2003 sono stati valutati per quello che erano: interventi regressivi, a enorme vantaggio dei nuclei familiari a reddito più elevato. Infatti, mentre in media, in termini percentuali, Kerry rimane fermo al livello di Al Gore nel 2000 (48%), avanza di 6 punti percentuali tra i redditi inferiori a 15.000 dollari l’anno; di 3 punti percentuali tra i redditi tra 15.000 e 30.000 dollari l’anno; di un punto percentuale per i redditi tra 30.000 e 50.000 dollari l’anno. La performance di Bush è invece superiore alla media solo per i nuclei familiari con redditi superiori a 100.000 dollari l’anno.

 

La capacità organizzativa

Oltre alla sapiente selezione delle politiche, la strategia dell’Amministrazione Bush si è fondata su uno straordinario sforzo organizzativo. In parte alimentato dal centro, in parte attivatosi autonomamente nelle realtà locali, ma in forte sinergia con la Casa Bianca. Indubbiamente protagoniste sono state le chiese di alcune denominazioni religiose, la cui attivazione è stata favorita dai referendum per l’introduzione nella costituzione degli Stati del divieto del matrimonio per le coppie omosessuali. In tale contesto, seppur molto efficace, non si è rivelata vincente la strategia del Partito democratico di puntare tutto sulla mobilitazione degli elettori registrati nelle fila democratiche. Tale strategia – realizzatasi con il concorso di centinaia di migliaia di volontari organizzati da alcuni movimenti indipendenti nati sulla rete (in particolare American Coming Together e Moveon) – ha portato a un’eccezionale raccolta di finanziamenti (per ammontare raggiunto e per numero di donatori) e ha contribuito a incrementare il numero di elettori democratici di oltre 4 milioni di unità rispetto al 2000. Tuttavia, essa non è riuscita a tener testa all’offensiva repubblicana, la quale non si è accontentata di mobilitare solo gli elettori registrati come repubblicani, ma si è anche lanciata nel reclutamento di cittadini non registrati, di registrati indipendenti e anche democratici (in totale Bush riceve 8,5 milioni di voti in più che nel 2000).

Ciclo politico, fattori contingenti e abilità della Casa Bianca non ci consegnano un’ennesima «fine della storia». La partita rimane aperta sul terreno della politica. Il 48% degli elettori americani (oltre 55 milioni) non ha scelto Bush. Vittorie molto più larghe sono state ribaltate nel corso di un quadriennio. Nel 1972, nonostante la difficile situazione economica del paese, l’impantanamento in Vietnam, le accuse di corruzione e l’esplosione del Watergate a ridosso del voto, Nixon venne rieletto con il 61% dei voti e 520 grandi elettori. McGovern, candidato pacifista e liberal del Partito democratico, si fermò al 38%, conquistando soltanto la città di Washington e il Massachusetts. Quattro anni dopo, Carter vinse con il 50% dei voti e 297 grandi elettori. Analoga alternanza ha caratterizzato gli anni Ottanta e Novanta. Ovviamente, questo non significa che basta sedersi e aspettare che il pendolo dei cicli politici torni dall’altra parte. Significa sottolineare che la recente affermazione repubblicana – seppur caratterizzata storicamente dal congiunto rafforzamento al Senato e alla Camera – rimane una vittoria politica.

Anzi, il 2 novembre potrebbe essere ricordato in campo democratico come l’apogeo del ciclo conservatore ma, al tempo stesso, l’avvio di un altro ciclo alternativo. Il 2 novembre potrebbe essere per le forze democratiche «il giorno della ritrovata consapevolezza»: di come è cambiato il paese; delle numerose contraddizioni sulle quali poggia il primato repubblicano; delle risorse a disposizione, non solo umane e finanziarie attivatesi (con internet), ma anche delle risorse ideali potenzialmente progressive, ma attratte da fattori di carattere contingente nell’orbita repubblicana.

 

Le potenzialità per il Partito democratico

La maggiore insidia al primato repubblicano deriva dalle ragioni alla base dei risultati del 2 novembre. La capacità egemonica del Partito repubblicano di George W. Bush è minata da contraddizioni. In primo luogo, non sarà facile per gli strateghi repubblicani contenere le spinte oltranziste attivate e consolidare le posizioni conquistate all’avversario. Il risultato elettorale porta con sé seri rischi di una ulteriore radicalizzazione delle politiche, in quanto rafforza la presa del Partito repubblicano su tutte le leve del governo federale, in un contesto di delegittimazione etica dell’avversario. Il Partito democratico e i suoi leaders sono stati attaccati non solo sul terreno politico, in quanto inadatti a governare un paese aggredito dal terrorismo, ma sono stati presentati come intrinsecamente unamericans (nonamericani), quasi come i comunisti ai tempi della Commissione presieduta dal Senatore Joseph McCarthy. Il termine liberal è diventato una accusa infamante, un’arma di delegittimazione politica. Di conseguenza, i settori più conservatori dello schieramento repubblicano non riconoscono la necessità democratica di tener conto delle posizioni della minoranza, in particolare quando essa ottiene il 48% dei voti. Queste forze – caricatisi nel corso di anni di intenso conflitto ideologico – intendono maggioranza come dominanza assoluta. È significativo a tal proposito lo scontro in atto per la presidenza della Commissione giustizia del Senato, sede di conferma dei giudici federali e della Corte Suprema. Il senatore Specter, repubblicano moderato della Pennsylvania, è stato virtualmente linciato nei talk show delle radio a orientamento religioso e sulla televisione Fox per avere osato prospettare difficoltà per la conferma di giudici contrari alla vigente normativa sull’interruzione di gravidanza.

Il secondo luogo, sono terreni difficoltà per i repubblicani e, contestualmente, opportunità per la ripresa dell’iniziativa democratica, sia la politica estera che la politica interna: le ragioni del successo elettorale di novembre diventano handicap pesanti. Nel secondo mandato saranno evidenti i limiti e la contraddizioni del paradigma della «guerra preventiva» e dell’unilateralismo, non solo nella stabilizzazione dell’Iraq, ma anche nella gestione del conflitto tra Israele e Palestina, nella risoluzione delle negoziazioni con l’Iran e la Corea del Nord. Il crescente deficit del bilancio federale e l’altrettanto preoccupante deficit delle partite correnti peseranno sia sulla capacità di iniziativa militare, sia sulle prospettive delle classi medie e della fascia in espansione di popolazione in invecchiamento, le cui domande di servizi e protezione sociale diventeranno incompatibili con la promessa ulteriore offensiva sulle tasse.

Le contraddizioni e le difficoltà dello schieramento repubblicano potranno essere efficacemente utilizzate a condizione che le leadership del Partito democratico ritrovino lucidità politica e capacità di capitalizzare fino in fondo le enormi risorse a disposizione. La logica della resistenza, nella prospettiva del tanto peggio-tanto meglio invocata dai settori più radicali dello schieramento anti-Bush, non deve prevalere. Il primo passo, difficile ma decisivo, è ritrovare autonomia culturale nella definizione di se stessi e del campo di gioco. Assumere implicitamente ed esplicitamente la teoria della «Grande frattura culturale» (il Great Divide, nel lessico dei liberal) è stata una sciagura. Il paradigma di un’America metro (metropolitana, colta, moderna, aperta al mondo, «europea»), contrapposta a un’America retro (arretrata, bigotta, chiusa nelle campagne del Sud e del Mid-West) è il terreno sul quale i conservatori vorrebbero continuare a giocare. Tale impostazione consente al Partito repubblicano, indubbiamente facilitato da candidature con la biografia di Kerry e consorte, di fare una caricatura dei leader e degli elettori democratici come antropologicamente diversi dall’America vera. Al tempo stesso, essa implica una notevole rigidità delle posizioni, induce il Partito democratico a rinunciare a competere nel Sud e in molti Stati del Mid-West e prospetta alla sinistra solo la via dell’arroccamento identitario. I dati elettorali evidenziano quanto sia forzata dall’ideologia la teoria della «Grande frattura culturale»: non è vero che gli elettori democratici sono una minoranza in via di estinzione, una aristocrazia relegata nei quartieri ricchi della grandi città delle due coste. Tra i 55 milioni di voti raccolti, Kerry ha migliorato la posizione democratica non solo tra gli elettori appartenenti ai nuclei familiari a reddito medio e medio-basso e tra uomini e donne tra i 18-29 anni, ma in particolare nelle località con numero di abitanti tra 10.000 e 50.000 (più 10% rispetto ad Al Gore) e nelle aree rurali (più 3%). Bush, invece, nelle aree urbane ha avuto un risultato di 10 punti percentuali superiore al 2000. L’ex presidente Clinton alla Convention di Boston ha insistito sulla fallacia dell’impianto delle due Americhe, ma oramai era troppo tardi per far uscire i democratici dalla trappola.

La controffensiva del Partito democratico è anche possibile tra quanti hanno continuato a ritenere che l’intervento in Iraq fosse, nonostante tutto, una ragione per sostenere il presidente in carica. Tra questi, infatti, non vi sono solo integralisti religiosi pro-Sharon o crociati neoconservatives. Ma anche (soprattutto) famiglie spaventate e cittadini, in molti casi registrati democratici, che considerano l’offensiva USA in Iraq come interventismo umanitario, un dovere morale per la sola superpotenza del pianeta. Ad essi ha parlato molto di più la propaganda della liberazione di un popolo oppresso, piuttosto che gli ammiccamenti implicitamente isolazionisti di Kerry o esplicitamente populisti di Edwards, i quali per tutta la campagna elettorale hanno messo in evidenza solo i costi interni dell’avventurismo militare dell’Amministrazione.

Infine, il Partito democratico potrebbe ritornare all’offensiva per la riforma del sistema di promozione e di assistenza sociale. Potrebbe esplorare le potenzialità – non solo elettorali ma di efficacia-efficienza – di affidare alcune funzioni di assistenza all’iniziativa delle comunità religiose (faith-based welfare). Il coinvolgimento delle comunità religiose non è una prospettiva da esorcizzare meccanicamente in nome della laicità dello Stato. Può essere, opportunamente regolato, una straordinaria risorsa da mobilitare in un paese dove la solidarietà non passa necessariamente attraverso istituzioni governative (federali, statali, locali), dove il protagonismo individuale – decisamente più marcato che in Europa continentale – domanda di esprimersi anche sul terreno della solidarietà sociale, oltre che nell’arena economica. In generale, il sentimento religioso, apparentemente in crescita, può essere, come nelle battaglie per i diritti civili, declinato a sostegno di politiche progressive. L’analisi del voto per appartenenza confessionale evidenzia che i democratici, pure in difficoltà, non sono una sparuta minoranza. Nonostante l’impegno degli evangelici a favore di Bush, Kerry tra gli elettori protestanti ha confermato la percentuale ottenuta da Al Gore e Clinton (40%). Il cedimento è avvenuto, piuttosto, tra i «suoi» cattolici, dove il presidente migliora in modo significativo la performance già molto positiva del 2000 (dal 47% al 52%).

La partita è aperta. I prossimi quattro anni potrebbero portare a una ulteriore espansione dell’egemonia repubblicana, costruita attraverso il ridimensionamento del ruolo e della visibilità delle forze più ideologiche e fondamentaliste. Oppure potrebbero portare all’inceppamento della macchina, a causa delle contraddizioni in essa insite e della ripresa di iniziativa dei democratici. Ovviamente, l’offensiva democratica deve avvenire nella piena consapevolezza di quanto il terreno di gioco è stato ridefinito dalla tematizzazione repubblicana dei mutamenti culturali, economici e sociali degli ultimi trent’anni. Si deve riprendere con determinazione, sistematicità ed eventuali correzioni il percorso aperto da Bill Clinton nel 1992.