Uniti nell'Ulivo in una Italia divisa?

Di Roberto D’Alimonte Mercoledì 01 Settembre 2004 02:00 Stampa

La lista Uniti nell’Ulivo è stata la novità più importante delle ultime elezioni europee dal punto di vista dell’offerta politica. Quattro partiti che si mettono insieme in una competizione proporzionale è una scommessa difficile. Tanto più considerando che all’interno del loro stesso schieramento hanno dovuto subire la concorrenza a sinistra di altre formazioni, dell’Ulivo e non, pronte a raccogliere i voti dei «proporzionalisti delusi». Ci sono due modi per valutare il successo o meno dell’iniziativa. Il primo è quello di confrontare i voti ottenuti dalla lista unitaria nel 2004 con quelli raccolti da DS, Margherita, SDI e Repubblicani Europei nel 2001 e/o nel 1999. Il secondo è quello di confrontare i voti della lista unitaria nelle ultime elezioni europee con quelli che i quattro partiti hanno ottenuto nelle elezioni provinciali che si sono tenute nello stesso momento. La differenza tra questi due risultati ci dà il «rendimento della lista unitaria».

 

La lista Uniti nell’Ulivo è stata la novità più importante delle ultime elezioni europee dal punto di vista dell’offerta politica. Quattro partiti che si mettono insieme in una competizione proporzionale è una scommessa difficile. Tanto più considerando che all’interno del loro stesso schieramento hanno dovuto subire la concorrenza a sinistra di altre formazioni, dell’Ulivo e non, pronte a raccogliere i voti dei «proporzionalisti delusi». Ci sono due modi per valutare il successo o meno dell’iniziativa. Il primo è quello di confrontare i voti ottenuti dalla lista unitaria nel 2004 con quelli raccolti da DS, Margherita, SDI e Repubblicani Europei nel 2001 e/o nel 1999. Il secondo è quello di confrontare i voti della lista unitaria nelle ultime elezioni europee con quelli che i quattro partiti hanno ottenuto nelle elezioni provinciali che si sono tenute nello stesso momento. La differenza tra questi due risultati ci dà il «rendimento della lista unitaria». Va da sé che il confronto si può fare solo per le province in cui si è votato sia alle europee che alle provinciali, perché solo in questi casi possiamo vedere cosa hanno fatto quegli elettori che dopo aver espresso un voto proporzionale per uno dei quattro partiti della lista unitaria alle provinciali hanno dovuto decidere «nello stesso momento elettorale» se votare o meno alle europee anche la lista formata dai quattro partiti. Nel nostro caso, le province utilizzate sono 62 invece di 63. Non è stato incluso il dato di Pordenone, che ha una legge elettorale leggermente diversa dalle altre province. Questo tipo di confronto sincronico ci sembra molto più interessante del confronto diacronico, su cui si è prevalentemente concentrato il giudizio corrente. In altri termini, la domanda che ci interessa è questa: come si sono comportati alle europee quegli elettori che alle provinciali hanno votato uno dei quattro partiti che fanno parte della lista unitaria? La risposta, per quanto parziale, ci consente di valutare meglio le difficoltà incontrate da questa iniziativa e quindi le strategie necessarie per rafforzarla.

La Tabella 1 mostra il rendimento della lista unitaria a livello nazionale e a livello di singole aree geo-politiche. Il dato nazionale è di sostanziale pareggio, ma questo dato non è molto significativo perché nasconde differenze territoriali sistematiche e molto rilevanti. Al Nord la lista unitaria è andata bene guadagnando, rispetto ai quattro partiti, più di 350.000 voti, pari al 3,9% del totale dei votanti alle europee. Rispetto ai voti ottenuti dai quattro partiti l’incremento è quasi del 18%. Un risultato senza dubbio positivo, tenuto conto delle difficoltà dell’impresa in un contesto proporzionale caratterizzato da grande frammentazione e quindi da elevata competizione. Al Sud, invece, il rendimento della lista non è positivo: ha infatti perso il 3,9%, pari a circa il 13% dei voti raccolti dai quattro partiti. Anche al Centro (Emilia Romagna, Toscana, Umbria e Marche) ha perso, ma solo l’1,0%.

Tabella 1

Scendendo nei dettagli, al Nord la lista unitaria ha ottenuto più voti delle quattro liste in 14 province su 20. In alcuni casi la differenza è molto consistente. Per esempio a Milano, dove ha avuto 150.000 voti in più, vale a dire il 32% di voti in più rispetto a quanto ottenuto dalle quattro liste alle provinciali. Ma anche a Bergamo (addirittura il 38% in più), Torino, Belluno e Verona il suo rendimento è stato positivo. Inoltre, anche in quei casi dove la differenza è negativa si tratta di scarti modesti, con la sola eccezione di Alessandria. Al Centro la lista unitaria va bene in 8 casi su 21, ma si nota una differenza importante tra le province dell’Emilia-Romagna e quelle della Toscana e dell’Umbria. Nelle prime, i dati sono positivi e si avvicinano a quelli del Nord. Nelle seconde non si può dire altrettanto. In particolare, molto negativi sono i dati di Perugia, Terni e Siena. A Perugia per esempio mancano all’appello 38.718 voti, cioè il 22% dei voti ottenuti dalle quattro liste alle provinciali. Ma è decisamente il Sud l’area dove il rendimento della lista unitaria è sistematicamente negativo. In sole due province, Napoli e Catanzaro, il suo risultato è superiore a quello delle quattro liste. Spiccano i casi di Pescara (26.353 voti in meno, il 34%) e Avellino (37.557 voti in meno, il 32%). Ma anche a Frosinone, Potenza e Cosenza le cose non sono andate bene.

Perché dunque questo rendimento così nettamente differenziato territorialmente? Per cercare la risposta partiamo da un modello di analisi semplificato (illustrato nella Figura 1). Come noto, nelle elezioni provinciali si può votare il solo candidato-presidente senza esprimere nessun voto di lista. Quindi, in teoria, il bacino potenziale di voti della lista unitaria era costituito dai voti dati nelle elezioni provinciali a uno dei quattro partiti e dai voti dati solo ai candidati-presidente del centrosinistra.

Figura 1

La Tabella 2 mostra che a livello complessivo ci sono stati 1.388.423 elettori che hanno votato solo i candidati-presidente e non una delle liste. Li chiameremo per comodità «elettori maggioritari». Tra questi, 773.279 hanno votato solo i candidati-presidenti del centrosinistra (CS). Il fenomeno non è quindi limitato solo a questo schieramento. Quali sono le possibili spiegazioni di un comportamento elettorale di questo tipo? Non esistono risposte sicure a questa domanda. Possiamo solo ragionare per ipotesi. Le più plausibili sono tre. La prima è che una parte degli elettori non si identifichi più con un partito, ma solo con la coalizione, sia essa l’Ulivo (quando esprime un candidato comune) o la lista unitaria (nel caso in esame) o la Casa delle Libertà. Possiamo chiamare questi elettori «unionisti». Una seconda ipotesi è quella del voto personale. Ci sono elettori cui non interessa votare né la lista né la coalizione, ma la persona. È una categoria di elettori, diversa dagli «unionisti», a cui non interessa votare la coalizione e l’idea di coesione che essa rappresenta, ma che sono attratti dalle caratteristiche personali del candidato che guida la coalizione. La differenza tra questi elettori e gli «unionisti» è che questi ultimi sono disposti a votare il candidato-presidente della coalizione indipendentemente da chi esso sia, cosa che non accade invece per i primi. Un’ultima ipotesi è quella dell’insicurezza. Non si può escludere, infatti, che davanti alla complessità delle procedure elettorali una quota di elettori timorosi di sbagliare decidano di esprimere un solo voto per non correre rischi. Questo unico voto può essere espresso per il candidato-presidente o per la lista. Tuttavia, se il voto è espresso per la lista viene trasferito automaticamente anche al candidato-presidente collegato alla lista votata, nel caso invece che venga espresso solo il voto al candidato presidente non si verifica il contrario. Dei primi non sappiamo nulla, perché non vengono registrati nei seggi o quanto meno non vengono comunicati al pubblico. Dei secondi, invece, sappiamo che confluiscono nel dato che appare nella Tabella 2.

Quanti elettori di quali schieramenti corrispondono a queste tre ipotesi? Come già detto, a questa domanda non siamo in grado di rispondere con certezza. Quello che sappiamo da numerosi e convergenti dati di sondaggio è che nel centrosinistra esiste una quota significativa di «unionisti», per cui è lecito ipotizzare che un numero significativo di elettori che hanno votato solo i candidati presidente siano elettori interessati solo alla coalizione e non alle liste che la compongono. Se è così, ha senso considerare – come nella Figura 1 – questi elettori come parte del bacino potenziale della lista unitaria. In ogni caso, occorre tener presente che non si possono considerare tutti i voti ai soli candidati-presidente del centrosinistra come voti potenziali della lista unitaria. I motivi sono due. Il primo, già esposto, è che non tutti questi elettori sono «unionisti». Il secondo è che non tutti i candidati-presidente del centrosinistra erano di provenienza di uno dei partiti della lista unitaria. Queste considerazioni servono a chiarire un aspetto importante dal punto di vista metodologico. Parlando di bacino potenziale della lista unitaria possiamo indicare con relativa certezza il limite inferiore, dato dalla somma dei voti delle quattro liste, ma non il limite superiore che è dato dalla somma dei voti alle quattro liste più una quota indeterminata e indeterminabile di elettorato che ha votato per il solo candidato-presidente. Nella sostanza, non sappiamo quanti sono in realtà gli «unionisti» il cui voto dovrebbe essere aggiunto a quello dei votanti delle quattro liste per arrivare a stimare il bacino complessivo della lista unitaria.

Tabella 2

Tutto questo ragionamento ha conseguenze pratiche. Infatti, così come sarebbe scorretto metodologicamente e politicamente confrontare il risultato della lista unitaria solo con i voti dati alle quattro liste, ancora più scorretto sarebbe confrontare il risultato della lista unitaria con la somma dei voti alle quattro liste più i voti dei candidati presidente del centrosinistra. Il termine di confronto corretto per valutare il rendimento della lista unitaria sta tra questi due parametri.

Dopo questa premessa metodologica torniamo alla Tabella 2. Il dato interessante è rappresentato dalle differenze territoriali e in particolare quella Nord-Sud. Al Nord il 12% degli elettori del centrosinistra (ultima colonna) ha votato solo il candidato-presidente, mentre al Sud la percentuale si riduce al 3,7%. Il Centro si colloca in una posizione intermedia. In questo dato c’è una prima parziale spiegazione del rendimento territorialmente differenziato della lista unitaria. Infatti, a meno di non voler ipotizzare che il 12% di elettori «maggioritari» del centrosinistra sia costituito in prevalenza da «personalisti» o da «insicuri», dobbiamo assumere che al Nord la percentuale degli «unionisti» sia più elevata che al Sud e al Centro. Se così è, e ce lo dicono anche i sondaggi, è proprio la presenza di questi elettori a spiegare il buon rendimento della lista unitaria al Nord. D’altronde, è sufficiente confrontare i dati della Tabella 1 con quelli della Tabella 2 per cogliere la plausibilità di questa affermazione. Al Nord la lista unitaria ha preso il 3,9% di voti in più (ultima colonna della Tabella 1) in presenza di un 4,7% di elettori (sul totale dei votanti) che hanno votato soltanto i candidati-presidenti del centrosinistra (penultima colonna della Tabella 2). Al Sud, invece, ha perso il 3,9% dei voti in presenza di un modesto 1,9% di elettori «maggioritari».

Ma una prova più convincente ce la dà la correlazione tra le differenze di «voti lista unitaria e voti ai quattro partiti» (cioè il rendimento della lista unitaria) e le differenze di voti tra «voti ai soli candidatipresidenti del CS e voti ai quattro partiti». Ebbene, i valori di questa correlazione sono elevati e significativi. Nella sostanza, tanti più sono gli elettori che hanno votato solo i candidati-presidente tanto migliore è il rendimento della lista unitaria. Questo vuol dire che al Nord l’esistenza di una quota rilevante di elettori «unionisti» ha più che compensato le defezioni di coloro che alle provinciali hanno votato uno dei quattro partiti ma alle europee non hanno voluto votare la lista unitaria. Infatti anche al Nord, e non solo al Centro e al Sud, queste defezioni ci sono state. Anche al Nord esistono i «proporzionalisti delusi», elettori che non seguono il loro partito di riferimento quando questo rinuncia a presentarsi da solo con il suo simbolo. È lo stesso risultato della lista unitaria a dirci che questo tipo di elettori esiste. Infatti, se così non fosse, il risultato complessivo della lista sarebbe stato migliore anche al Nord. Sulla carta, infatti, la lista unitaria poteva contare sia sui voti di coloro che hanno votato uno dei quattro partiti, che su una quota di voti di coloro che hanno votato il solo candidato-presidente. Il fatto che solo in pochi casi questo sia successo ci dice che la lista unitaria non è riuscita nemmeno al Nord a trattenere tutti i suoi potenziali elettori. In questa area, però, la presenza degli «unionisti» ha compensato l’emorragia dei «proporzionalisti». Il saldo dunque è positivo. Certo, meno positivo di quanto i più ottimisti sostenitori dell’iniziativa sperassero. Ma quanti tra gli elettori «unionisti» avrebbero votato uno dei partiti della lista unitaria, se alle europee questi partiti si fossero presentati divisi?

Al Sud, invece, le cose sono andate diversamente, perché ci sono meno «unionisti» e più «proporzionalisti» e quindi il saldo finale è stato negativo. Quel 3,7% di elettori «maggioritari» che hanno votato solo i candidati-presidenti sono stati troppo pochi per compensare le defezioni di chi ha preferito non votare la lista unitaria alle europee, pur avendo votato uno dei quattro partiti alle provinciali. Non è una sorpresa. La cultura politica meridionale è da sempre più legata alle liste e soprattutto ai candidati in lista. In aggiunta, è una ipotesi molto probabile che qui abbiano giocato un ruolo anche la scarsa riconoscibilità della lista unitaria e le resistenze interne alla Margherita a questo progetto (i casi di Pescara e di Avellino sono una spia significativa). Per cogliere meglio il problema occorre però utilizzare un modello di analisi più complesso di quello usato finora. Nella Figura 2 abbiamo messo in luce tutti i possibili flussi di voto tra l’arena delle provinciali e quella delle europee. Questi flussi hanno certamente influenzato il rendimento della lista unitaria. Rispetto al modello della Figura 1, qui mettiamo in evidenza anche altri tipi di comportamento elettorale differenziato: 1) elettori che hanno votato la lista unitaria e hanno espresso un voto non valido alle provinciali; 2) elettori che hanno votato alle provinciali una delle quattro liste e che alle europee hanno espresso un voto non valido; 3) elettori che alle provinciali hanno votato una delle quattro liste e che alle europee hanno votato un altro partito.

Figura 2

Di questi flussi, il primo crea un effetto positivo per la lista unitaria (perché questa risulta avere più voti rispetto alle quattro liste), mentre gli altri producono l’effetto contrario (perché in questo caso sono le quattro liste a evidenziare un totale di voti maggiore rispetto alla lista unitaria, fermi restando altri fattori).

Con i dati a disposizione non possiamo controllare l’effetto complessivo di questi flussi. Possiamo però avanzare delle ipotesi attendibili sull’impatto che il voto non valido alle europee ha avuto sul rendimento della lista unitaria. Come si vede nella Tabella 3, al Sud esiste un differenziale sorprendente, di oltre cinque punti percentuali, tra voti non validi alle europee (13,8%) e voti non validi alle provinciali (8,6%). Al Nord invece è il contrario: ci sono più voti non validi alle provinciali rispetto alle europee, come ci si poteva aspettare visto che era più facile votare in questa competizione. È possibile che il rendimento della lista unitaria sia associato a questo fattore? Così pare. La lista unitaria è andata bene al Nord, dove la percentuale di voti non validi alle europee è quasi la metà rispetto al Sud. Anche in questo caso, la conferma della bontà di questa ipotesi ci viene da una correlazione. Infatti, correlando il rendimento della lista unitaria e la differenza tra voti non validi nelle due competizioni elettorali, il risultato è che i due fenomeni sono fortemente associati: tanto più alta è la percentuale di schede bianche e nulle tanto più basso è il rendimento della lista unitaria. È plausibile quindi che al Sud un certo numero di elettori che hanno votato DS, Margherita, SDI e Repubblicani Europei alle provinciali, invece di votare alle europee la lista unitaria abbiano espresso un voto non valido. Perché al Sud tanti elettori si sono comportati in questo modo? Sulla carta i motivi non mancano. Forse è la natura «nazionale» della competizione elettorale, o forse è l’ampiezza dei collegi e quindi il minore contatto con i candidati a spiegare il fenomeno. Forse, invece, è la minore visibilità della lista unitaria. Oppure le maggiori resistenze che l’iniziativa incontra in questa area all’interno di DS e Margherita. In ogni caso, il dato di fatto è che una quota significativa di coloro che hanno espresso un voto valido alle provinciali per un partito non hanno fatto la stessa cosa alle europee e la statistica indica come possibili sospetti una parte degli elettori dei quattro partiti che stanno dietro alla lista unitaria.

Tabella 3

Questo è il quadro che emerge dai dati. Non è un quadro del tutto sorprendente. In fondo, sappiamo da sempre che esistono almeno due Italie e forse tre. Nell’Italia del Nord un progetto complesso come quello della lista unitaria raccoglie i consensi di un elettorato interessato al superamento degli attuali schemi partitici e favorevole alla ricomposizione della rappresentanza attraverso la creazione di nuove forme di organizzazione politica. Al Centro questo progetto deve fare i conti con la persistenza di un elettorato ideologico, erede di una subcultura profondamente radicata, che fa fatica a pensare in termini di superamento delle vecchie identità. Al Sud la lista unitaria male si adatta ad una cultura «pragmatica», aliena da schemi astratti di riorganizzazione partitica, e molto più interessata a rapporti personali e clientelari. Questa analisi si presta a diverse conclusioni. La conclusione a cui possiamo qui arrivare è che i dati non giustificano ripensamenti sulla strategia da seguire, ma richiedono certamente degli aggiustamenti.