Una legge da cancellare

Di Livia Turco Mercoledì 01 Settembre 2004 02:00 Stampa

Sono bastati pochi mesi, dopo l’approvazione e l’entrata in vigore della nuova legge sulla fecondazione medicalmente assistita, per avere la conferma, purtroppo anche attraverso la denuncia di situazioni drammatiche, degli effetti negativi che essa produce. Per questo è urgente cancellarne subito le norme più gravi. Vale a dire: il divieto di utilizzare le tecniche di fecondazione assistita con diagnosi pre-impianto e selezione embrionaria per la prevenzione delle malattie trasmesse per via genetica; la possibilità di revocare la volontà di accedere alle tecniche di fecondazione assistita da parte dei due soggetti della coppia solo fino al momento della fecondazione dell’ovulo; l’obbligo per le tecniche d fecondazione assistita di non creare un numero di embrioni superiore a tre e comunque non superiore a quello strettamente necessario a un unico e contemporaneo impianto; il divieto assoluto di ricorrere alla procreazione medicalmente assistita di tipo eterologo; il divieto di qualsiasi sperimentazione su ciascun embrione umano.

Sono bastati pochi mesi, dopo l’approvazione e l’entrata in vigore della nuova legge sulla fecondazione medicalmente assistita, per avere la conferma, purtroppo anche attraverso la denuncia di situazioni drammatiche, degli effetti negativi che essa produce.

Per questo è urgente cancellarne subito le norme più gravi. Vale a dire: il divieto di utilizzare le tecniche di fecondazione assistita con diagnosi pre-impianto e selezione embrionaria per la prevenzione delle malattie trasmesse per via genetica; la possibilità di revocare la volontà di accedere alle tecniche di fecondazione assistita da parte dei due soggetti della coppia solo fino al momento della fecondazione dell’ovulo; l’obbligo per le tecniche d fecondazione assistita di non creare un numero di embrioni superiore a tre e comunque non superiore a quello strettamente necessario a un unico e contemporaneo impianto; il divieto assoluto di ricorrere alla procreazione medicalmente assistita di tipo eterologo; il divieto di qualsiasi sperimentazione su ciascun embrione umano.

Per cancellare queste norme è utile la raccolta delle firme per un referendum abrogativo. Tale campagna è stata importante perché ha offerto uno strumento di partecipazione concreto a chi non solo considera negativa e grave questa legge, ma ha vissuto e vive con un sentimento profondo di indignazione e preoccupazione il messaggio culturale in essa contenuto. Ho firmato il referendum per una motivazione di merito ma anche per una motivazione squisitamente politico-istituzionale. A fronte della sordità, dell’arroganza e anche dell’approssimazione con cui la maggioranza parlamentare ha votato queste norme, forse solo la minaccia di un referendum può riaprire una dialettica nuova all’interno del parlamento. Anche se il sentiero è molto stretto ritengo che sarebbe un bene per il paese che il parlamento recuperasse il suo primato e che la politica riuscisse là dove prima aveva fallito. Questo significa ricercare una mediazione, predisponendo un nuovo testo di legge da approvare prima che si celebri il referendum. Credo che un’intesa e una mediazione possano essere trovate cancellando o correggendo i cinque punti indicati precedentemente. E sarebbe anticipatore di una nuova stagione politica e culturale se questo impegno di dialogo, ascolto reciproco e tessitura di una mediazione avesse come protagonista l’Ulivo.

Sono convinta, infatti, che riflettendo con animo schiettamente ed esclusivamente rivolto al merito dei problemi è possibile trovare un giusto equilibrio e un’intesa attorno a un nucleo essenziale di valori: il diritto alla salute, che include anche il diritto alla cura della sterilità, insieme al diritto-dovere di prevenire la trasmissione di malattie per via genetica; il riconoscimento della responsabile libertà della coppia come soggetto della procreazione; il principio della precauzione circa gli effetti biologici, psicologici e sociali del ricorso alle tecniche di fecondazione assistita; il riconoscimento della dignità umana dell’embrione.

Anche se si celebrasse il referendum, l’Ulivo dovrebbe essere capace di presentare una proposta condivisa e di mediazione, perché ad essa è strettamente connessa la nostra credibilità come coalizione di governo. Poiché i temi della bioetica non sono questioni che attengono solo alla coscienza individuale. È fuori discussione il riconoscimento della sua sovranità. Ma esso è tanto più forte quanto più la libera coscienza individuale è sollecitata a formulare una proposta condivisa che abbia la forza di coinvolgere e convincere uno schieramento ampio nel paese e nel parlamento. Non possiamo dimenticare che il rimprovero più severo che ci viene rivolto dal nostro elettorato e dall’opinione pubblica è di non essere riusciti, quando eravamo al governo, a maturare un’intesa che dotasse l’Italia di una legge giusta. E allora si pone una questione preliminare e di fondo cui all’interno dell’Ulivo dobbiamo una risposta. Pensiamo, forse, che su temi come la bioetica, il riconoscimento delle coppie di fatto eterosessuali e omosessuali, l’eutanasia, il confronto democratico possa avvenire esclusivamente all’interno di una forma politica e una scansione della laicità che veda da un lato, l’affermazione di principi naturali, intangibili e fissi nel loro esplicarsi, e, dall’altro, la rivendicazione della libertà di coscienza come espressione di una cultura laica basata sulla tolleranza e sul limite della politica?

Se accettassimo come ineluttabile e insuperabile questa forma di confronto e di decisione saremmo complici della codificazione di una politica minima, esposta di volta in volta al ricatto della potenza del mercato o al paternalismo di altre, pur autorevoli e legittime autorità, come quella religiosa. La questione dirimente è dunque la ridefinizione della forma e della pratica della laicità per essere all’altezza delle nuove sfide. Nella vicenda della legge sulla fecondazione assistita la laicità intesa come dialogo, autonomia e autorevolezza della politica è stata sostituita dalla forma del patto e dello scambio tra autorità ecclesiali e potere politico. Il patto e lo scambio hanno riguardato principi morali come la sacralità della vita fin dal concepimento, la naturalità della famiglia basata sul matrimonio e sul vincolo della riproduzione, i quali da valori universali sono così diventati «interessi» cattolici. Impoverire la dimensione e la pratica della laicità significa impoverire lo spazio del pensiero e dell’azione condivisi, essenziali per promuovere il contenuto proprio della laicità che è il bene comune. Questo impoverimento si ripercuote negativamente sulla politica e sulle istituzioni ma anche sui valori del cattolicesimo democratico. Perché, sottraendoli alla fatica dell’interrogazione pubblica e mettendoli al riparo dalle domande che derivano dall’esperienza umana, quei valori sono impediti dal diventare «lievito» capace di fecondare l’esperienza umana in quanto tale e non solo quella che ha maturato una scelta religiosa. Limitando così la capacità espansiva di quei valori medesimi.

La cultura e l’azione di governo dell’era berlusconiana hanno inciso anche sulla forma della laicità. Ciò è avvenuto, oltre che attraverso il sostegno secolare ai valori cattolici, con una politica populista e plebiscitaria che, in quanto tale, si basa sul rapporto diretto del capo con il popolo attraverso messaggi semplificati e «agitando» i problemi anziché cercare di risolverli. Tale politica non ha bisogno del dialogo e della mediazione perché non ha come obiettivo la costruzione del bene comune. D’altra parte la politica berlusconiana ha tessuto una trama culturale nel nostro paese che ha saputo interloquire e incidere su un senso comune diffuso. Una trama culturale che al confessionalismo sui temi etici unisce una particolare forma di relativismo etico riferito alla società e alla libertà della persona. La libertà della persona diventa la libertà di chi ha successo nella vita economica e in quella privata, la libertà «dell’acquirente», essendo ogni bene ridotto a merce, a scambio, a consumo. Un relativismo etico che alla esaltazione dei forti e dei fortunati unisce la commiserazione per gli sfortunati. E che trovandosi impotente di fronte alla sofferenza e al dolore invoca la proibizione, i vincoli, la reclusione. Perché non sa fare altro che allontanarli dal suo sguardo, nasconderli, impedire loro che diano fastidio alla moltitudine di persone «normali» e fortunate (come dimostrano le leggi sulle tossicodipendenze, sulla salute mentale, sul disagio minorile sulla prostituzione). Un relativismo etico che ha recentemente inaugurato la «cultura del lifting» la quale non è una trovata estemporanea, ma la proposizione di una cultura dell’apparire anziché dell’essere, una cultura che esalta una vuota esteriorità.

Insisto sulla pervasività di questa cultura così propagandata dal presidente del consiglio e dalle sue reti televisive perché essa costituisce, secondo me, il compimento di quella rivoluzione passiva attorno a una idea dirompente del femminismo: la libertà e la libertà sessuale in modo particolare. E così la banalizzazione e la mercificazione di ogni sfera della vita e di ogni sentimento, l’identificazione tra l’essere e l’apparire, con il ritorno alla sottomissione a stereotipi soffocanti, hanno il sopravvento sulla valorizzazione di quella ricchezza che deriva dalla ricerca interiore, dall’autenticità, dal dono di sé nel rapporto con l’altro su cui molto aveva insistito la cultura delle donne.

Tutto questo ha a che vedere con la legge sulla fecondazione assistita. Perché non si tratta solo di una legge, ma di una cultura, di un senso comune e di stili di vita. E io credo che questo pendolo fra relativismo etico e autoritarismo, questa esaltazione della vuota esteriorità non solo lasci insoluti i problemi e li aggravi, ma determini anche una sensazione di disorientamento nelle persone. Non a caso sta crescendo nel nostro paese una richiesta di senso e di convivialità. Cresce quel «bisogno di stare in compagnia» che non è solo la ricerca di una esperienza di vita ma anche di un orizzonte culturale e morale condiviso.

È necessario dunque che il pluralismo etico esistente attorno ai temi della vita, della procreazione, della morte possa dispiegarsi all’interno di una dialettica più feconda, che non sia lo scontro-confronto tra principi morali derivanti da una verità rivelata che si snoda attorno al paradigma natura/contro natura e una politica laica che in nome del suo limite e del principio di tolleranza respinge da sé gli interrogativi morali più impegnativi. Sono convinta che questa dialettica possa avere una base comune nella piena assunzione della responsabilità morale dell’uomo e della donna e nella capacità di interrogare l’esperienza umana e formulare insieme, all’interno di uno spazio pubblico condiviso, le nuove domande che da quell’esperienza scaturiscono, e ricercare le soluzioni sulla base dell’argomentazione e della persuasione reciproca.

Ciò significa che la dimensione e la pratica della laicità si ridefinisce come lo spazio pubblico democratico entro cui tutti i cittadini, credenti e non, si scambiano i loro argomenti e attivano procedure consensuali di decisione, senza chiedersi spiegazioni autoritativamente delle ragioni delle proprie verità di fede o dei propri convincimenti in generale. Ciò che conta è la capacità di persuasione reciproca e la leale osservanza delle procedure. Questa concezione procedurale e discorsiva della democrazia laica non rinuncia ai valori e ai principi etici, ma si sforza di motivarli all’interno di uno spazio comune ascoltando l’esperienza umana e traducendo valori e principi etici in argomenti che possano essere persuasivi e convincenti per tutti. Questo contesto può consentire, a ciascuna tradizione culturale di dare il meglio di sé. Può consentire ad esempio, alla coscienza cristiana di sviluppare quella tensione tra libertà e verità e tradurre l’inquietudine che le deriva dalla consapevolezza che la presenza del male nel mondo è inestirpabile, in un antidoto a una concezione puramente emancipativa della libertà. E può consentirle di mettere in risalto l’importanza che riveste, nell’affermazione della libertà individuale, la percezione del legame di interdipendenza che lega ciascuna persona all’altra. La coscienza cristiana può dare un contributo importante a cogliere la ricchezza umana fino ad ora ancora inesplorata contenuta nella scoperta di sé come individualità aperta all’altro, che può dispiegare interamente la sua umanità se è capace di elaborare questo legame di dipendenza. Tale approccio comporta una rielaborazione della concezione liberale dell’autonomia individuale. Tema su cui si è cimentata la cultura delle donne, criticando una teoria della giustizia – penso in particolare alle elaborazioni di Martha Nussbaum – basata su un contratto sociale i cui contraenti sono persone adulte, capaci, con bisogni sostanzialmente simili. Un contratto sociale in cui l’autonomia individuale coincide con l’autosufficienza: «ci pensiamo autosufficienti senza bisogno dei doni della fortuna».

Ed è questo il cuore di una importante riflessione che ci propone un pensatore come Jurgen Habermas nel suo «Il futuro della natura umana»:1 «Io intendo il comportamento morale come una risposta costruttiva a dipendenze e bisogni che sono radicati nell’imperfezione della dotazione organica e nella perdurante caducità della esistenza corporea (in modo più evidente nelle fasi infantili, patologiche e senili della vita). La regolazione normativa dei rapporti interpersonali può essere vista come un poroso involucro protettivo nei confronti delle contingenze cui sono esposti sia il corpo vulnerabile sia la persona in esso incarnata. Gli ordinamenti morali sono fragili costruzioni che proteggono simultaneamente entrambe le cose. Il fisico dalle offese esterne e la persona dalle offese interne o simboliche. Infatti quella soggettività attraverso cui il corpo umano diventa un recipiente animato dello spirito si forma a partire dalle relazioni intersoggettive con Altri. Il Sé dell’individuo può nascere soltanto lungo la via sociale dell’alienazione e può stabilizzarsi soltanto in un reticolo di rapporti di riconoscimento non danneggiati. Questa dipendenza che ci lega agli altri spiega anche la nostra reciproca vulnerabilità. La persona è esposta nella maniera più disarmata alle offese proprio nei rapporti in cui è dipendente per lo sviluppo dell’identità e la tutela dell’integrità (per esempio negli intimi rapporti di dedizione a un partner). Nella sua versione detrascendentalizzata, la “libera volontà” di Kant non rappresenta più una qualità degli esseri intelligibili che cade dal cielo. L’autonomia è piuttosto una precaria conquista di esistenze finite, le quali possono trovare una certa qual “forza” solo in riferimento alla loro vulnerabilità fisica e alla loro dipendenza sociale. Se questo è il “fondamento” della morale, allora diventa facile stabilire dei “confini”. Solo l’universo delle possibili relazioni e interazioni personali ha bisogno, ed è suscettibile, di regolazioni morali. Solo in questo reticolo di (disciplinati) rapporti di riconoscimento gli uomini possono sviluppare un’identità personale, mantenendola collegata alla loro integrità fisica».

Questa concezione della libertà individuale come riconoscimento del legame di dipendenza che ci unisce all’altro può costituire il punto di incontro di culture diverse e illuminare di luce nuova i temi della generazione. Penso ad esempio alla contrapposizione che resta così forte sulla possibilità del ricorso alle tecniche della fecondazione eterologa, negata dalla cultura cattolica perché mette in discussione la famiglia naturale e rende incerte le figure genitoriali in quanto non basate sul vincolo di sangue. Paradossalmente in questa posizione c’è un ritorno alla concezione della paternità e della maternità che riconosce nella consanguineità piuttosto che nella presa di responsabilità la verità dei rapporti familiari. Si tratta di un ritorno indietro rispetto alla cultura dell’adozione che, la stessa Chiesa, propone come alternativa al ricorso alla fecondazione assistita. Ma possiamo trovare uguale traccia di biologismo nelle scelte a volte così insistite della fecondazione artificiale che conferma piuttosto i valori di continuità, di somiglianza, di realizzazione personale.

Il motivo che spinge la coppia a preferire la fecondazione artificiale rispetto all’adozione o all’affido consiste innanzitutto nel mantenimento di un vincolo biologico. In altri termini è il valore della consanguineità che ritorna, con tutto il suo corollario di autoaffermazione, diffidenza verso l’estraneo, salvaguardia del certo e del noto.

Questo nostro tempo, questo nostro mondo con le sue ansie, fragilità, solitudini e disuguaglianze non ha bisogno di una famiglia biologica che si chiuda in se stessa ma ha bisogno di una «famiglia allargata» in cui la capacità di amore, di dono, di cura e di apertura ne siano il cemento. Avevamo detto, ad esempio, che una nuova cultura dell’infanzia deve superare quell’impronta proprietaria che lega gli adulti ai propri figli, perché, se vogliamo dare sicurezza ai nostri bambini e ragazzi dobbiamo imparare a essere padri e madri non solo dei «nostri» figli ma dei bambini e dei ragazzi che «incontriamo» nella nostra vita quotidiana.

Un altro fondamentale aspetto su cui aspro è stato lo scontro tra cultura cattolica e quella laica è la concezione della sacralità della vita che non ammette distinzioni tra vita prenatale e nato. Se lasciamo da parte, per un attimo, le nostre appartenenze, per guardare in profondità ai problemi che travagliano questo nostro mondo, potremmo renderci conto che quella contrapposizione è insensata. Perché in qualunque ambito della nostra vita e in qualunque angolo della terra, oggi, la questione che si pone è: come arrestare il processo di impoverimento della vita umana e come promuovere la rinascita della dignità umana. E allora è soprattutto la cultura laica a doversi porre come traino e motore di questo processo di rinascita della dignità umana. Perché è quella che sente maggiormente la responsabilità di tradurre quel principio – la dignità umana – in cambiamento concreto attraverso una reale azione di promozione.

Può esserci utile, a questo proposito, la distinzione suggerita da Habermas tra «dignità della vita umana» e «dignità dell’uomo». La prima è un principio morale che si traduce in un atteggiamento di amorevolezza verso ogni stadio ed espressione della vita umana, anche quando essa non si vede riconosciuta dei diritti, mentre la dignità dell’uomo è quella che viene giuridicamente garantita ad ogni persona. È evidente la continuità tra vita prenatale e vita dopo la nascita. Ed è crescente la consapevolezza che nessuna società civilizzata può permettersi di offendere l’integrità della vita umana prenatale. Ma questo non significa riconoscerle uno statuto giuridico come invece deve essere riconosciuto alla persona nata. «Il termine dignità suona appropriato in quanto copre uno spettro semantico assai ampio lasciando solo un’eco marginale al concetto più specifico di “dignità dell’uomo”. Da questi concreti modelli di dignità, volta a volta determinata, si innalza per astrazione universalistica una “dignità dell’uomo” che compete alla persona in quanto tale». Questa distinzione offre una bussola morale anche per affrontare le questioni della diagnosi preimpianto sugli embrioni per escludere la presenza di gravi malattie genetiche. In nome sia della «dignità umana» che della «dignità dell’uomo» sembra difficile escludere questa possibilità. Così come sembra difficile escludere l’utilizzo a scopo di ricerca scientifica degli embrioni sovranumerari.

Questi sono solo alcuni esempi per indicare un terreno di discussione che la politica dovrebbe avere l’ambizione di praticare. Per alzare lo sguardo oltre la siepe. Questo sguardo, sono certa, sarà femminile. Perché le donne hanno la responsabilità di elaborare quella esperienza unica che è la maternità – rimasta a lungo inesplorata e muta benché santificata – in un’etica pubblica che renda concreta la cultura del limite. Proprio quel limite che una madre sperimenta quando mette a disposizione tutta se stessa perché il figlio possa staccarsi da sé e diventare autonomo.

Perché, come scrive Silvia Vegetti Finzi, «l’esercizio del limite ci rende capaci di possesso senza sfruttamento, di potere senza dominio, di rinuncia senza abbandono, di responsabilità senza assoggettamento, un orizzonte di valori mai realizzato una volta per tutte ma evocato ogni qual volta un “nato di donna” muove i primi passi per allontanarsi da colei che lo sostiene». Questa cultura del limite, io credo, può darci la serenità e la misura per confrontarci con le domande più impegnative dell’esperienza umana.

 

 

 

Bibliografia

1 J. Habermas, Il futuro della natura umana, Einaudi, Torino 2001.