L'Argentina tra ristrutturazione del debito e tentazioni isolazioniste

Di Pier Carlo Padoan Giovedì 01 Aprile 2004 02:00 Stampa

Mai come nel caso dell’Argentina capire l’oggi e il domani richiede di tornare indietro nella storia recente. E questo vuol dire tornare all’inizio del currency board, per capire la ragione del suo insuccesso e, prima ancora, del suo successo. La «convertibilità» – il legame del peso con il dollaro al cambio di uno a uno e l’obbligo di copertura totale in dollari dell’ammontare di pesos in circolazione – fu introdotta all’inizio degli anni Novanta, dopo che una serie di programmi di stabilizzazione e di riforma monetaria non erano riusciti a sconfiggere l’iperinflazione del decennio precedente. I risultati dei primi anni di convertibilità furono eccellenti.

Ascesa e declino della «convertibilità»

Mai come nel caso dell’Argentina capire l’oggi e il domani richiede di tornare indietro nella storia recente. E questo vuol dire tornare all’inizio del currency board, per capire la ragione del suo insuccesso e, prima ancora, del suo successo.

La «convertibilità» – il legame del peso con il dollaro al cambio di uno a uno e l’obbligo di copertura totale in dollari dell’ammontare di pesos in circolazione – fu introdotta all’inizio degli anni Novanta, dopo che una serie di programmi di stabilizzazione e di riforma monetaria non erano riusciti a sconfiggere l’iperinflazione del decennio precedente. I risultati dei primi anni di convertibilità furono eccellenti. L’inflazione di fatto scomparve, i tassi di interesse crollarono, la crescita accelerò. Il paese beneficiò di un sostanzioso afflusso di capitale dall’estero, attratto, oltre che dalla ritrovata stabilità macroeconomica, dall’ampio programma di privatizzazioni. La crescita era sostenuta solo in parte dalle esportazioni (concentrate comunque nei prodotti dell’agricoltura) e in massima parte dalla domanda interna, pubblica e privata. La conseguenza di tutto ciò era però un indebitamento crescente, sia del settore privato che di quello pubblico, sopratutto nei confronti del resto del mondo, che, peraltro, si mostrava ben disposto a coprire il fabbisogno.

Un modello così strutturato, oltre a favorire quegli argentini che potevano indebitarsi all’estero, offriva un sostegno non indifferente al governo, anzi ai governi, del presidente Menem. Sia direttamente, in quanto permetteva una gestione della finanza pubblica apparentemente senza vincoli, sia indirettamente, in termini di popolarità presso quella parte della popolazione che dal nuovo quadro macroeconomico traeva i benefici di un tenore di vita certamente superiore a quanto si poteva permettere, come i fatti avrebbero poi dimostrato. Nulla cambiava invece per la parte più povera, i cui salari reali non crescevano, e che era colpita dalla disoccupazione nei settori danneggiati dal crescente apprezzamento del cambio.

E così, nell’Argentina della convertibilità di Menem e del suo ministro Cavallo, si ritrovarono a operare due meccanismi: un meccanismo virtuoso, in base al quale la stabilità garantita dalla convertibilità alimentava aspettative di ulteriore stabilità, e quindi l’afflusso di finanziamenti; e un meccanismo vizioso, in cui la (apparente) facilità con cui era possibile indebitarsi faceva lievitare il debito a un tasso superiore alla crescita del reddito, e produceva quindi una accelerazione del rapporto debito/prodotto.

Prima lentamente e poi più rapidamente il secondo meccanismo prese il sopravvento sul primo, fino a invertire la catena delle aspettative. Un debito sempre meno sostenibile ha, a un certo punto, alimentato la sfiducia sulla sostenibilità del regime di convertibilità, che è stato tenuto in piedi al costo di interessi crescenti, che riflettevano una valutazione del rischio sempre maggiore, che a sua volta accelerava la dinamica del debito. Il regime monetario ha così subito una inversione di centottanta gradi: da meccanismo generatore di benessere e di stabilità si è trasformato in trappola e poi in gabbia insostenibile, fino al suo abbandono.

 

I problemi storici dell’Argentina. Bassa crescita, poca apertura e alto debito

Ma la storia di un decennio non si può naturalmente racchiudere in una semplice formula. Dietro l’evoluzione del rapporto debito/prodotto ci sono i due giganteschi problemi dell’Argentina: la crescita e la finanza pubblica.

La crescita dei primi anni Novanta, come si diceva, era stata guidata dal miglioramento delle aspettative, indotto dalla introduzione della «convertibilità», che aveva sostenuto la domanda interna e incoraggiato gli investimenti degli argentini e delle imprese estere. Quella che è invece in gran parte mancata è stata la spinta delle esportazioni.

L’Argentina era, e rimane, uno dei paesi più chiusi al commercio internazionale del mondo (le esportazioni sono inferiori al 10% del prodotto, una cifra bassissima per un paese di quelle dimensioni). Inoltre, una parte rilevante del commercio estero si svolge con gli altri paesi del Mercosur, il Brasile innanzitutto. E se il Mercosur ha creato nuovo commercio, ha anche introdotto numerose distorsioni, spingendo la specializzazione in settori diversi da quelli di vantaggio comparato e penalizzando la competitività dell’industria manifatturiera. Inoltre, una elevata tariffa esterna ha reso l’accordo regionale particolarmente chiuso verso il resto del mondo. In una parola, nel caso dell’Argentina l’apertura commerciale non ha giocato quel ruolo di motore della crescita che invece ha segnato il successo di molte economie emergenti durante gli anni Novanta. Si deve comunque aggiungere che una responsabilità non piccola in questo senso va imputata all’Unione europea, la cui politica agricola impedisce un accesso appena ragionevole ai mercati europei dei principali prodotti di esportazione argentini.

La parità con il dollaro ha naturalmente rappresentato un freno rilevante alle esportazioni, che si è fatto sentire soprattutto nella seconda metà del decennio passato, quando l’Argentina ha dovuto subire il contemporaneo effetto negativo della svalutazione del real brasiliano, nel 1998, e dell’apprezzamento del dollaro. Ma l’apprezzamento del peso ha avuto anche altri effetti negativi sulla crescita. In primo luogo ha fatto lievitare le importazioni, sfavorendo lo spostamento di risorse verso settori esposti alla concorrenza internazionale. In secondo luogo, negli anni più recenti, il cambio fisso ha, come detto, fatto aumentare i tassi di interesse a livelli che sono arrivati a superare il 4%. In definitiva, la combinazione perversa della chiusura dell’economia e di una stringenza crescente delle condizioni monetarie e di cambio ha penalizzato sempre più la crescita, che negli anni dal 1999 al 2002 è sempre stata negativa.

 

L’indisciplina fiscale è stata più forte del vincolo monetario

Mentre il reddito diminuiva, lo stock di debito continuava ad aumentare. L’altro grande problema dell’Argentina è stata infatti una politica fiscale fuori controllo. In questo caso l’Argentina ha pagato la mancata soluzione di una debolezza politica e istituzionale prima ancora che economica. Gli anni di successo della convertibilità, che hanno reso possibile una condotta «allegra» della finanza pubblica, sono stati utili al governo Menem e ai governatori delle province per la gestione del consenso. Così, quando il ministro Cavallo venne richiamato nel 2001 a salvare la patria, tentò di mettere freno alla crescita del debito imponendo per legge una misura draconiana: il «deficit zero», la condizione che nessuna spesa potesse essere effettuata senza un corrispettivo di copertura dal lato delle entrate. Si trattava, in altri termini, di dotare di un pilastro fiscale la legge di convertibilità.

Con il senno del poi si è visto che il «deficit zero» non era sostenibile, per due ragioni fondamentali: la prima era l’estrema difficoltà a controllare le entrate fiscali in un sistema caratterizzato da una miriade di imposte sia a livello centrale che locale; la seconda era l’impossibilità di trovare un accordo politico con le province, per metà controllate dall’opposizione, sulla distribuzione dei sacrifici. Si potrebbe sostenere, e molti lo hanno sostenuto, che il «deficit zero» oltre a non essere sostenibile sul piano politico era anche sbagliato sul piano economico. L’austerità fiscale infatti avrebbe peggiorato, e non migliorato, le prospettive di crescita, aggravando ulteriormente l’andamento del rapporto debito/prodotto. Il piano di Cavallo aveva però una sua logica, la stessa che lo aveva portato all’introduzione della convertibilità un decennio prima. Si trattava di innescare nuovamente un circolo virtuoso di aspettative. Se l’aggiustamento fiscale avesse potuto invertire la dinamica del rapporto debito/prodotto avrebbe cambiato il sentimento dei mercati, che avrebbe portato a un graduale abbassamento dei tassi di interesse, che avrebbe liberato risorse, pubbliche e private, per una ripresa della domanda, alimentando le aspettative di una ripresa della crescita sostenibile.

 

Il «salto nel buio»

Un bel sogno, non c’è dubbio. Ma che è rimasto tale e a cui le autorità argentine, per buona parte del 2001, sono rimaste aggrappate anche quando era sotto gli occhi di tutti, come un «re nudo», che l’insieme di cambio fisso, debito crescente e politica fiscale fuori controllo costituivano un terzetto insostenibile e che qualcosa doveva cedere. Quando si suggeriva che a cedere sarebbe dovuto essere il cambio, magari con il passaggio alla dollarizzazione piena, da Buenos Aires non c’era risposta, perché, si diceva, la scelta non era tra un regime di cambio e un altro, ma tra la speranza che il sogno si realizzasse e l’incubo di un salto all’indietro nella storia, «prima della convertibilità».

Il sogno si è tramutato in un incubo alla fine del 2001, quando l’Argentina ha dichiarato la fine della convertibilità, l’abbandono della parità con il dollaro e la bancarotta su un debito di un ammontare senza precedenti (144 miliardi di dollari). Nei mesi successivi l’Argentina è entrata in una fase di grande incertezza, se non di vero e proprio caos, alimentata da una perdita di valore del cambio di tre volte rispetto alla parità con il dollaro, che ha comportato un analogo impatto negativo sul reddito disponibile, e che ha colpito sopratutto la parte più povera della popolazione. Quella che non aveva avuto la possibilità di accumulare all’estero la propria ricchezza in dollari. Il caos è stato istituzionale prima ancora che politico ed economico. E come spesso è accaduto nella storia, in un paese dove l’ancora monetaria va in frantumi e i debiti da onorare sono molto elevati si ricorre alle misure più diverse e quasi sempre controproducenti. Province, amministrazioni locali, perfino grandi centri commerciali hanno cominciato a emettere propri strumenti di pagamento (quasi-moneis) sia per rimborsare i fornitori, sia per pagare le tasse. La situazione è stata ulteriormente peggiorata dalla risposta fortemente dirigista del governo, che ha congelato i depositi, ma allo stesso tempo ha penalizzato il sistema bancario, cercando di favorire le imprese indebitate tramite una diversità di trattamento per la conversione da dollari a pesos per le voci dell’attivo e le voci del passivo delle banche, indebolendone notevolmente i bilanci. Tutto ciò ha innescato una fase di forte conflittualità politica e istituzionale, poiché sia i singoli cittadini che le banche si sono appellati alla Corte Costituzionale contro le decisioni del governo. Nel frattempo, la crescita ha continuato a rimanere negativa portando così a quattro anni consecutivi il periodo di contrazione del reddito, mentre la popolazione sotto la soglia di povertà ha superato il 50%.

 

I rapporti con il Fondo Monetario e con i creditori

Per tutto questo periodo i rapporti tra il governo argentino e il Fondo Monetario Internazionale si sono, di fatto, interrotti, principalmente a causa della crescente irritazione che l’atteggiamento del governo di Buenos Aires aveva provocato, ben prima della crisi, sia nel management del Fondo che in molti dei paesi industriali. Tale atteggiamento si manifestava nel prendere decisioni di politica economica senza alcuna consultazione con il Fondo, come richiesto per un paese che, come l’Argentina, beneficiava del finanziamento del Fondo medesimo e tenuto conto del fatto che, nella maggior parte dei casi, si trattava di decisioni che peggioravano il clima istituzionale, accrescevano la conflittualità, accrescevano l’instabilità finanziaria e non rispettavano i diritti di proprietà.

Per tutto questo periodo l’Argentina ha danzato sull’orlo del precipizio dell’iperinflazione, della svalutazione selvaggia e di un’ulteriore caduta del reddito; insomma, un ritorno alla situazione degli anni Ottanta. Se ciò non è avvenuto, è stato grazie a due fattori principali. Innanzitutto perché dopo la dichiarazione di bancarotta l’Argentina ha interrotto il pagamento degli interessi sul debito nei confronti di creditori internazionali (e anche di creditori argentini sui mercati internazionali), di cui una gran parte è detenuto da risparmiatori italiani. Ciò ha liberato, per l’Argentina, notevoli risorse che hanno permesso di sostenere la domanda, sia pubblica che privata. In altre parole, l’economia Argentina ha trovato e si trova in un equilibrio di «flusso» in quanto ha ignorato l’equilibrio di «stock» (e gli impegni che ciò implica). Il secondo fattore è stato il mutamento di atteggiamento da parte del FMI che, grazie alla continua azione di un numero limitato di paesi industriali, tra cui in primo luogo l’Italia (il sostegno dei paesi emergenti non è mai venuto meno), ha portato alla approvazione, nel dicembre 2002, di un programma temporaneo di sostegno che ha permesso la stabilizzazione delle aspettative, la ricostituzione di un minimo livello di fiducia e ha posto le basi per la ripresa successiva. Questo programma è stato fortemente criticato dalla comunità finanziaria internazionale e dai mercati privati, che hanno accusato, per bocca dei sui principali esponenti, sia il FMI che i G7 di aver concesso all’Argentina un riscadenzamento del debito nei confronti delle IFI (FMI, Banca Mondiale, Banche Regionali), mentre il servizio del debito nei confronti dei privati veniva sospeso.

 

La svolta nell’economia. E un nuovo governo

In ogni caso, nel 2003 l’Argentina ha voltato pagina. Invece di cadere nel baratro l’economia ha ripreso a crescere dopo quattro anni di contrazione, il cambio si è stabilizzato e l’inflazione ha cominciato a scendere. Inoltre, anche grazie a un miglioramento dei rapporti tra governo centrale e amministrazioni locali, le finanze pubbliche hanno invertito la tendenza al deterioramento, sia dal lato delle spese, sia sopratutto dal alto delle entrate. E, infine, è stato eletto un nuovo presidente. Ciò ha posto le condizioni per l’approvazione, sia pure con molte astensioni, nel settembre 2003, di un nuovo, più ambizioso programma con il FMI, di durata triennale, che affrontasse i veri nodi delle questione: la riforma del sistema bancario, della governance delle imprese, il riassetto del sistema delle utilities e, soprattutto, la ristrutturazione del debito.

Una condizione fondamentale per il successo di un programma di sostegno di un paese che ha dichiarato fallimento sul suo debito è che questo, una volta risolta la crisi, sia nuovamente sostenibile. Ciò richiede un mix di politiche di aggiustamento, sia macroeconomiche che strutturali, un finanziamento da parte delle istituzioni internazionali e una ristrutturazione del debito medesimo. Ma non esiste alcuna «formula magica» che stabilisca quale debba essere la combinazione tra questi tre elementi e su questo punto si è innescato il confronto politico, tuttora in corso, tra governo argentino, FMI e creditori privati. Il neoeletto presidente argentino Kirchner ne ha subito capito la portata e subito sfruttato il notevole beneficio di popolarità di un atteggiamento ostile nei confronti del Fondo e dei creditori privati, contrapponendo la «cupidigia» di questi ultimi ai drammatici problemi di povertà del suo paese. Questo atteggiamento si è tradotto in fatti il giorno dopo l’approvazione del programma del Fondo nel settembre 2003, quando il governo argentino ha proposto ai creditori di restituire il 25% del valore nominale del loro credito (che equivale a circa il 5% in termini di valore attuale). Ciò è stato, giustamente, ritenuto inaccettabile da parte dei creditori, non solo per la cifra ridicolmente bassa ma, soprattutto, per il rifiuto da parte argentina di intavolare una vera trattativa. Atteggiamento questo che, nei mesi successivi, non è mai stato smentito da parte argentina.

Un simile atteggiamento ha complicato inoltre i rapporti con il Fondo. Infatti, affinché il FMI possa prestare a un paese che ha dichiarato bancarotta su proprio debito, deve essere accertato che il paese in questione stia, allo stesso tempo, trattando «in buona fede» con i creditori. Che cosa significhi in pratica la presenza di «buona fede» è argomento complesso e ancora dibattuto, sopratutto nel caso di ristrutturazioni di debito internazionale. Ma è facile identificare una situazione in cui la «buona fede» è del tutto assente, quando il paese debitore rifiuta sistematicamente di riconoscere la legittimità delle controparti, cioè per esempio dei comitati di creditori (indispensabili per gestire un negoziato in nome, come nel caso italiano, di oltre 400.000 risparmiatori) e si rifiuti di fissare riunioni con tali rappresentanti. Intanto il tempo passa e il paese debitore continua a beneficiare della sospensione del pagamento degli interessi.

Il deterioramento dei rapporti con il Fondo e con i paesi creditori ha trovato un punto di massimo nel gennaio di quest’anno quando, in occasione dell’approvazione della prima review del programma del Fondo, otto paesi, tra cui l’Italia, si sono astenuti in quanto, malgrado le prospettive dell’economia e del bilancio pubblico del paese continuassero a migliorare, non si erano registrati progressi nei negoziati sul debito. Successivamente le autorità argentine hanno mostrato un atteggiamento più flessibile e si sono dette disposte ad avviare negoziati in buona fede. Ma solo nei prossimi mesi si vedrà se questo potrà portare a una conclusione positiva dei medesimi.

 

Le scelte di fronte all’Argentina

La vera scelta che l’Argentina e il suo popolarissimo presidente si trovano di fronte non è se restituire tanto o poco alle centinaia di migliaia di risparmiatori italiani, giapponesi o tedeschi. La vera scelta è tra una politica di sviluppo e di ricostruzione basata su relazioni costruttive con i paesi industriali e su una rinnovata fiducia dei mercati e una politica isolazionista e di rottura, nella illusione che accordi regionali e bilaterali, con il Brasile o con il Venezuela di Chavez siano sufficienti a riportare il paese ai livelli di benessere dei primi anni Novanta, quando il regime di convertibilità ancora non era stato inquinato dalla indisciplina fiscale.

Ciò che conta per il futuro dell’Argentina non è tanto quante risorse saranno destinate ai creditori, ma se il governo di Buenos Aires intende condurre le trattative in buona fede e con trasparenza. Se ciò non avvenisse le prospettive di ritorno sui mercati sarebbero procrastinate sine die e, paradossalmente, la scelta isolazionista ne sarebbe compromessa. Un atteggiamento non costruttivo nei negoziati genererebbe una reazione negativa sui mercati nei confronti dei paesi dell’America Latina nel loro complesso e questo ne farebbe inevitabilmente crescere il costo di indebitamento, che rifletterebbe un «rischio di contagio politico». Non è un caso che a essere molto preoccupato per la condotta dell’Argentina sia il Brasile, un grande paese con un enorme debito, che deve fare quotidianamente i conti con le valutazioni di mercato per potere rifinanziare il suo gigantesco fabbisogno, e che sta conducendo, con successo, una politica fiscale molto più severa di quella Argentina, pur affrontando, sempre con un certo successo, i problemi sociali che affliggono il paese.

E se l’Argentina non torna sul mercato, ironia della sorte, la sua dipendenza dal Fondo Monetario e dalle altre istituzioni internazionali aumenterà invece di diminuire. Perché sostenere la crescita e combattere la povertà richiedono risorse che l’Argentina, purtroppo, non può trovare unicamente al suo interno.