Il buon esempio delle primarie democratiche

Di Gianfranco Pasquino Giovedì 01 Aprile 2004 02:00 Stampa

All’inizio dell’autunno 2003 nessuno dei corrispondenti italiani dagli Stati Uniti, la maggior parte dei quali competenti e brillanti, rinunciò a scrivere una serie di accorati articoli su «Biancaneve e i sette nani», anche incoraggiato dai commenti della stampa statunitense. Naturalmente, Biancaneve era la senatrice democratica dello Stato di New York Hillary Rodham Clinton e i sette nani i candidati democratici che si apprestavano a entrare nella kermesse delle primarie. Biancaneve li avrebbe guardati con occhio incuriosito e persino affettuoso, e poi sarebbe «scesa in campo» lei stessa per evitare il disastro del Partito democratico.

 

All’inizio dell’autunno 2003 nessuno dei corrispondenti italiani dagli Stati Uniti, la maggior parte dei quali competenti e brillanti, rinunciò a scrivere una serie di accorati articoli su «Biancaneve e i sette nani», anche incoraggiato dai commenti della stampa statunitense. Naturalmente, Biancaneve era la senatrice democratica dello Stato di New York Hillary Rodham Clinton e i sette nani i candidati democratici che si apprestavano a entrare nella kermesse delle primarie. Biancaneve li avrebbe guardati con occhio incuriosito e persino affettuoso, e poi sarebbe «scesa in campo» lei stessa per evitare il disastro del Partito democratico. Adesso sappiamo (ma era, almeno in parte, possibile prevederlo anche allora) che i nani non erano affatto tali e che Biancaneve non ha avuto bisogno di accelerare impropriamente la sua eventuale corsa alla Casa Bianca. Sappiamo tutto questo con sicurezza quasi esclusivamente grazie alle elezioni primarie tenutesi nel Partito democratico; e avremmo dovuto saperlo anche prima, attraverso una adeguata riflessione politologica.1 Le primarie, come non vogliono capire i troppi oppositori italiani a questo metodo democratico e partecipato di selezione della leadership(ma forse, ammaliati dai giochini dei partiti nostrani, non lo capiscono davvero), svolgono molte funzioni, tutte positive, sia per il partito che le tiene sia per il sistema politico in cui si tengono.

La prima funzione delle primarie è quella esplicita, costitutiva: scegliere il candidato alla carica per la quale si è reso possibile, utile, necessario consentire all’elettorato di esprimersi direttamente e decisivamente. Infatti, le primarie si possono anche non tenere; ad esempio, quando il detentore della carica è un politico, un rappresentante o un governante del quale il partito e gli elettori danno un giudizio positivo. Nessuno (o quasi) sfiderebbe un presidente, un senatore, un governatore o un rappresentante in carica che abbia svolto il suo lavoro mediamente bene, rappresentando e governando. Sarebbe un suicidio politico per chi lo fa e indebolirebbe il detentore della carica – l’incumbent – a favore dello sfidante dell’altro partito. Purtroppo, fu questo il caso della sfida che nel 1980 il senatore democratico del Massachusetts Ted Kennedy lanciò contro il presidente democratico Jimmy Carter. Per quanto bene intenzionata fosse stata quella sfida «liberal», sostenuta da una cospicua parte dei delegati democratici, il risultato fu un indebolimento di un presidente già in difficoltà e alla fine, con l’aiuto di Khomeini (che non rilasciò gli ostaggi), contribuì a consegnare la Casa Bianca al repubblicano Ronald Reagan. Quest’anno i repubblicani non terranno primarie, essenzialmente perché non necessarie, ma anche  perché, comunque, hanno abitualmente dimostrato maggiore saggezza dei democratici nel non indebolire il loro presidente.

Scegliere un candidato presidenziale significa, anzitutto, cercare di capire quali qualità politiche e personali abbiano gli aspiranti al ruolo. Tocca a costoro mettere in mostra le loro qualità e agli elettori – che nelle primarie sono inevitabilmente un gruppo autoselezionatosi, per quanto composto da almeno una decina di milione di persone che hanno maggiore interesse per la politica, migliori informazioni, la convinzione di sapere e dovere – scegliere, valutando le qualità dei «presidenziabili». Cosicché le primarie svolgono anche una seconda importante funzione, quest’anno assolutamente essenziale per i democratici: sollecitare e mobilitare un elettorato, in special modo se politicamente attento e consapevole, che attualmente è particolarmente depresso e preoccupato a fronte di uno dei presidenti USA più conservatori e più brutali. Questo obiettivo è stato sicuramente conseguito, a giudicare dall’affluenza alle primarie e dall’interesse che hanno riscosso. Semmai, si potrebbe aggiungere che prima il vantaggio e poi il successo di John F. Kerry hanno finito per fare calare un po’ la tensione in maniera imprevedibilmente prematura, tanto che il problema attuale dei democratici è come rimanere sulla «cresta» dei mass media fino alla Convenzione democratica che si terrà a Boston alla fine di luglio. Per fortuna la stagione delle primarie non è terminata. Una delle modalità per tenere alta l’attenzione è rappresentata, comprensibilmente, dalla discussione su chi abbia le qualità migliori per ottenere il ruolo di vicepresidente. L’incertezza alimenta l’interesse e, dunque, deve essere protratta ancora un po’, anche per l’effettiva importanza che la scelta riveste nella strategia democratica e nella conquista dell’elettorato cruciale degli Stati del Sud. Inoltre, i democratici hanno un elettorato più composito e meno coeso dei repubblicani e debbono, di conseguenza, procedere a un delicatissimo gioco di equilibri nella rappresentanza e nell’immagine del ticket (l’accoppiata) presidente/vicepresidente.

Poiché le primarie servono a valutare la qualità dei candidati, è logico che alcuni candidati escano di scena abbastanza rapidamente: è stato il caso del vecchio, ma tutt’altro che disprezzabile, politico di professione Bob Gephardt (se non riesce a vincere neppure nel caucus dell’Iowa, dove i politici di professione hanno molte possibilità di influenzare l’esito, allora è giusto che abbandoni la corsa, come ha fatto). Appena più sorprendente è stata la sorte dell’ex-governatore del Vermont Howard Dean che, ugualmente, è durato poco, ma ha dato dimostrazione di alcune importanti potenzialità che una candidatura seria può tradurre in pratiche politiche. Anzitutto, è stato il primo a risvegliare il partito e, in special modo, quella frazione di giovani che, nei democratici, hanno spesso avuto un ruolo trainante, ma anche fuorviante. In secondo luogo, ha messo in rilievo l’esistenza di una miriade di piccoli finanziatori sui quali i democratici possono fare affidamento con una campagna elettorale che, come Dean ha evidenziato, può finalmente sfruttare tutte le opportunità finora inesplorate della telematica e di Internet (scherzosamente, una variante di girotondi made in USA). In terzo luogo, certamente in maniera involontaria, Dean ha anche consentito ai democratici, quelli interessati, informati e desiderosi di contare, di capire e di dimostrare che è possibile rinsavire. Se nel passato, e non soltanto nel 1980 ma anche nel drammatico 1968, quando le lotte interne e le purezze ideologiche condannarono la candidatura del pur nobilissimo politico riformista Hubert Humphrey (a fronte, ahinoi, del vecchio avvocato furfante Richard Nixon), gli attivisti democratici hanno formulato la terminologia giusta. Dean ha svolto soddisfacentemente il suo compito,  ma il candidato che le primarie finiranno per lanciare dovrà essere electable. Questo significa che deve rappresentare non soltanto un punto di vista largamente condivisibile, ma anche largamente condiviso dall’elettorato delle primarie, dall’elettorato già democratico e dall’elettorato potenzialmente democratico, vale a dire acquisibile dai democratici. Le primarie hanno dunque potentemente contribuito al rinsavimento dei democratici.

La terza funzione delle primarie, in particolare di quelle presidenziali, consiste nella critica all’incumbent, al presidente in carica. Naturalmente, critiche alla politica/alle politiche del presidente sono abitualmente fatte anche in alcune sedi apposite, come nel Congresso. Non pochi rappresentanti e non pochi senatori democratici, fra i quali Kerry più di Edwards, hanno formulato critiche precise, argomentate, specifiche. Tuttavia, come sa chiunque studi e conosca i parlamenti, quanto viene espresso in quelle sedi rimane spesso materia per gli addetti ai lavori, se non ha caratteristiche di spettacolarità. E le primarie sono anche spettacolo (lo spettacolo buono della politica) e offrono un palcoscenico visibile e «notiziabile», che opportunamente i candidati sfruttano perché le loro critiche hanno così risonanza sia nell’elettorato, in questo caso democratico, sia, più in generale, nell’elettorato statunitense. Proprio criticando in maniera argomentata il presidente, i candidati definiscono almeno in parte il loro profilo personale e politico e, per approssimazioni successive, programmatico. Infatti, la quarta funzione delle primarie consiste nella necessaria e graduale, ma significativa proposizione programmatica di temi e di soluzioni. A seconda degli Stati e degli interessi prioritari di quegli Stati che, una volta ottenuta la nomination, il candidato dovrà cercare di vincere uno per uno, i candidati debbono trovare il tema giusto, il tono appropriato, la proposta convincente, sapendo perfettamente che anche i mass media li riterranno responsabili di quanto hanno detto, promosso e promesso. Le primarie offrono altresì la possibilità di collaudare il messaggio programmatico generale e/o particolaristico, facendo appello a pubblici selezionati ovvero indifferenziati e, quando i quadri del partito e gli attivisti sono bravi, consentono di sondare le reazioni degli elettori e non soltanto di quelli democratici.

La reazione complessiva, come è possibile valutarla a questo stadio, in mezzo al cammino delle primarie, è che l’elettorato democratico ha risposto in maniera positiva. Ha capito quali candidati, per quanto apprezzabili come Dean e come il generale Wesley Clark, avevano un consenso comunque, per ragioni diverse, ristretto e non sufficiente. Il generale, per di più, non aveva alcuna competenza specifica di rappresentanza e di governo, e questa carenza lo ha reso rapidamente inadeguato agli occhi degli elettori democratici. Infine, e in maniera decisiva, l’elettorato democratico, ma anche l’opinione pubblica democratica, hanno potuto rendersi conto che, in effetti, soltanto Kerry ed Edwards godevano della qualità, fondamentale in questa fase della storia USA e del partito democratico: l’electability. Insomma, è corretto sostenere che, più di molte precedenti esperienze, le primarie democratiche hanno svolto con successo il compito delimitato (ma fondamentale) che gli è stato assegnato dalla politica: scegliere bene un candidato capace quantomeno di entrare in competizione, e con molte chances di vincere contro il presidente repubblicano. Il partito democratico non è uscito lacerato dalle primarie, come era avvenuto nel passato. Piuttosto, ne è stato rafforzato e persino valorizzato grazie alla dimostrazione delle numerose qualità dei suoi candidati, anche di quelli che sono usciti di scena.

Due considerazioni, che fanno i conti con le molte critiche rivolte anche negli USA al sistema delle primarie, meritano di essere aggiunte. Naturalmente, i soldi hanno contato nelle primarie, e ancora di più conteranno nell’elezione presidenziale, ma Kerry non ha vinto esclusivamente perché era il candidato meglio finanziato. Al contrario, è plausibile sostenere che, proprio come conseguenza della considerazione concernente l’electability, i grandi finanziatori democratici si sono spostati su Kerry essenzialmente quando il senatore del Massachusetts ha dimostrato di essere diventato meritatamente il front runner. La seconda considerazione attiene al ruolo dei media che spesso, nel passato, avevano non favorito, quanto piuttosto danneggiato alcune candidature, e in particolare dei democratici. Almeno fino a questo momento, i candidati democratici hanno ottenuto, o meglio hanno saputo conquistarsi sui mass media, uno spazio adeguato non legato agli scandali, veri o presunti (nonostante l’impegno dei repubblicani a trovarne e fabbricarne), ma piuttosto grazie alle loro posizioni e affermazioni politiche.

La lezione complessiva delle primarie USA del 2004 – tenendo presente che ciascuna campagna delle primarie ha anche una sua storia specifica, come ad esempio la campagna del 2000 caratterizzata dall’assenza di un vero e proprio incumbent – è che il sistema ha funzionato. In special modo, i democratici sono riusciti a farlo funzionare con una combinazione di virtù e di fortuna. Alla luce di questo esito concreto, ma anche della teoria precipuamente democratica che ispira le primarie, non esiste nessuna ragione per la quale, automaticamente, sia accettabile che qualcuno sostenga con grande sussiego che le primarie vanno bene soltanto per gli Stati Uniti. Senza tenere conto del fatto che le primarie per la scelta del candidato presidente si sono tenute da lungo tempo, fra l’altro, anche in Argentina e, dopo il ritorno alla democrazia, in Cile. Il punto da sottolineare è che le primarie consentono di saggiare non soltanto la popolarità, ma anche le qualità e i meriti dei candidati. Pertanto, elezioni primarie condotte con saggezza costituiscono il primo, lungo passo verso la conquista della carica desiderata. Tutti gli altri metodi finora noti e sperimentati appaiono comunque meno validi, meno efficaci e – considerazione nient’affatto marginale – di gran lunga meno democratici.

 

 

Bibliografia

1 Cfr. D. Campus e G. Pasquino, USA: elezioni e sistema politico, Bononia University Press, Bologna 2003.