I modelli di politica economica dei politici italiani

Di Ferdinando Targetti Giovedì 01 Gennaio 2004 02:00 Stampa

Tra gli economisti di tutte le università del mondo le posizioni keynesiane si identificano con posizioni di sinistra, le posizioni neoclassiche con posizioni più conservatrici. Nella politica italiana le cose stanno in modo diverso: nella Casa delle Libertà albergano due posizioni, una delle quali, la più moderata, si potrebbe chiamare «keynesiana di destra». Anche nell’Ulivo albergano due posizioni, una delle quali, la più moderata, si potrebbe definire «neoclassica di sinistra». Per illustrare i capisaldi di queste posizioni focalizzeremo la nostra attenzione sui tre tradizionali attori della political economy: imprese, lavoratori e Stato.

 

Tra gli economisti di tutte le università del mondo le posizioni keynesiane si identificano con posizioni di sinistra, le posizioni neoclassiche con posizioni più conservatrici. Nella politica italiana le cose stanno in modo diverso: nella Casa delle Libertà albergano due posizioni, una delle quali, la più moderata, si potrebbe chiamare «keynesiana di destra». Anche nell’Ulivo albergano due posizioni, una delle quali, la più moderata, si potrebbe definire «neoclassica di sinistra». Per illustrare i capisaldi di queste posizioni focalizzeremo la nostra attenzione sui tre tradizionali attori della political economy: imprese, lavoratori e Stato.

La posizione «keynesiana di destra» individua i limiti alla piena occupazione e alla crescita economica (sia per l’Italia, sia per l’Europa nel suo insieme) nell’operare dei lavoratori e dello Stato. L’economia ristagna perché le imprese, che di per sé funzionano benissimo, sono vincolate da troppe tasse e da troppo sindacato. Nel mercato del lavoro esistono delle rigidità che sono date dalla legislazione sul lavoro in Italia e dai sussidi di disoccupazione in Europa. Rimuovere queste rigidità significa spostare a destra la curva di offerta di lavoro. Ma questa politica non è sufficiente e a essa va abbinata la politica di spostare la curva della domanda di lavoro. Come? Con una politica di riduzione delle imposte sulle famiglie e sulle imprese che induca un aumento della domanda di beni di consumo e di investimento. Nel medio periodo lo Stato deve ridurre sia la spesa pubblica che le imposte, ma nei periodi, anche prolungati, di ciclo avverso deve ridurre soprattutto le imposte e lasciare il bilancio pubblico in deficit. Sia in Italia, sia in Europa quest’ultima politica non è attuabile a causa della camicia di forza rappresentata dal Patto di stabilità, che andrebbe modificato se non rimosso. In buona sostanza quello descritto è il modello del keynesismo americano alla Modigliani, a cui aderisce, anche per formazione accademica, il viceministro dell’economia Mario Baldassarri. (Modigliani era anche favorevole a una riforma dello statuto e della politica della BCE, in quanto l’attuale stato di cose imponendo esclusivamente un target anti-inflazionistico comporta una politica monetaria europea tendenzialmente meno in grado, rispetto a quella americana, di accompagnare la crescita dell’economia).

All’interno del centrodestra italiano esiste una versione estrema di quella qui descritta, che chiamerei, usando un ossimoro, di «liberismo autarchico»: è il modello Bossi-Tremonti. Come il modello precedente, anche questo individua nel lavoratore il villano della commedia e nell’impresa la principessa della favola, solo che la principessa è piccola e fragile (la sorella maggiore è brutta e in declino) e chiede protezione al principe. Fuor di metafora il motore dell’economia italiana è la piccola impresa, che non solo abbisogna di protezione contro sindacati e tasse, ma anche contro la concorrenza estera. La difesa dalla concorrenza estera, non potendo più – con rammarico – essere offerta dalle svalutazioni competitive si deve concretizzare in barriere tariffarie e doganali. Questa impostazione, rispetto alla precedente, ha un più marcato connotato di classe. Infatti non è tanto l’impresa, il capitale a essere oggetto di protezione, ma il proprietario dell’impresa, il capitalista. In quest’ottica si comprendono le più significative misure economiche del governo Berlusconi: l’abolizione dell’imposta ereditaria sui grandi patrimoni, l’abolizione del falso in bilancio (che tutela l’amministratore infedele a danno dell’impresa e del mercato), i condoni nei confronti degli evasori fiscali e degli esportatori di capitali (il cui agire impoverisce patrimonialmente l’impresa), la riduzione delle maggiori aliquote sui redditi personali a fronte di un aumento delle aliquote sul reddito di nuovi investimenti finanziati con patrimonio di impresa e da ultime, ma prime per importanza quantitativa, le agevolazioni fiscali che non si sono concretizzate in rafforzamento patrimoniale delle imprese, ma in sgravi fiscali per consumi dei proprietari delle imprese medesime.

Il modello egemone all’interno dell’Ulivo è invece quello che ho chiamato «neoclassico di sinistra». I limiti dell’economia italiana vanno ricercati nello Stato e nelle imprese. Per decenni l’Italia ha accumulato deficit che si sono tradotti in un rapporto debito pubblico/PIL da periodo bellico, che è la principale palla al piede dello sviluppo economico italiano. L’alta propensione al deficit è derivata nel nostro paese da un deficit democratico: la conventio ad escludendum di un terzo dell’elettorato, e la mancanza di alternanza politica al governo del paese e la politica consociativa che ne derivava induceva a rendere compatibili gli interessi contrapposti nella società con l’inflazione (alla Hirshman) negli anni Settanta e con il debito pubblico dagli anni Settanta agli anni Novanta. Un sistema previdenziale particolarmente generoso e un fisco altamente tollerante nei confronti dell’evasione si iscrivono in questa politica. Per fronteggiare questa fattispecie di «fallimento dello Stato», la politica adeguata è quella dell’autoimposizione di vincoli istituzionali, che nella recente storia economica italiana sono stati: l’adesione allo SME e l’autoimposizione di cambi fissi, la separazione del Tesoro dalla Banca d’Italia e l’impossibilità di finanziamento monetario dei disavanzi pubblici, l’adesione all’euro e conseguentemente al Trattato di Maastricht prima e al Patto di stabilità poi, che significano la rinuncia sia a una politica monetaria autonoma, sia a una politica di bilancio in disavanzo. Questa politica fu inizialmente elaborata in Italia dalle forze politiche di centro e in particolare da Mario Monti, da Tommaso Padoa Schioppa, da Nino Andreatta e soprattutto dal governatore Ciampi. Negli anni Novanta essa fu fatta propria dalla leadership politica del centrosinistra.

I limiti dell’economia italiana per il modello «neoclassico di sinistra» non sono tuttavia rinvenibili solo sul fronte dello Stato, ma anche sul fronte delle imprese. Su questo terreno si manifesta un «fallimento del mercato», nella carenza di concorrenza e nella carenza di capacità innovativa del sistema delle imprese. Il deficit concorrenziale riguarda tutti i settori: le piccole imprese che godono, rispetto alle grandi, di una legislazione sul lavoro più blanda e di una amministrazione tributaria più corriva; le grandi imprese che godono di generose commesse pubbliche, generosi ammortizzatori sociali e generosa politica bancaria; le imprese commerciali e bancarie protette dalla concorrenza estera; le imprese agricole protette come in tutta Europa; le professioni, il settore più protetto di tutti dalla collusione offerta dagli albi professionali. A fronte di questo «fallimento del mercato» lo Stato deve intervenire con liberalizzazioni e privatizzazioni. All’epoca del centrosinistra la politica delle liberalizzazioni si è manifestata con la creazione di Autorità indipendenti e con le leggi sulla liberalizzazione del commercio. Le massicce privatizzazioni degli anni Novanta avrebbero dovuto contribuire, oltre che a ridurre il debito pubblico, cosa che è avvenuta, anche a iniettare concorrenza nel settore delle imprese facendo nascere una nuova imprenditorialità, cosa che invece non si è verificata quasi per nulla.

L’altro «fallimento di mercato», come si affermava in precedenza, è individuato nella carenza di capacità innovativa delle imprese: sottopatrimonializzazione e nanismo essendone le cause. A fronte di questo deficit la politica individuata è quella fiscale, che, soprattutto nell’ottica del ministro Visco, deve avere non solo finalità di gettito, ma anche finalità allocative: l’abolizione dell’imposta patrimoniale sulle imprese, l’inclusione degli interessi nella base imponibile dell’IRAP e l’agevolazione alla patrimonializzazione implicita nella DIT sono i principali esempi in tal senso. L’impianto neoclassico si registra anche nelle politiche per il lavoro, che non sono impostate keynesianamente in termini di spostamento della domanda aggregata, ma in termini di spostamento lungo la domanda di lavoro. Un esempio è dato dai sussidi alle imprese (meridionali) che assumevano lavoratori. Il disegno di questo modello non è completo se, come in ogni buon modello pigouviano, l’aspetto allocativo non viene integrato con quello distributivo. L’obiettivo di modifica della politica di welfare non è tanto quello di rendere più elastico il mercato del lavoro, quanto quello di ridistribuire i benefici tra cittadini dalle diversi protezioni. L’esempio più rilevante è quello della ricomposizione della spesa sociale, della necessità di ridurre la quota della previdenza a favore dell’assistenza (Paolo Onofri), i privilegi dei padri a favore dei figli (Nicola Rossi). In sintesi il modello «neoclassico di sinistra» usa l’intervento dello Stato per fini di riallocazione microeconomica in presenza di due rilevanti fallimenti di mercato (debole concorrenza e debole innovatività) e per finalità equitative (trasferendo tutele dagli insider agli outsider), sotto il vincolo del pareggio di bilancio. Le politiche keynesiane sono rifiutate sia a livello europeo, sia e soprattutto a livello italiano, dopo la manifestata incapacità del nostro sistema politico di contenere il debito pubblico.

All’interno del centrosinistra è presente un ulteriore modello, che con quello qui descritto non ha parentele: è il modello sindacale, a cui aderisce la parte più di sinistra dello schieramento politico dell’Ulivo. Questo modello è speculare rispetto a quello del «liberismo autarchico», individuando nel lavoratore il soggetto da tutelare. Per capirne il messaggio ultimo conviene confrontare la politica dell’occupazione dei vari modelli descritti. Per il «neoclassico di sinistra» l’occupazione può essere aumentata da sussidi all’occupazione se è un problema di costi oppure, se l’impresa non ha più speranze, il lavoratore che perde il posto deve essere assistito e riconvertito per consentirgli di sfruttare altre occasioni di mercato. Per il modello «keynesiano di destra» l’aumento dell’occupazione è ottenuto dal combinato disposto di salari reali più bassi (flessibilità dell’offerta di lavoro) e da una domanda di merci più elevata (bilancio pubblico in deficit). Per il modello sindacale la politica dell’occupazione è ottenuta invece con la difesa del singolo posto di lavoro. Per questa impostazione non è concepibile che un’impresa esca dal mercato per il solo fatto che le merci che produce non sono più domandate dal mercato stesso. Il recente caso dell’Alfa di Arese ne è un esempio. Se gli imprenditori disponibili non sanno innovare il modo di fare l’automobile, qualcun altro riempia questo vuoto (lo Stato? i lavoratori?) e inizi a costruire nuove auto all’idrogeno.

Questa impostazione, che fa gravare tutta la responsabilità della mancanza di crescita di reddito e occupazione sull’impresa, risulta però inaccettabile perché il fallimento di un’impresa non è un fallimento di mercato, purché le risorse liberate dall’impresa in declino si rendano disponibili ad altre che si sviluppano e purché il lavoratore-cittadino non sia espulso per sempre dal mercato del lavoro e non soffra drastiche cadute di reddito. Come va rifiutato il modello della tutela del posto di lavoro, va anche rifiutato il modello di «liberismo autarchico». La ratio di quel modello è quella che è stata definita la «via lassista allo sviluppo», che consiste nell’idea che un maggiore laissez faire concesso ai prosperi proprietari di piccole imprese, un rilassamento delle regole giuridiche e di mercato, che sono viste come i «lacci di Gulliver», possano significare di per sé accumulazione di capitale e sviluppo. Le vicende economiche dei primi tre anni del governo Berlusconi sono un esempio della inconsistenza di questo assunto.

Che dire degli altri due modelli? Di essi va fatta una sintesi. Il modello «neoclassico di sinistra» va mantenuto come guida di politica economica a livello di paese e in particolar modo del nostro paese, ma va rifiutato a livello europeo. Infatti: a) non esiste correlazione tra i disavanzi dei bilanci pubblici dei paesi europei e la robustezza della moneta comune, come dimostrato dal rafforzamento dell’euro di questi giorni, l’andamento euro/dollaro dipendendo invece da un complesso intreccio di svariati fattori: le relative posizioni delle bilance dei pagamenti, i differenziali dei saggi di interesse e le aspettative di crescita delle due economie; b) la maggior disoccupazione e la minor crescita dell’economia europea rispetto a quella americana non è dovuta dalla maggiore rigidità dei mercati europei, ma dalla maggiore rigidità delle politiche europee (monetarie della BCE negli anni Ottanta, e fiscali del Patto di stabilità negli anni Novanta), come è dimostrato in questi mesi dall’efficacia sulla ripresa ciclica dell’economia americana sia della politica monetaria della FED, sia dalla politica di deficit spending dell’Amministrazione Bush, in contrasto con la stagnazione dell’economia europea. Dal 2000 al 2003 negli Stati Uniti si è passati da un avanzo di 1,5% di PIL a un disavanzo del 5,5%, mentre in Europa ci si è attestati su un incremento medio del disavanzo di meno di due punti percentuali; a questo aggiungasi che i saggi di interesse americani sono la metà di quelli europei. La misera ripresa europea dell’1,5% per il 2004 (che ha ancora un segno negativo dello 0,3% nell’ultimo trimestre 2003), contro una ripresa americana così invidiata che si prevede sarà del 4% nel 2004 (dell’8% nell’ultimo trimestre 2003) non ha nulla a che fare con la mancata riforma delle pensioni in Europa o con la presenza di sussidi di disoccupazione, ma con la politica economica che gli Stati Uniti possono e vogliono realizzare e noi europei non possiamo perché non vogliamo realizzare, mentre potremmo farlo con adeguate riforme.

I fatti di questi giorni stanno a dimostrare che l’Europa, ora che dispone di un’unica politica monetaria comune, ha anche bisogno di un bilancio pubblico comune. Un bilancio pubblico che non solo sia in futuro chiamato a finanziare l’offerta di beni pubblici (la difesa comune), che non solo svolga funzioni redistributive (magari diverse dalle attuali politiche agricole e di sviluppo territoriale), ma che svolga anche funzioni anticicliche o meglio di ancoraggio delle aspettative di crescita del mercato. Oggi questo non è possibile, perché il bilancio pubblico europeo deve essere in pareggio per legge, né esiste un’autorità che possa emettere titoli di debito pubblico europeo. La fuoriuscita dall’impasse della sospensione della validità del Patto di stabilità in cui si sono trovati a fine novembre la Commissione e il Consiglio, contrapposti sulle sanzioni da comminare a Francia e Germania, non è immaginabile né ripristinando un Patto che si è dimostrato inadatto ad affrontare i problemi della macroeconomia, né lasciando a ogni paese la totale discrezionalità della sua politica di bilancio e della sua politica del debito pubblico. La soluzione dovrebbe invece consistere nell’imporre regole ai singoli paesi, che conducano nel tempo i singoli paesi a valori di debito/PIL non dissimili gli uni dagli altri, e nel creare un’autorità europea che gestisca un bilancio pubblico, dotata di entrate proprie e che possa svolgere una politica di emissione di titoli di debito pur soggetta alla regola aurea di esclusivo finanziamento degli investimenti pubblici. Si tratterebbe di reagire alla rottura del Patto non già con un arretramento che si avrebbe qualora si passasse da Trattati con regole valide erga omnes ad accordi variabili secondo alleanze politiche mutevoli e instabili, né con la resurrezione di un Patto rigido che si è rotto di fronte all’incalzare degli eventi economici, ma con un passo in avanti verso un assetto più federalistico sul piano delle istituzioni che governano la politica economica europea.