Siamo davvero alle «invasioni barbariche»? In tema di fecondazione assistita

Di Paola Marion Giovedì 01 Gennaio 2004 02:00 Stampa

La recente approvazione al Senato della legge sulla fecondazione assistita ha riproposto alla ribalta dell’opinione pubblica un tema ad alto impatto emotivo e psicologico per il riflesso che esso ha sulle coscienze e sulla sfera privata di ognuno di noi. Il lungo vuoto legislativo prima e il lacerante dibattito poi seguito alla sua approvazione, non sono solo conseguenza del conflitto tra ragioni della scienza e ragioni della morale e della difficoltà di ricomporre posizioni diverse su un tema così spinoso e delicato, ma rappresentano, a un altro livello, anche la spia di una reazione più profonda ed emotiva, che riguarda l’effetto delle innovazioni tecnologiche sulla psicologia degli individui.

 

La recente approvazione al Senato della legge sulla fecondazione assistita ha riproposto alla ribalta dell’opinione pubblica un tema ad alto impatto emotivo e psicologico per il riflesso che esso ha sulle coscienze e sulla sfera privata di ognuno di noi. Il lungo vuoto legislativo prima e il lacerante dibattito poi seguito alla sua approvazione, non sono solo conseguenza del conflitto tra ragioni della scienza e ragioni della morale e della difficoltà di ricomporre posizioni diverse su un tema così spinoso e delicato, ma rappresentano, a un altro livello, anche la spia di una reazione più profonda ed emotiva, che riguarda l’effetto delle innovazioni tecnologiche sulla psicologia degli individui.

Non si vuole entrare nel merito della legge approvata, ma – all’interno di un dibattito che, sulle colonne di questa rivista, ha ospitato posizioni articolate e di confronto1 – offrire alcuni spunti, che sono il risultato dell’approccio psicoanalitico, come contributo alla riflessione sul tema in questione. Per inciso va detto che in tale occasione si è vista all’opera con particolare fervore una deriva psicoanalitica, in cui concetti e teorizzazioni di quest’ambito venivano utilizzati non tanto per problematizzare il dibattito, quanto piuttosto in chiave «ideologica» a sostegno del proprio punto di vista. I progressi della biomedicina toccano direttamente l’ambito di indagine della psicoanalisi, la sessualità, la procreazione, la trasmissione generazionale, in definitiva il rapporto mentecorpo, e la psicoanalisi non può ignorare l’elemento perturbante che accompagna il progresso scientifico e le sue ricadute tecnologiche. Non è compito della psicoanalisi indicare norme comportamentali e tanto meno formulare giudizi, essendo proprio la sospensione del giudizio ciò che caratterizza il suo esercizio etico. Il contributo che essa può dare risiede altrove, nell’introdurre alcune dimensioni della soggettività frequentemente denegate e nel richiamare l’attenzione sulle ragioni della non ragione, sul linguaggio del corpo che esprime il sapere inconscio del soggetto, nel sottolineare gli aspetti fantasmatici, affettivi, emotivi collegati alle nuove frontiere e le conseguenze che l’introduzione di cambiamenti così massicci ha sulla definizione della persona. Il contributo della psicoanalisi si muove quindi nella direzione di riorganizzare i significati collegati al cambiamento, di introdurre la dimensione del lutto e della sua elaborazione, di definire un soggetto etico più sfaccettato e complesso.

Esiste, infatti, un problema di mutamenti introdotti dalle biotecnologie nell’arco degli ultimi 25/30 anni, che tocca in maniera radicale i termini delle relazioni a cui eravamo abituati, sia delle relazioni con noi stessi e con il nostro corpo, sia delle relazioni con gli altri. La pervasività delle ricadute tecnologiche non risparmia la vita psicologica e affettiva degli individui, che di queste stesse tecnologie sono contemporaneamente oggetti e soggetti. La scissione della sessualità e della fecondità dalla riproduzione, già introdotta dai contraccettivi e che ha subito un’ulteriore accelerazione in virtù delle nuove tecniche di fecondazione assistita e di riproduzione artificiale, fa parte di questi cambiamenti che toccano alle radici il nostro sentimento di identità. Anche all’interno del dibattito bioetico quest’ambito rappresenta un settore particolarmente complesso e impervio proprio in virtù del viluppo di questioni mediche, morali, psicologiche e giuridiche, che si intrecciano intorno al delicato tema del concepimento e della nascita. Le nuove opportunità create dalla tecnologia, se da un lato hanno allargato e continuano ad allargare l’ambito delle possibilità terapeutiche, dall’altro si possono configurare esse stesse come metodologie riproduttive alternative. Alterando i nostri tradizionali schemi di riferimento in merito alla nascita della vita, alla malattia, alla morte, le biotecnologie ci costringono a confrontarci con percorsi inusuali che suscitano angosce profonde, alle quali, proprio perché non riconosciute, si tende a rispondere con una sorta di rigetto e di rifiuto del nuovo, spesso con «falsi argomenti, fingendo di derivarli da una letteratura scientifica che o non esiste o ha assai poco di scientifico».2 Si sono aperti scenari considerati fino a poco tempo fa inimmaginabili. La catena generativa, che aveva mantenuto nel tempo inalterato il senso di continuità attraverso codici e significati affettivi condivisi, sembra essersi rotta nella linearità che l’ha accompagnata fino a poco tempo fa. E sono state violate le colonne d’Ercole, di fronte alle quali il desiderio di maternità e paternità si era fermato, accogliendole come un limite invalicabile. Modificando i confini tra il biologico e il sociale, le tecniche di riproduzione assistita coinvolgono la dimensione della generazione non solo a livello corporeo, ma soprattutto a livello fantasmatico. È di questo secondo livello che si occupa la psicoanalisi, dell’impatto cioè che queste trasformazioni hanno sulle persone, sul rapporto mente-corpo e sulla delicata dinamica del desiderio.

Ma siamo davvero in presenza di «invasioni barbariche» che, come nel film di Denys Arcand, sfidano il senso dell’esistenza? Anna Meldolesi ha invitato a non coltivare scenari da horror movie poco realistici e compatibili con quanto la scienza va affermando e a dubitare di una bioetica tanto più speculativa, quanto meno collegata alla realtà.3 D’altro canto, va riconosciuto che i concetti fondamentali di nascita, vita, morte si stanno modificando e che gli sviluppi delle biotecnologie possono colludere con i fantasmi e le fantasie che hanno accompagnato l’evoluzione dell’uomo e che sono alla base delle sue costruzioni mitologiche, in particolare con la fantasia di infrangere i limiti impostigli dalla sessualità e dalla morte. Queste modificazioni toccano le persone negli aspetti più intimi della loro identità personale (il corpo, la sessualità, la malattia), fino ad alterare il sentimento di identità biologica attraverso un’alterazione dei confini personali. La generazione sganciata dalla sessualità e dalla fecondità ridisegna i confini della persona e della relazione di coppia attraverso l’intervento e l’investimento di altre figure (come, ad esempio, l’equipe medica, il donatore, la donatrice). I confini vengono travalicati in un duplice senso, sia spaziale che temporale. Ciò che prima, infatti, si configurava come un perimetro definito, che includeva la dimensione intima dei due partner del rapporto, si presenta ora, sia in termini concreti che fantasmatici, come qualcosa di mobile, pronto a includere o espellere (secondo i casi o le situazioni) altre figure. La necessità di elaborare il versante fantasmatico sollecitato da presenze estranee all’interno del percorso del concepimento, e di tenere conto delle implicazioni emotive che ciò suscita, non è più solo patrimonio della competenza psicoanalitica, ma fa ormai parte anche della consapevolezza della medicina.4 D’altro canto le soluzioni scelte rispetto ai conflitti relativi alla sterilità avranno effetti le cui risonanze supereranno i soggetti direttamente interessati, riguardando le generazioni future. Infine, l’intervento di un terzo, sia che si tratti di un donatore o donatrice, o di un utero in affitto, ridefinisce l’aggancio all’origine e le radici dell’identità.

L’esperienza di alterazione dei confini personali è ben nota a chi ha studiato le conseguenze psicologiche dei trapianti.5 Quanto più le complicanze mediche e chirurgiche dei trapianti vengono risolte, tanto più emergono le problematiche emotive e psicologiche, che risultano determinanti nell’esito del trapianto. L’integrazione del nuovo organo comporta, infatti, delicati problemi collegati alla ridefinizione del Sé, al timore di cambiamenti fisiologici incontrollabili e di perdita dell’integrità della propria persona. Lo studio dei casi in cui il donatore è un genitore ha messo in luce come vengano rimessi in discussione problemi di separazione e, soprattutto se si tratta di trapianti effettuati in età evolutiva, come vengano violentemente alterati i confini della relazione, proponendo rapporti di dipendenza precedentemente risolti, con conseguenze specifiche sulla propria immagine corporea e a livello dei processi di identificazione. Assai più inquietanti sono le conseguenze psicologiche dal ricevere organi da un donatore cadavere, esperienza questa che condiziona il ricevente in modi molto diversi. In ogni caso è stato possibile osservare processi di identificazione con il donatore, che hanno richiesto una ridefinizione della propria identità personale. L’integrazione intrapsichica del nuovo organo si accompagna a un processo di assunzione delle caratteristiche del donatore, processo che rimane per lo più inconscio e che viene influenzato dal tipo di relazione esistente tra il donatore e il ricevente. In definitiva possiamo dire che le difficoltà e le imprevedibilità legate al lavoro di integrazione riguardano proprio le fantasie relative al donatore: l’organo impiantato non è solo un oggetto meccanico, ma un «pezzo» di un’altra persona (quindi carico di storia, di fantasie, di ipotesi), che diventa parte di noi e che dobbiamo integrare nel nostro vissuto personale. I confini della persona, così come sono stati fino a quel momento sperimentati, subiscono un’alterazione. Già Freud nel 1929, e quindi in altri anni e in un altro contesto, rifletteva intorno al problematico problema dei confini dell’Io: «La patologia ci fa conoscere un gran numero di stati in cui la delimitazione dell’Io nei confronti del mondo esterno diventa incerta o in cui i confini sono effettivamente tracciati in modo scorretto; ci sono casi in cui parti del proprio corpo, perfino porzioni della propria vita psichica, percezioni, pensieri, sentimenti, appaiono come estranei e non appartenenti all’Io; ci sono altri casi in cui al mondo esterno viene attribuito ciò che manifestamente ha avuto origine nell’Io e che da esso dovrebbe essere riconosciuto. Così perfino il senso dell’Io è soggetto a disturbi e i confini dell’Io non sono stabili».6

Nella fecondazione eterologa, così come nei casi di utero in affitto, succede qualcosa di analogo ai trapianti, anche se con alcune profonde differenze. Ovuli, sperma, l’utero di un’altra donna, appartengono a una persona viva e sono prelevati o utilizzati non al fine di difendere la vita, ma al fine di creare una vita nuova. Le implicazioni etiche e psicologiche sono senz’altro più drammatiche. Si tratta tuttavia, anche in questi casi, di ricorrere a tecniche che hanno il potere di rimuovere un impedimento alla genitorialità, fonte di sofferenza profonda (punto questo mai abbastanza sottolineato), così come la donazione di un organo rende possibile salvare e prolungare la vita di un paziente, introducendo un elemento altro da sé. Anche nelle nuove forme di concepimento, «parti» di un altro vengono assunte e/o utilizzate. In questo senso, stiamo assistendo a una profonda ridefinizione dell’identità biologica delle persone e del sentimento dei confini di sé. Non sarebbe possibile, né giusto negare l’inquietudine che ciò suscita, soprattutto in relazione ai problemi identitari dovuti alla mancanza di certezza sulla propria origine. Tuttavia, riconoscere l’inquietudine non significa dare risposte scontate. Il carattere relativamente recente di questi fenomeni non consente di avere un’ampia casistica. I primi lavori clinici a disposizione,7 però, indicano quanto la risposta delle pazienti a questo tipo di interventi così radicali si giochi proprio in una redifinizione del rapporto tra realtà e fantasia, nella ricerca di senso rispetto alle scelte che vanno facendo, nell’integrazione all’interno della propria storia e del proprio spazio psichico e affettivo di queste nuove forme di esperienza. Non solo, il riconoscimento della necessità di elaborare queste trasformazioni ha prodotto conseguenze rilevanti, come una profonda revisione in ambito psicoanalitico del concetto di «infertilità psicogena».8 Questa categoria, che ha attraversato il pensiero psicoanalitico per alcuni decenni, comincia a essere considerata fortemente discutibile, non utile ad aiutare le persone affette da disturbi della fertilità e, in ogni caso, inadatta a rendere conto della complessità del problema. Questo cambio di prospettiva, oltre a essere più umano e comprensivo della sofferenza e dei fallimenti delle persone, rappresenta anche la fuoriuscita da premesse ideologiche che possono condizionare pesantemente l’elaborazione dei nuovi fenomeni. Ciò significa, per la psicoanalisi, riconsiderare l’approccio al proprio oggetto di indagine e spostare l’attenzione da una ricerca dell’etiologia, che non può essere dimostrata, alla comprensione del significato dell’infertilità e alle ricadute molto pesanti che produce sul nucleo della persona. Si tende, infatti, sempre di più a prestare attenzione e a sottolineare le conseguenze che lo stress da infertilità produce sia a livello fisico che psichico. Il desiderio insoddisfatto di un figlio causa una tensione che si riflette sul corpo e sulla mente delle persone e ha conseguenze profonde sia sulla vita della coppia che sul contesto sociale. La frustrazione della generatività e della genitorialità è un’esperienza complessa, che coinvolge i soggetti a più livelli, rischiando soprattutto di minare la sessualità spontanea e il senso di sé.

Ha giustamente sottolineato Rodotà che è pretestuoso avanzare l’argomento del ricorso all’adozione, piuttosto che ricorrere alla fecondazione assistita, «perchè si tratta di entità non compatibili» rispetto al bisogno profondo di maternità e paternità.9 Inoltre, già la stessa esperienza di adozione ci ha posti di fronte al problema di una ridefinizione dei confini personali, sia perché il desiderio di genitorialità viene sottoposto al vaglio di persone terze, uscendo quindi dalla sfera intima e privata della coppia parentale, sia perché è necessario integrare nella relazione con l’adottato tutte le fantasie e le dinamiche emotive relative a un’altra coppia genitoriale originaria che pur sempre esiste. Ciò vale naturalmente anche per il bambino, che deve affrontare un lungo e faticoso lavoro di elaborazione e integrazione della nuova realtà genitoriale, messa in relazione con quella originaria. Né sembra vero che queste nuove esperienze «disertifichino», come è stato scritto,10 la relazione, il simbolo, la cultura o, addirittura, aprano le porte a scenari di eugenetica di massa. Al contrario, è il tipo di relazione di filiazione e parentale che sta cambiando, e solo dalla nostra capacità di elaborare questo cambiamento di relazioni, che è prima di tutto ampliamento e incremento di complessità, dipenderà la possibilità di integrare una ridefinizione della nostra identità biologica.

Tutto ciò, però, non significa disconoscere la legittimità del disagio collettivo sollecitato dai progressi compiuti dalla medicina, dall’ingegneria genetica e dalle loro applicazioni. Il rapporto mente-corpo, la sessualità, le idee tradizionali di maternità, paternità, famiglia ne escono profondamente trasformate. Procedere al di là del prolungamento della vita, all’interno del regno della creazione della vita e della generazione, significa non solo cercare di alleviare sofferenze, ma anche proporre qualcosa che suona come violentemente perturbante, perché ci mette di fronte alla realizzazione onnipotente di ciò che prima viveva solo nella nostra fantasia e quindi anche a una ridefinizione di noi stessi. Come sostiene Adele Nunziante Cesaro: «Le nuove scoperte delle biotecnologie non infrangono tanto le leggi di natura, quanto la legge simbolica, quella che istituisce le differenziazioni successive, sostiene l’ordine del linguaggio e della rappresentazione. È qui che risiede forse il motivo dell’inquietudine, dell’allarme che l’avanzata delle biotecnologie sembra produrre».11 Non è facile stabilire un confine tra il «nuovo» fuori di noi, che cerchiamo di governare e dominare, e noi stessi che veniamo cambiando come conseguenza di questi «fatti nuovi», che toccano e mutano alle radici il nostro senso di identità e appartenenza. La tecnologia procede più rapidamente delle nostre capacità mentali di elaborarla e darle significato. Se il «nuovo», per il suo carattere di estraneità, non trova integrazione e rappresentazione nella realtà psichica individuale e in una coscienza sociale condivisa, si configura come «trauma». Il non riconoscimento dell’angoscia che ciò genera e la mancata elaborazione dell’aspetto traumatico possono avere due ordini di conseguenze. Da un lato, spingono al ricorso a meccanismi di pensiero primitivi, che si esprimono nella demonizzazione delle posizioni dell’avversario, nella negazione o nella costruzione di scenari catastrofici e persecutori. Dall’altro, c’è il rischio di ricorrere a categorie e concetti precedentemente elaborati e sovrapporli al «nuovo», per controllarlo e ricondurlo all’interno del proprio ordine mentale ed emotivo.

Per comprendere «i nuovi modi di nascere», e in generale le trasformazioni a cui andiamo incontro, sembra necessario accogliere la nascita di nuovi modi di pensare la relazione con se stessi e con gli altri. I cambiamenti descritti si riflettono, infatti, in un cambiamento dello schema identitario all’interno del quale sono compresi i concetti di parentela e filiazione. Se fino a poco tempo fa si tendeva a comprendere la biografia in termini lineari di sviluppo, secondo una precisa divisione di ruoli ancorata al genere sessuale, oggi questo paradigma si sta modificando. A un’identità biologica stabile alla quale concorrono schemi prestabiliti di relazione si sta sostituendo un’identità più fluida, caratterizzata dalla capacità di integrare anche «parti» di altri, come l’esperienza dei trapianti ha dimostrato e come la scelta della fecondazione eterologa induce a pensare. Axel Honneth, in un interessante lavoro in cui mette a confronto il paradigma psicoanalitico con i problemi posti dall’identità postmoderna, sottolinea come l’immagine dell’individuo che si va affermando sia quella di un soggetto caratterizzato da una moltiplicazione interna di identità.12 L’orientamento che privilegia uno schema identitario rigido, basato sulla capacità selettiva, sintetica e normativa dell’Io, risulta inadeguato a spiegare un soggetto più articolato ed esteso proprio in virtù di un’estrema «fluidificazione» (verfluessigung) della vita psichica, capace di vivere con un senso di coerenza esperienze intrapsichiche e relazionali diversificate nel tempo e nello spazio. Cambia dunque il concetto di identità, ma anche quello di maturità della persona. Lo stato di maturità, infatti, non è più determinato dalla coerenza e misurato in termini di forza dell’Io, ma «dobbiamo considerare maturo e pienamente sviluppato l’individuo in grado di realizzare il suo potenziale per il dialogo interno, dissolvendo le proprie relazioni interne e assicurandosi che il maggior numero possibile delle varie relazioni interattive ricevano ascolto nella propria vita interna. In breve, il fine della vitalità interna, della ricchezza intrapsichica, ha preso il posto che era occupato nella prima psicoanalisi dal concetto di forza dell’Io». «Le invasioni barbariche» ci costringono a operazioni complesse, quelle che in termini più poetici già Elias Canetti descriveva come «la vastità»: «il poter contenere in sé moltissime cose, anche tra loro contraddittorie, sapere che tutto ciò che sembra inconciliabile sussiste tuttavia in un suo ambito e questo sentirlo, senza perdersi nella paura, e anzi sapendo che bisogna chiamarlo col suo nome e meditarci sopra».13 In definitiva, si tratta di accedere all’idea di un soggetto multiplo, che per essere pensato richiede una problematizzazione del nostro sapere e una revisione del nostro apparato concettuale. Si sta modificando la nascita, ma anche il soggetto che nasce è oggi un individuo un po’ più complesso di prima.

 

 

Bibliografia

1 Cfr. «Italianieuropei», 2/2003.

2 C. Flamigni, Etica laica della scienza e falsi argomenti, in «Italianieuropei», 2/2003.

3 A. Meldolesi, L’insostituibile leggerezza delle astrazioni, in «Italianieuropei», 2/2003.

4 M. Vigneri, Mater dolorosa (sulle donne e la procreazione assistita), in «Richard e Pigole», 3/2003 e R. Say e R. Thomson, The importance of patient preferences in treatment decisions, in «Clinical Review», 2003.

5 S.H. Basch, The intrapsychic integration of a new organ: a clinical study of kidney transplantation, in «Psychoanalytic Quarterly», 42/1973; P. Castelnuovo- Tedesco, Ego vicissistudes in response to replacement or loss of body parts: Certain analogies to events during psychoanalytic treatment, in «Psychoanalytic Quarterly», 47/1978; A. Freedman, Psychoanalysis of a patient who received a kidney transplantation, in «Journal of American Psychoanalytic Association», 31/1983.

6 S. Freud, Il disagio della civiltà, in «Opere», vol. 10, Boringhieri, Torino 1978, p. 599.

7 E.P. Lester, Surrogate carries fertilized ovum: Crossing ego boundaries, in «International Journal of Psychoanalysis», 76/1995 e S. Zalusky, Infertility in the Age of Technology, in «Journal of American Psychoanalytic Association», 48/2000, trad. it. L’infertilità nell’era della tecnologia, in «Richard e Piggle», 3/2003.

8 G.H. Allison, Motherhood, motherliness and psychogenic infertility, in «Psychoanalytic Quarterly», 66/1997 e R.J. Apfel, R.Keylor, Psychoanalysis and infertility. Myths and realities, in «International Journal of Psychoanalysis», 83/2002.

9 S. Rodotà, La bioetica tra leggi e ideologia, in «La Repubblica», 29 dicembre 2003.

10 Femministe sull’orlo del dubbio. I figli in provetta, l’autodeterminazione della donna e il ritorno al padre, in «Il Foglio Quotidiano», 13 dicembre 2003.

11 A. Nunziante Cesaro, Introduzione, in «Il bambino che viene dal freddo. Riflessioni bioetiche sulla fecondazione artificiale», Roma, Franco Angeli 2000.

12 A. Honneth, Teoria delle relazioni oggettuali e identità post-moderna. Sulla presunta obsolescenza della psicoanalisi, in «Psiche», 1/2002.

13 E. Canetti, La lingua salvata. Storia di una giovinezza, Adelphi, Milano, 1980.