Europa, Oriente, Islam

Di Maria Grazia Enardu Giovedì 01 Gennaio 2004 02:00 Stampa

È merito degli storici, rispetto ai politologi o ad altri analisti, tentare di capire eventi e situazioni guardando al passato e cercando le connessioni col presente. È loro demerito non osare andare molto indietro nel tempo, e questa miopia è più che evidente per quanto riguarda il Medio Oriente, e le sue antichissime relazioni con l’Europa. Pochi ammettono che l’Europa e quindi l’occidente, è nata in Medio Oriente e, al massimo, lo riconoscono quando ricordano le radici giudaico-cristiane, di cui tanto si parla. Ma molto più importanti sono le radici pagane dell’Europa, che risalgono a tempi lontanissimi, tra mito e preistoria.

 

È merito degli storici, rispetto ai politologi o ad altri analisti, tentare di capire eventi e situazioni guardando al passato e cercando le connessioni col presente. È loro demerito non osare andare molto indietro nel tempo, e questa miopia è più che evidente per quanto riguarda il Medio Oriente, e le sue antichissime relazioni con l’Europa. Pochi ammettono che l’Europa e quindi l’occidente, è nata in Medio Oriente e, al massimo, lo riconoscono quando ricordano le radici giudaico-cristiane, di cui tanto si parla. Ma molto più importanti sono le radici pagane dell’Europa, che risalgono a tempi lontanissimi, tra mito e preistoria.

Secondo alcuni studi1 la parola Europa, nella lingua accadica di quattro millenni fa, voleva semplicemente dire occidente, il calar del sole. E Italia indicava una parte remota dell’occidente. Noi eravamo la periferia del Medio Oriente.

Abbiamo anche un grosso debito nei confronti di Fernand Braudel, che ci ha ricordato quel che i romani sapevano bene, e prima ancora i greci, i fenici, gli egiziani: il Mediterraneo non è un mare ma un lago, dove guerre e commerci di ogni tipo hanno sempre convissuto, e i commerci continuavano anche in tempo di guerra.2 La memoria degli antichi e stretti legami con l’oriente è stata rimossa già ai tempi dei greci che, come Platone ricorda nel Timeo, erano «bambini che avevano dimenticato il passato». Preferivano ignorarlo, nello sforzo estremo di combattere la minaccia della Persia con ogni mezzo disponibile, compreso l’orgoglio di voler essere culturalmente agli antipodi dell’oriente che minacciava di travolgerli.

Oggi, il termine Medio Oriente è in verità assai impreciso e dovrebbe essere invece distinto in almeno tre aree. Un Medio Oriente mediterraneo, che può anche comprendere la Giordania, legato da sempre all’Europa meridionale, due sponde dello stesso specchio d’acqua, unificato dai romani. Anche la conquista araba del Nord Africa, della Sicilia e della Spagna, o la presenza ottomana che arrivò ad assediare Vienna, possono essere considerati come tentativi di unificare l’ex mare nostrum, partendo questa  volta da est e non da ovest. Poi c’è un Medio Oriente interno, la Mesopotamia, l’Arabia, la Persia, con una storia assai diversa, un mare di sabbia di più difficile navigazione in guerra e in pace. Infine un Medio Oriente esterno, lontano, con gli Stati musulmani vicini all’India – e la stessa India dei Moghul. L’unica matrice comune di queste tre aree è l’Islam, ma essere musulmani sulle sponde del Mediterraneo è cosa assai diversa che esserlo in Arabia Saudita o in Pakistan, e gli europei dovrebbero ricordarsene più spesso.

Dal Rinascimento in poi, il Medio Oriente è considerato dagli europei un mondo in decadenza, uno spazio da occupare, sfruttando il crescente divario tecnologico e militare. Spesso la decadenza del Medio Oriente si confonde così con quella dell’Impero ottomano, che per convenzione possiamo far risalire alla pace di Karlowitz (1699). Ma ben precedente e di maggiore importanza per gli avvenimenti di oggi è la decadenza del mondo arabo, conquistato dagli ottomani, superiori in termini militari e politici, ma culturalmente inferiori, già all’inizio del Cinquecento. È da allora che il mondo arabo si sente umiliato da forze esterne, ottomane prima – e perlomeno musulmane – ed europee dopo, che negli anni successivi alla prima guerra mondiale avvilirono le aspirazioni all’indipendenza e alla rinascita culturale e politica, con lo strumento dei mandati.

Il profondo antagonismo tra arabi e turchi dovrebbe essere considerato con più attenzione in un’Unione europea che dibatte il possibile ingresso della Turchia. L’idea è in verità poco gradita a molti europei, ma è soprattutto poco gradita tra i paesi arabi, consapevoli che una Turchia nell’Unione non aiuterà il mondo arabo, e potrebbe avere, direttamente o indirettamente, un effetto negativo sui suoi interessi e aspirazioni.

Il Ventesimo secolo ha visto prima l’Europa e poi gli Stati Uniti condizionare l’intera regione, poco interessati a comprenderne la storia – con l’eccezione degli inglesi, spesso assai abili nello sfruttare il passato per manipolare il presente – e dimostrando una notevole miopia riguardo agli effetti sul futuro. Le analisi sui recenti conflitti nella regione, o sull’ormai secolare conflitto arabo-israeliano, sono di solito fondate su argomenti politici che si dimostrano spuntati e incapaci di cogliere gli aspetti salienti del passato e del presente. Anche gli argomenti economici, legati in buona parte alla questione del petrolio, si dimostrano strumentali, in particolare in termini di politica interna dei paesi occidentali, attenti soprattutto alle proprie scadenze elettorali o alle vicende dei propri indicatori economici immediati. Nessuno in pratica presta attenzione all’unico strumento di conoscenza che può predire il futuro, o perlomeno le sue più importanti tendenze, la direzione che sta prendendo, ovvero la demografia della regione. Non demografia intesa come quadro statistico del presente, ma come scienza capace di prospettare la composizione della popolazione per un periodo non superiore ai 25 anni – un’eternità nel mondo di oggi – e di essere praticamente infallibile nel medio periodo, 5-10 anni. La demografia è una scienza cieca di fronte agli imprevisti catastrofici capaci di travolgere uno o più paesi, come guerre o epidemie, ma ci dice cosa accade in questi paesi ora, e cosa accadrà domani.

Il Medio Oriente ha una percentuale altissima di bambini e giovani. In alcuni paesi come Iran, Algeria, Arabia Saudita, più del 70% della popolazione ha meno di trenta anni. Paesi di giovani o addirittura giovanissimi, dove per la prima volta si ha accesso a un’istruzione superiore a quella delle generazioni precedenti. Inoltre, ed è una rivoluzione culturale e sociale, molte ragazze vanno a scuola, e poi all’università, e le ragioni di questo sono spesso molto interessanti. In Iran, per esempio, gli ayatollah al potere, considerati di solito ottusi conservatori, hanno deciso molti anni fa di fare il possibile per incoraggiare le ragazze a frequentare l’università dove sono spesso in numero più alto dei ragazzi. La ragione di questa scelta è pura demografia applicata: è noto che il tasso di accrescimento demografico è funzione inversa delle condizioni economiche e dell’istruzione femminile. Per accrescere il tasso di sviluppo, o si alza il reddito delle famiglie – cosa ovviamente molto difficile – o si mandano le ragazze a scuola. Gli ayatollah sono riusciti, in dieci anni, a dimezzare il numero di figli per donna, e senza misure coercitive come in Cina o in India. Un autentico miracolo sociale. Come se non bastasse, in tutto il Medio Oriente il crescente numero di giovani istruiti non solo ha incontrato i mass media ma sta imparando a usare uno strumento il cui impatto sarà valutabile appieno solo tra una generazione: Internet.

Se si combinano tra di loro questi elementi, l’alto numero di giovani, l’istruzione in crescita, l’accesso ai media e a Internet, si può visualizzare un Medio Oriente rivoluzionato e rivoluzionario – in termini dei nostri interessi occidentali – con effetti non proprio calcolabili a tavolino. Ma le predizioni della demografia non si fermano qui e ci dicono che, in pochi decenni, anche la popolazione del Medio Oriente invecchierà, e quindi diverrà politicamente stabile, e che allora saranno loro ad attrarre immigrazione dalle aree più giovani e più povere, dal loro sud, come l’Africa e parti dell’Asia.3

È in questo quadro che noi, abitanti della sponda nord del Mediterraneo, dovremmo chiederci, con grande attenzione, come intendiamo presentarci a questa massa di bambini e giovani e come intendiamo aiutarli a ottenere uno sviluppo dignitoso e condizioni di stabilità. Stabilità loro e nostra.

Ogni mossa sbagliata oggi – e ce ne sono state troppe – avrà un effetto moltiplicatore sul loro e sul nostro futuro. Uno dei nostri errori più gravi è la notevole confusione che si fa riguardo all’Islam. Non vogliamo capire che, nella sua essenza, l’Islam è una religione conservatrice e con un passato di dimostrata tolleranza. Dai tempi della conquista araba alla fine del Diciottesimo secolo, chi era ebreo o eretico o comunque inviso al cosiddetto mondo cristiano trovava spesso nell’Islam degli arabi o degli ottomani uno spazio di sopravvivenza e dignità, lontano da processi, roghi, massacri. È vero che ci sono anche componenti dell’Islam militanti e rivoluzionarie, come il wahabismo (sunnita), movimento iconoclasta nato in Arabia e notevolmente cresciuto grazie alle recenti guerre in Afganistan. Ma il wahabismo è temuto da molti musulmani, in Medio Oriente e altrove, che non vi riconoscono l’autentico spirito del messaggio del Profeta. Anche gli sciiti godono di una cattiva reputazione in occidente, e dimentichiamo che sono un ramo legittimista dell’Islam, e che il loro profilo culturale e sociale è migliore (secondo i nostri standard) di quello dei sunniti. Se pensiamo che gli sciiti siano divenuti, negli ultimi decenni, pericolosamente militanti, dovremmo anche ricordare che si sono sentiti minacciati, e con ragione, nella loro identità nazionale e religiosa, sia dagli occidentali sia da altri musulmani, magari manovrati da interessi occidentali, come la storia dell’Iran negli ultimi sessanta anni dimostra ampiamente.

Rimproveriamo al mondo islamico di non separare politica e religione, lento processo che in Europa è iniziato con la rivoluzione francese e che ha visto innumerevoli scivoloni all’indietro. Ma religione e politica non si possono separare né con la spada né per intervento esterno, bensì devono trovare un proprio equilibrio, nei tempi e nei modi di ogni società, per spinta interna. Anche il ruolo e le libertà dell’individuo, e i diritti delle minoranze, sono bandiere che l’occidente ama sventolare, spesso in modo militante, in una sorta di crociata. Non capiamo che altre culture possono trovare altre vie, e che il concetto islamico di comunità (umma) non è da vedere in inevitabile contrapposizione all’individuo, ma come un contesto che può proteggerlo, soprattutto quando lo Stato sociale viene meno. Infatti, anche nella cultura occidentale si parla di reintrodurre il concetto di comunità, per contrapporlo a un liberismo e a un capitalismo spesso senza freni, che possono limitare o addirittura distruggere quelle stesse libertà individuali che pretendono di tutelare.

L’Europa può essere un laboratorio ideale per lo sviluppo politico dell’Islam, se le comunità islamiche d’Europa troveranno il contesto adatto a elaborare le due culture, ma solo a condizione che vi siano le giuste condizioni, economiche, sociali, culturali, che si rinunci alle tentazioni reciproche della xenofobia e si cerchino modelli di integrazione spontanei. I musulmani d’Europa hanno al loro interno elementi che si oppongono a questo processo, ma in maggioranza vogliono trovare un proprio modello, senza costrizioni. E i risultati si vedranno nella prossima generazione. La diversificazione dell’Islam nel suo contatto non conflittuale con la cultura europea potrebbe creare le condizioni per una rinascita del mondo arabo, e quindi per condizioni di stabilità in Medio Oriente, con ripercussioni positive in tutto il mondo musulmano, e quindi in tutto il mondo.

Un processo simile, oggi quasi dimenticato, è avvenuto nell’ebraismo, che si è evoluto da culto tribale a religione universale, che comprende al suo interno ultraortodossi e ultraliberali, tutti interpreti e fedeli della Legge di Mosè. Gran parte di questo processo è avvenuto fuori dalla terra di Israele, nel bacino del Mediterraneo e in Europa, grazie a generazioni di rabbini che vivevano in un contesto non ebraico, che interpretavano e reinterpretavano, commentavano e applicavano, cercando risposte adatte alle sempre diverse circostanze, in ambiente spesso ostile, e conservando fede e osservanza. Una delle caratteristiche più affascinanti del Talmud e dei testi successivi è la ricchezza di opinioni e pareri, spesso in contrasto tra loro, e la formazione di un consenso, in un contesto dialettico che ha mantenuto l’ebraismo vivo e fertile attraverso i terribili millenni dell’esilio e delle persecuzioni. Nulla del genere è avvenuto nel cristianesimo.

Paradossalmente, la maggior sfida dell’ebraismo è stato l’incontro con il sionismo, con la realtà di Israele dove l’ebraismo è religione di Stato, o meglio la religione dello Stato degli ebrei, peraltro fondato da socialisti praticanti e anticlericali. Molti ebrei, laici o religiosi, dentro e fuori Israele, hanno forti riserve sui rapporti tra religione e politica in Israele e molti degli ideali dei padri fondatori hanno lasciato posto a scelte politiche troppo vicine alle richieste degli elementi più ortodossi, che condizionano così sia i laici sia i religiosi moderati. Su questo tema così complesso e delicato dei rapporti tra religione e politica, l’occidente e in particolare l’Europa può dare al Medio Oriente alcune idee, alcune indicazioni, e la tecnologia che le trasmette, lasciando che si sviluppino in tempi e modi propri. Ad esempio, dare il premio Nobel per la pace a una signora che in Iran si batte da avvocato per il rispetto dei diritti umani, e che si definisce musulmana osservante, è stata un’ottima idea, che può avviare una dinamica simile a quella che seguì l’elezione di un papa polacco. Eventi che lavorano nel tempo e possono introdurre cambiamenti epocali.

Un altro potente e quasi ignorato strumento di cambiamento è lo Arab Human Development Report, preparato dall’UN Development Program,4 arrivato al suo secondo anno con uno studio dal titolo illuminante: «Building a knowledge society». Il precedente rapporto aveva scelto un tema altrettanto importante, «Creating opportunities for future generations» ed era stato scaricato via Internet da un milione di persone nel solo mondo arabo, creando un dibattito senza precedenti. Così oggi, in Arabia Saudita, si parla addirittura di tenere elezioni, magari solo amministrative, per cominciare. E a Sana’a si è tenuta a gennaio una conferenza sulla democrazia, sui diritti umani e sul ruolo della Corte internazionale penale, cui partecipa la maggior parte dei paesi arabi.

Se alcuni aspetti demografici e culturali del Medio Oriente appaiono positivi, i pericoli vengono dai conflitti, endogeni o importati. Il più preoccupante è il conflitto tra israeliani e palestinesi, perché apparentemente ha come oggetto questioni come il possesso della terra e la sicurezza, ma in realtà è un conflitto di identità, e in particolare della ridefinizione dell’identità ebraico-israeliana. I punti principali riguardano la definizione stessa dello Stato ebraico e la possibile fine del sionismo. Lo Stato di Israele è nato da un continuo contrasto con i palestinesi per l’acquisto e la difesa delle terre su cui si ponevano le premesse dello Stato, e da questo derivava l’idea che la difesa delle terre poteva portare, in una dinamica di guerra aperta, al controllo di ulteriori aree. Questo già nel 1948, quando i confini di Israele vengono resi più difendibili – e quindi allargati – e viene provocato un ampio esodo di palestinesi. Dopo la guerra del 1967 si decide di annettere il Golan e l’area di Gerusalemme, mentre Gaza e la Cisgiordania, mai annesse per ovvie ragioni, venivano poste soprattutto a partire dal governo Begin del 1977 sotto una complessa matrice di controllo degli spazi, delle risorse, dello sviluppo.5 Ma anche senza l’annessione dei territori, è cresciuta in Israele la percentuale, ora al 19%, di cittadini arabo-israeliani – percentuale che aumenterà comunque perché il loro tasso di accrescimento demografico è più alto, anche senza l’eventuale annessione formale di aree prevalentemente abitate da palestinesi. I trend demografici indicano che solo eventi imprevedibili o catastrofici possono cambiare queste prospettive.

Ma il sionismo era nato per creare, in terra di Israele, lo Stato degli ebrei e oggi nel paese si discute, senza forzare i toni, di un argomento complesso e delicato: Israele è lo Stato degli ebrei o lo Stato degli israeliani – cioè di tutti gli israeliani, cittadini arabi compresi? È lo Stato di una maggioranza ebraica o è disposto a riconoscere pieno titolo sotto ogni punto di vista, politico, economico e culturale, alla minoranza araba in crescita, nella definizione dell’identità di uno Stato che diverrebbe così binazionale e multiculturale? Ovviamente, la discussione è influenzata da quanto accade nel confronto con i palestinesi, ma è di per sé indipendente e, se scoppiasse la pace, sarebbe di immediata e primaria importanza.

Dietro questo dibattito se ne nasconde un altro, connesso e quasi sotterraneo: il sionismo è finito?6 O può continuare, insistendo sul diritto esclusivo degli ebrei a un proprio Stato e quindi a un diminuito diritto degli altri nello Stato? Il sionismo è ancora un’opzione, o è diventato un’illusione e forse un pericolo? Pericolo non solo e non tanto di un altro conflitto, imprevedibile e incontrollabile nel contesto del Medio Oriente di oggi, ma soprattutto pericolo di creare condizioni sempre più difficili all’interno di Israele, politicamente, economicamente e socialmente, con l’indebolimento del paese e il lento degrado in ogni settore, come gli anni della seconda intifada hanno dimostrato.

Israele è orgoglioso di definirsi come l’unica democrazia del Medio Oriente (con possibile irritazione dei turchi, oggi) ma è una democrazia indebolita su punti essenziali, e non solo nei riguardi dei cittadini araboisraeliani o dei palestinesi sotto controllo israeliano. Tema meno noto, ma forse più rilevante, è la questione dei diritti civili in Israele, anche nella stessa maggioranza ebraica, dove la definizione dello status dell’individuo, secondo la legge religiosa, e i complessi rapporti tra sinagoga e Stato creano situazioni di disagio e diminuiti diritti a troppi cittadini, alimentano lo scontento di ampi settori della popolazione e, demografia alla mano, minacciano di aggravarsi nel prossimo futuro.

Molti israeliani oggi vogliono un’ampia e pubblica discussione di questi problemi, una approfondita riconsiderazione di temi fondamentali, e molti, tra i laici ma anche tra i religiosi, ricordano come l’ebraismo abbia raggiunto livelli etici straordinari proprio nell’esilio, nella sua forzata separazione dallo Stato – e che l’ebraismo in Israele oggi è spesso impoverito dalla convivenza con i necessari compromessi della politica. Tema che suscita enorme attenzione in tutto il mondo ebraico fuori di Israele e segna i rapporti con la diaspora.

Ovviamente, il conflitto con i palestinesi aggrava questi problemi, soprattutto perché nasconde molti di questi temi dietro la ricerca di condizioni di sicurezza, ma non cancella i punti centrali: è più importante la terra o la pace? Si può rinunciare ai territori controllati dal 1967 senza spaccare il paese? E quale futuro Israele vede per sé, un lento e incontrollabile conflitto o una soluzione dolorosa ma realistica?

La terra non era sacra per Theodor Herzl, molto scettico riguardo all’idea di creare Sion a Sion invece che, giusto per fare un esempio, in Uganda. Su questo aveva davvero torto, considerando la centralità della terra di Israele nella definizione dell’identità ebraica. Ma era un idealista pratico, odiava i maneggi della politica ed ebbe la fortuna di morire giovane, dopo aver fatto, in una delle sue ultime lettere, una precisa raccomandazione: «non fate errori stupidi quando sarò morto».7

Israele ha concluso, in periodi molto diversi, trattati di pace con i più importanti vicini, Egitto e Giordania, e ci sono oggi le basi per un trattato con la Siria, che non è più una minaccia militare ma non può rinunciare a tutto il Golan. La pace più difficile è quella con i palestinesi, che richiede un ripensamento di tutta la politica israeliana. Alla fine del 2000, la trattativa di Camp David fallì, secondo il governo Barak, nonostante Israele fosse disposto a restituire ai palestinesi addirittura il 97% dei territori occupati.8 Al di là delle altre questioni (profughi, Gerusalemme), la generosa offerta non era vera,9 ma Barak convinse su questo punto l’opinione pubblica israeliana, che voleva credergli, e che rimase frustrata da quello che pareva un irragionevole rifiuto palestinese.

Uno degli aspetti caratteristici della politica di Israele, che si vede circondata da nemici o da «amici freddi» come sono definiti Egitto e Giordania, è di considerare gli Stati Uniti come un alleato, anzi come il miglior alleato possibile. Questo era vero in passato, e ha portato frutti preziosi, come la pace firmata a Camp David con Sadat, con i buoni uffici di Carter, o l’opera di Clinton riguardo agli accordi con i palestinesi e il trattato firmato con re Hussein nel 1994. Ma anche allora era un’alleanza assolutamente squilibrata, tra una superpotenza assoluta, con interessi globali, e un piccolo paese, che è indubbiamente una potenza regionale, ma tale soprattutto grazie un consistente aiuto militare americano. È indubbio che una superpotenza consideri un piccolo alleato come funzionale ai propri interessi, uno strumento, e che i piccoli Stati che si considerano indipendenti in un contesto del genere pecchino di ingenuità. In politica estera non si fa mai beneficenza, a nessuno. Come ogni alleanza più o meno formale, si basa su interessi precisi ma non necessariamente immutabili, tutt’altro. Interessi politici e militari determinanti per l’assetto attuale della regione, e ben noti, ma uno di questi merita maggiore attenzione perché, ancora una volta, si scivola nel campo minato dove si mescolano religione e politica. Il messianesimo evangelico è negli Stati Uniti un fattore politico importante, soprattutto in alcuni Stati, e suo cardine è l’assoluta convinzione che Gesù Cristo, il Messia dei cristiani, tornerà presto, e che il suo arrivo sarà preannunciato da guerre e catastrofi che coinvolgeranno Israele. Il messianesimo evangelico è antisemita ma apparentemente filo-israeliano e aspetta, anzi prega, di vedere una grande guerra in nome di Dio, e si cura poco di possibili conseguenze, che sono in ogni caso volontà divina.10 Gli evangelici americani appoggiano e incoraggiano gli aspetti più intransigenti della politica israeliana, della destra estrema, e il governo israeliano, di ogni schieramento, dovrebbe respingere con assoluta decisione questo tipo di sostegno, e le tesi della destra radicale americana che ne sono parte, invece che considerarla parte utile del fronte degli alleati. Questa non è Realpolitik ma la strada verso la follia.

Se Israele si sente circondato da nemici e dubbi amici, e considerato che gli alleati americani sono geograficamente lontani, logica vuole che abbia buone relazioni con l’Europa. Le radici europee di Israele sono fortissime, e pur se avvelenate dalla memoria dell’orrore, innegabili e persistenti. Come ricorda Amos Oz nel suo ultimo libro,11 quando l’Europa era frammentata in regni e principati vari, in costante guerra tra loro, gli ebrei erano gli unici europei veri, con una identità e cultura che superava i rigidi confini e si muoveva in una autentica dimensione europea. La storia dell’Europa e la storia del popolo ebraico sono intimamente connesse, nel bene e soprattutto nel male, da più di due millenni.

È per Israele ragione di grande amarezza, spiegabile solo in termini di interessi economici, che così tanti Stati europei abbiano politiche filo-arabe, o filo-palestinesi. Accade anche che, di tanto in tanto, sia in Israele sia in Europa, qualcuno levi la voce per chiedere l’ingresso di Israele nell’Unione europea. In un mondo perfetto, una simile cosa avrebbe un senso compiuto, sarebbe quasi un ritorno alla seconda casa, ma Israele non può entrare nell’Unione, o perlomeno non da solo.

Uno dei principi cardine del sionismo era il ritorno alla terra dei patriarchi, in Eretz Israel, cioè in Medio Oriente. I padri fondatori dello Stato, tutti europei, anzi aschenaziti, portavano con sé una parte dell’Europa, quella orientale – non proprio la migliore – ma per quanto profondamente europei intendevano creare uno Stato «indigeno», anzi «sabra». Scopo del sionismo era di ritrovare le radici mediorientali, rivitalizzarle e superare la condizione dell’esilio, dimenticare l’Europa e il suo odio. Il punto di vista arabo era esattamente opposto: Israele, prima e dopo il 1948, era visto come una creazione artificiale di ebrei europei appoggiati da potenze europee o comunque occidentali, trascurando così il cruciale ruolo sovietico nella nascita di Israele… Anzi, come si usava sostenere negli anni Settanta, Israele era uno Stato coloniale simile a quelli dei crociati, che sarebbe durato anch’esso meno di un secolo e rigettato a mare come un corpo estraneo.

Certo, l’ingresso di Israele nell’Unione comporta anche il rispetto di rigidi criteri di ammissione, che toccherebbero anche il delicatissimo campo dello status dell’individuo e dei diritti civili, ma tralasciamoli e consideriamo la cosa in linea teorica: è assolutamente auspicabile che Israele divenga un partner o un paese associato, ma non da solo, bensì assieme ad altri paesi mediorientali, o meglio arabi. Infatti l’ingresso della Turchia, paese poco popolare nel mondo arabo e noto anche per i suoi legami con Israele, avrebbe una dinamica completamente diversa. Bisogna in ogni modo evitare che nel mondo arabo si rafforzi la precisa sensazione che Israele non sia affatto uno Stato mediorientale e che quindi sia logico considerarlo provvisorio, a termine. L’Europa può fare molto in questo senso.

Si torna così all’idea della centralità del Mediterraneo, come lago di pace ed elemento di aggregazione anche politica, multietnico e multiculturale sulle due sponde, che lega l’Europa al Medio Oriente, che trae forza vitale dalla diversità delle sue componenti. Una rivisitazione del suo passato, per arrivare a un nuovo Medio Oriente e una nuova Europa.12

 

 

Bibliografia

1 G. Semerano, Le origini della cultura europea. Rivelazioni della linguistica storica. Vol. I., Olschki, Firenze 1984.

2 F. Braudel, Memorie del Mediterraneo, Bompiani, Milano 1999

3 M. Livi Bacci, in «La Repubblica», 3 giugno 2002.

4 Cfr. https://www.undp.org/rbas/ahdr .

5 J. Halper, in T. Segev (a cura di), The other Israel, New Press, 2002.

6 A. Burg, The end of Zionism?, in «International Herald Tribune», 6 settembre 2003.

7 Citato in A. Elon, Israelis & Palestinians: What Went Wrong?, The New York Review of Books, Vol. 49, n. 20, 19 dicembre 2003.

8 Per la mappa con la ricostruzione delle proposte israeliane a Camp David, 2000, cfr. «Le Monde Diplomatique», dicembre 2002.

9 Le prime due mappe israeliane vennero infatti presentate ai palestinesi durante gli incontri di Taba, nel gennaio 2001. Vedi gli appunti di Miguel Moratinos, inviato dell’Unione europea in Medio Oriente, pubblicati in «Haaretz», 14 febbraio 2002.

10 Per una sintesi su questi movimenti, cfr. P. Naso, I crociati dell’apocalisse: teopolitica dei fondamentalisti evangelici americani, in «Limes», 4/2002.

11 Oz, Una storia di amore e di tenebra, Feltrinelli, 2003.

12 L’articolo è tratto da un intervento alla conferenza internazionale «Transformation of the world system: trends and turning points» organizzata dal Moscow State Institute of International Relations (MGIMO University) e dall’Università degli Studi di Firenze, ISE Center che si è tenuta a Mosca il 27-28 ottobre 2003.