La debole resurrezione del sindacato

Di Lucio Baccaro, Mimmo Carrieri e Cesare Damiano Sabato 01 Novembre 2003 02:00 Stampa

Complessivamente gli anni Novanta hanno rappresentato un buon decennio per i sindacati italiani, anche se, come la maggior parte dei sindacati nei paesi avanzati, hanno perso un certo numero di iscritti. In Italia questa perdita è stata inferiore che altrove e, in questo periodo, sembra aver subito un rallentamento rispetto agli anni Ottanta. Comunque, il successo maggiore dei sindacati è avvenuto più sul piano politico che su quello organizzativo.

 

Lo scenario

Complessivamente gli anni Novanta hanno rappresentato un buon decennio per i sindacati italiani, anche se, come la maggior parte dei sindacati nei paesi avanzati, hanno perso un certo numero di iscritti. In Italia questa perdita è stata inferiore che altrove e, in questo periodo, sembra aver subito un rallentamento rispetto agli anni Ottanta. Comunque, il successo maggiore dei sindacati è avvenuto più sul piano politico che su quello organizzativo. Dopo la fine del «governo di solidarietà nazionale» nel 1979 e la sconfitta traumatica del sindacato dei metalmeccanici nello sciopero della FIAT del 1980, i tre sindacati confederali, CGIL, CISL e UIL, hanno subito un’erosione del loro potere politico, economico e organizzativo.1 Il fallimento della contrattazione tripartita nel 1984, congiuntamente alle rivendicazioni insistenti (in particolare da parte degli imprenditori metalmeccanici) di spostarsi dalla contrattazione collettiva a rapporti individuali con i dipendenti, è sembrato annunciare una marginalizzazione politica ed economica del movimento sindacale italiano. Abbastanza sorprendentemente per gli osservatori, comunque, i sindacati confederali hanno recuperato l’iniziativa strategica negli anni Novanta e sono stati in grado, non solo di partecipare, ma anche di influenzare in modo significativo e sostanziale tutte le decisioni politico-economiche italiane, dalle politiche dei redditi alla flessibilizzazione del mercato del lavoro, alla riforma delle pensioni.2

Si ritiene che la decisione di impegnarsi pienamente  nell’elaborazione delle politiche nazionali abbia avuto degli effetti considerevolmente positivi, anche se ciò ha comportato la partecipazione a scelte politiche difficili (e potenzialmente impopolari). Questa scelta è stata legata alla combinazione di tre fattori: l’apertura di nuove opportunità nella sfera politica, l’unità di azione fra le tre principali confederazioni, e una serie di riforme organizzative che hanno rafforzato la democrazia interna, e in questo quadro anche un aumento della capacità dei sindacati di essere maggiormente rappresentativi.

Se i principali fattori della rinascita del sindacato italiano sono da ricercare nella sfera politica, è proprio da questa sfera che, probabilmente, emergeranno le più importanti sfide per il futuro. La ricostituzione dei partiti dopo la crisi dei primi anni Novanta e soprattutto la configurazione bipolare assunta dal sistema politico potranno condizionare in prospettiva sia la partecipazione del sindacato alle decisioni pubbliche, che il suo grado di significatività. Da questo punto di vista, la recente vittoria di un governo di destra, sostenuto da una maggioranza elettorale più solida rispetto a quella dei precedenti governi di centrosinistra, potrebbe significare la fine dello stretto coinvolgimento del sindacato nel processo decisionale di tipo politico. Già lo si è visto nelle recenti negoziazioni sul mercato del lavoro e delle pensioni. È anche da considerare che le riforme organizzative volte a misurare la rappresentatività e, nel contempo, ad assicurare relazioni più strette fra i sindacati e i lavoratori a livello di base, sembrano aver perso lo slancio necessario e non compaiono più in modo centrale nell’agenda politica. Infine, forse la questione più importante, il ruolo politico del sindacato italiano è minacciato dall’interno, a causa dell’emergere della competizione fra le principali confederazioni. Se queste divisioni persisteranno, diventerà sempre più difficile per loro parlare con una sola voce, non solo nella sfera politica ma anche in quella economica.

Il testo procederà come segue. Primo, si esamineranno i trend relativi agli iscritti e alle attività organizzative. Secondo, si considereranno le relazioni fra i sindacati e l’arena politica e istituzionale. Terzo, sarà discusso lo sviluppo della partnership sociale a diversi livelli. Quarto, si esamineranno una serie di riforme organizzative. In conclusione saranno discusse le strategie vincenti del sindacato, facendo delle ipotesi sui possibili sviluppi futuri.3 Trend degli iscritti e organizzazione Le strategie organizzative sembrano meno importanti per i sindacati confederali italiani (CGIL, CISL e UIL) che per i sindacati di altri paesi, specialmente per quelli degli Stati Uniti e del Regno Unito. Queste ragioni hanno a che fare con le particolari condizioni istituzionali. I sindacati italiani non dipendono in modo cruciale dagli iscritti per il riconoscimento e i finanziamenti, almeno nel breve periodo. Il loro diritto di costituire strutture organizzative stabili all’interno di imprese con più di 15 dipendenti è garantito dalla legge. Anche gli accordi collettivi si applicano ai non iscritti, grazie all’estensione di fatto (sebbene non de jure) delle clausole di estensione.

La maggiore innovazione negli ultimi anni è stata il tentativo di organizzare i lavoratori atipici, specialmente i cosiddetti «parasubordinati»: lavoratori specializzati e professionalizzati che, nonostante lavorino in modo continuativo per una particolare impresa, sono formalmente assunti come consulenti indipendenti.4 Questo consente alle imprese di pagare minori contributi per la sicurezza sociale, garantendosi una maggiore discrezione nelle assunzioni e nei licenziamenti. Secondo l’INPS il numero dei collaboratori coordinati superano i due milioni: a essi vanno aggiunti circa un altro milione di lavoratori, che forniscono prestazioni come interinali o con altri rapporti a termine. Nel 1998 la CGIL e la CISL hanno costituito strutture organizzative rivolte a questi lavoratori (chiamate rispettivamente NIDIL e ALAI). Il loro numero di iscritti è relativamente basso, anche se in crescita: sono per ora alcune decine di migliaia. Il dato da sottolineare è che la loro esistenza prova la consapevolezza delle confederazioni del bisogno di andare oltre la loro base tradizionale, composta da lavoratori assunti stabilmente a tempo pieno, e di entrare nel crescente mondo del lavoro atipico e temporaneo.

I sindacati italiani, negli ultimi anni, hanno anche rafforzato le loro capacità di «servizio» (per esempio nei settori della salute e della sicurezza, delle pensioni, e dell’assistenza fiscale e legale) con l’obiettivo di attrarre nuovi iscritti.5 Queste attività di assistenza sociale sono accessibili anche da parte dei non iscritti. Ciò rende i sindacati idonei a finanziamenti pubblici e il bilancio del sindacato meno dipendente dal numero degli iscritti effettivi.

Il numero degli iscritti che pagano le quote è aumentato di 1.676.893 (18,6%) fra il 1980 e il 1998. È necessario mettere in evidenza il fatto che l’aumento si è verificato fra i lavoratori in pensione. Il numero dei lavoratori attivi è diminuito di 2.014.559 (28,2%) nello stesso periodo. Come risultato il tasso di sindacalizzazione è passato dal 49% nel 1980 (anno di picco) a poco più del 35% nel 1998 (si veda la Tabella 1 per i dati disaggregati per settore). Mentre questi trend hanno considerevolmente modificato la composizione interna dei sindacati (con i pensionati che hanno raggiunto il 49,4% degli iscritti totali nel 1998 in contrasto con il solo 18,1% del 1980), non sono state colpite le finanze dei sindacati. Va anche considerato che, dopo la metà degli anni Novanta, si è registrata una significativa ripresa delle iscrizioni tra i lavoratori attivi.

Come in altri paesi del Mediterraneo, come Francia e Spagna, la forza dei sindacati italiani non dovrebbe essere valutata in termini di iscritti, ma anche sulla base del loro rendimento nelle elezioni nei luoghi di lavoro. In questo particolare ambito, il record delle confederazioni è notevole: a seguito della definizione del nuovo meccanismo elettorale, negli anni Novanta (vedi la tabella) insieme hanno raggiunto il 95,5% dei voti nelle elezioni del settore privato. Il peso elettorale delle organizzazioni sindacali non affiliate alle tre maggiori confederazioni appare trascurabile nel settore privato nel suo complesso, sebbene sia sostanziale nell’ambito di particolari gruppi occupazionali, come i macchinisti e i piloti di aerei.

Nel settore pubblico, le elezioni nei luoghi di lavoro sono state rese obbligatorie da una legge del 1997. Qui, i sindacati confederali hanno ottenuto complessivamente il 70% dei voti. I sindacati non confederali hanno raggiunto il 30%, una proporzione rispettabile. In entrambi i settori privato e pubblico, il tasso di partecipazione ha sfiorato al 75%, più alto dell’affluenza nelle recenti elezioni politiche e nei referendum. Questo è stato un chiaro segno del fatto che ai lavoratori interessa la democrazia sindacale.

Tali risultati convalidano la rivendicazione dei tre sindacati confederali di rappresentare i lavoratori italiani. I meccanismi elettorali hanno rafforzato la loro legittimità agli occhi del grande pubblico nel momento in cui avvenivano importanti cambiamenti nella «struttura dell’opportunità politica».6 In particolare, il collasso dei maggiori partiti politici ha creato per loro maggiori aperture.

Tabella 1

Relazioni con i governi e i partiti politici

Nei primi anni Novanta, la contemporaneità della crisi politica e di quella economica ha fornito ai sindacati confederali italiani una gigantesca opportunità per imporsi nella sfera politica nazionale come i partner più importanti dei governi di «emergenza». Nel 1992, un’ondata di scandali di corruzione (Tangentopoli) ha scioccato il paese: sia la Democrazia Cristiana, sia i socialisti (che avevano giocato un ruolo chiave nel governo durante gli anni Ottanta) hanno subito un crollo della legittimità e sono scomparsi. Contemporaneamente, la lira è stata l’obiettivo di un’ondata di speculazioni finanziarie. Costretta a uscire dallo SME (Sistema monetario europeo) insieme ad altre valute deboli, in pochi mesi ha perso fino al 50% del suo valore rispetto al marco tedesco.7

I governi del 1992, 1993 e 1995 sono stati particolarmente deboli, nel senso che erano privi di maggioranze parlamentari chiare; negli ultimi due casi, consistevano in «tecnici», indipendenti formalmente, non collegati ad alcun partito politico. Allo stesso tempo, la serie di incarichi che questi governi dovevano compiere era enorme. In primo luogo, dovevano prevenire la svalutazione della lira, che avrebbe provocato una spirale inflazionistica. In altre parole, i lavoratori dovevano accettare la moderazione salariale, e per questo la collaborazione dei sindacati era indispensabile. In secondo luogo, lo stato delle finanze pubbliche italiane era disastroso (il deficit pubblico era circa il 10% del PIL fra il 1992 e il 1993 e il debito pubblico raggiungeva il 125% del PIL nel 1994). Da questo momento le tendenze deflazionistiche non avrebbero potuto essere controbilanciate da politiche anticicliche di tipo keynesiano. Al contrario, le autorità economiche italiane avevano bisogno di porre restrizioni fiscali, con tagli alla spesa pubblica, un aumento delle tasse e una serie di politiche che, probabilmente, si sarebbero dimostrate fortemente impopolari.

La definizione di due livelli contrattuali è stata un’importante vittoria per il movimento sindacale, dato che gli imprenditori avevano spinto per un livello contrattuale unico. I sindacati confederali speravano che le innovazioni istituzionali avrebbero esteso la contrattazione collettiva ai livelli più bassi, ma questo non sembra essere accaduto. Due terzi dei lavoratori nell’industria e nei servizi privati non sono ancora coperti dalla contrattazione decentrata. L’accordo del 1993 è stato preceduto da un referendum vincolante fra i lavoratori, il primo nella storia del movimento sindacale italiano. Circa un milione e mezzo di lavoratori hanno partecipato al voto, e di questi il 68% ha approvato l’accordo. Il referendum ha dimostrato di essere un mezzo forte e di legittimazione per la leadership del sindacato confederale; in quel momento non ci fu la rivolta di base, anche se in alcune fabbriche tradizionalmente attive i lavoratori hanno votato, in alcuni casi in modo schiacciante, contro l’accordo.

Nel 1995, la concertazione è stata estesa anche ai problemi dello Stato sociale. I sindacati confederali hanno negoziato con il governo la riforma strutturale, a lungo termine, del sistema pensionistico. Questa ha incontrato un’ampia opposizione interna, ma ancora una volta, alla fine, il dissenso è stato superato attraverso procedure democratiche di legittimazione (un referendum fra gli iscritti del sindacato preceduto da ampie assemblee dei lavoratori).8 Nel 1996 la concertazione si è spostata in un altro campo della politica: il «Patto per l’occupazione» ha aumentato moderatamente la flessibilità del mercato del lavoro, attraverso l’introduzione di nuove forme di lavoro temporaneo. Questo tipo di lavoro non era ammissibile nei luoghi di lavoro in cui vi erano stati licenziamenti nell’anno precedente, né avrebbe potuto essere usato per sostituire lavoratori in sciopero. Forse quel che più conta è che solamente i lavoratori specializzati potrebbero essere assunti con questi tipi di contratti temporanei.9 Nel dicembre del 1998, i tre sindacati confederali hanno firmato, a livello tripartito, il «Patto di Natale», che ha confermato le regole del gioco stabilite nel 1993, tra cui la struttura a due livelli della contrattazione collettiva; e ha anche rafforzato, tanto per il governo nazionale che per le amministrazioni locali, gli obblighi di consultazione delle parti sociali su tutte le principali questioni politico-sociali. Durante il corso degli anni Novanta la concertazione si è spostata a livello locale e ha coinvolto nuovi attori. Il patto del 1996 ha incoraggiato la formazione di partnership locali («concertazione locale») attraverso due strumenti. I cosiddetti «contratti d’area», che si occupavano della ripresa economica nelle aree di crisi, e i «patti territoriali», che avevano come obiettivo la promozione dello sviluppo economico locale, in particolare nel sud del paese. Questo programma di concertazione locale, sostenuto politicamente ed economicamente dall’UE, differiva in modo consistente dai precedenti approcci, dall’alto verso il basso, allo sviluppo economico nel sud:10 agli attori locali era chiesto di proporre soluzioni ai problemi che si trovavano ad affrontare. Successivamente il Tesoro valutava i progetti, selezionava i più promettenti, e forniva finanziamenti pubblici a integrazione delle risorse raccolte localmente.

Ancora non sappiamo quanta efficacia abbiano avuto questi patti nella riduzione della disoccupazione. Alcuni sembrano essere stati impostati esclusivamente per renderli funzionali a ricevere finanziamenti pubblici. Altre partnership, comunque, hanno prodotto nuovi legami, rafforzato rapporti che prima erano deboli, e creato livelli più alti di fiducia fra gli attori economici locali.11 Questi patti locali vanno oltre la tradizionale struttura tripartita e coinvolgono nuovi attori, come le banche, le università, le cooperative e le organizzazioni no profit. Possono così produrre «capitale sociale», sempre più visto come un importante prerequisito per lo sviluppo.12 Non meno importante, gli accordi di partnership locali hanno permesso ai sindacati di formare alleanze con le organizzazioni della società civile, e, così facendo, di rafforzare la loro posizione centrale nella società italiana.

 

Riforme organizzative

È importante rilevare un’importante innovazione nei comportamenti delle organizzazioni italiane. Esse, mentre cercavano di approfondire la democrazia «orizzontale», attraverso lo sviluppo di alleanze con le organizzazioni della società civile, hanno anche rafforzato la democrazia «verticale», attraverso l’aumento delle opportunità della base sindacale per determinare l’orientamento strategico del movimento. Piuttosto che indebolire la capacità dei sindacati confederali di impegnarsi nella definizione della politica nazionale, queste riforme li hanno invece rafforzati.

All’origine di questo sforzo si trova la situazione deficitaria che si era venuta a creare in precedenza. Infatti alla fine degli anni Ottanta il monopolio della rappresentanza delle confederazioni è stato minacciato da una serie di organizzazioni rivali, due sindacati «autonomi» che rappresentano particolari categorie di lavoratori, e il più militante COBAS (comitati di base).13 A seguito di questi sviluppi, molti osservatori, sia esterni che interni al movimento sindacale, hanno messo in dubbio la «rappresentatività» delle principali confederazioni. Gli imprenditori, per esempio, hanno sollevato dubbi relativamente al fatto che esse debbano essere realmente considerate come parti negoziali affidabili.

In risposta a queste sfide interne ed esterne, i sindacati confederali hanno promosso riforme organizzative volte ad aumentare la democrazia interna. A cominciare dal contratto dei metalmeccanici del 1987, hanno sottomesso tutti i maggiori accordi collettivi, incluso il patto sulla politica dei redditi del 1993 e l’accordo sulla riforma delle pensioni del 1995, al voto vincolante della base sindacale. Questo è stato utile per relegittimare il loro ruolo di agente contrattuale, sia con gli imprenditori che con la base sindacale. Hanno anche promosso procedure per le regolari elezioni dei rappresentanti dei luoghi di lavoro.

Tali sforzi sono culminati con il protocollo del luglio del 1993 sulla politica dei redditi sopra richiamato. Accordo che prevedeva una riforma delle strutture di rappresentanza sindacale a livello di stabilimento, oggi conosciute come «Rappresentanze sindacali unitarie» (RSU). Per la prima volta, le elezioni avrebbero potuto essere contestate da ogni organizzazione in grado di ottenere il sostegno di almeno il 5% della forza lavoro.14 Come mostrato prima, i risultati delle elezioni hanno ampiamente confermato la rappresentatività e la legittimità dei sindacati confederali, specialmente nel settore privato. Nel 1997, il modello delle RSU è stato esteso anche al settore pubblico, e i principali sindacati hanno registrato un sostanziale, anche se meno schiacciante, successo; ma più importante, perché ottenuto in un quadro di maggiore concorrenza sindacale. Questo tipo di riforme organizzative ha successivamente perso colpi. Il meccanismo delle RSU non è stato ancora legalmente sottoscritto nel settore privato: un disegno legge, basato sul compromesso fra le tre confederazioni, è stato bloccato prima dall’opposizione di Confindustria (la quale non era d’accordo sulla copertura delle piccole imprese), e dopo da rinnovate divisioni fra i sindacati confederali. L’entusiasmo per la democrazia organizzativa sembra essersi esaurito.

L’utilizzo di procedure democratiche per il processo decisionale ha la caratteristica di fornire risposte nette e non ambigue alle domande riguardanti quali politiche sono sostenute dai lavoratori e quali non lo sono. Questa chiarezza può essere guardata come una tendenza utile in una fase di rinnovata competizione tra le organizzazioni.

 

Le strategie che hanno funzionato

Abbiamo sostenuto che i sindacati italiani hanno ottenuto risultati relativamente buoni negli anni Novanta. Per esserne sicuri, questa «storia di successo» deve essere definita alla luce della loro continua perdita di lavoratori attivi, del processo di sostituzione fra gli iscritti attivi e in pensione che ha luogo nella loro base, e della bassa capacità di organizzare nuovi iscritti nei settori occupazionali più dinamici dell’economia. Tuttavia, i sindacati confederali sono stati in grado di capovolgere la loro incipiente debolezza economica e politica emersa nel corso degli anni Ottanta, e hanno riaffermato il loro ruolo in qualità di attori chiave nella sfera socio-politica italiana. Questi non sono risultati trascurabili, specialmente se guardati in una prospettiva di comparazione.

Non tutto questo rinascimento è dovuto solo alle attività sindacali. Nei primi anni Novanta si è aperta per loro una grande opportunità nella sfera politica. I governi centrali, relativamente deboli, che si sono trovati davanti a una maggiore crisi politica e a un bisogno di drastiche riforme politico-economiche hanno espresso una forte «domanda» relativa alla partecipazione del sindacato ai processi decisionali. I sindacati sono stati in grado di afferrare questa opportunità e di rispondere di conseguenza; in altre parole, hanno saputo fornire una risposta efficace alla domanda di concertazione che si era affacciata.15 Attraverso gli anni Novanta, conformemente allo schema di base, i sindacati confederali hanno adottato una «strategia di cooperazione» con altri importanti attori socio-economici. Presto la cooperazione è passata anche ai livelli più decentrati. Questa strategia ha obbligato i sindacati a fare scelte difficili. Dovevano concordare a un periodo di prolungata moderazione salariale e partecipare a politiche impopolari, come la riduzione dello Stato sociale e la flessibilizzazione del mercato del lavoro. Alla fine, avevano ben poco da mostrare ai propri iscritti in termini di benefici materiali; potevano solo argomentare, al contrario, che le cose sarebbero andate peggio se i sindacati non avessero assicurato che le garanzie di base per le fasce più deboli della forza lavoro fossero mantenute, che i «sacrifici» sarebbero stati distribuiti in modo equo e che i tagli ai diritti sociali sarebbero stati moderati e accompagnati dall’eliminazione dei privilegi goduti dai più avvantaggiati.

Curiosamente i lavoratori italiani non hanno punito i loro leader confederali. Al contrario, la perdita di iscritti attivi è prima rallentata, per poi fermarsi completamente nel corso degli anni Novanta. È quasi sorprendente se si considera che moltissime organizzazioni dei lavoratori competono con le tre confederazioni più importanti per la rappresentanza collettiva. Alcune di esse enfatizzano il conflitto piuttosto che la cooperazione; altre basano le loro strategie di rappresentanza sulla difesa dei gruppi specializzati o qualificati. Ci si potrebbe aspettare una strategia di limitazione e moderazione per imporre un pesante costo alle organizzazioni confederali e premiare i loro oppositori; ma non sembra ancora essere avvenuto. 

Questa strategia di cooperazione è stata positiva per diverse ragioni. L’«unità di azione» ha giocato un ruolo importante: tutte e tre le confederazioni hanno dato un sostegno assoluto alla strategia. In particolare per la CGIL, la sua adozione è stato il risultato di un lungo, e qualche volta contraddittorio, processo, largamente autonomo, di revisione ideologica. Ha radicalmente trasformato le proprie percezioni su cosa sia un sindacato e cosa dovrebbe fare, e cioè da un lato essere un agente di dissenso sociale e dall’altro partner nel processo di cambiamento economico. Un importante avvenimento in questo processo è stato il Congresso nazionale del 1991, durante il quale la CGIL ha abbandonato l’obiettivo della lotta di classe, ha adottato le richieste di contrattazione che erano compatibili con la solvibilità economica di lungo periodo delle imprese in un’economia capitalista e ha cominciato a perseguire la «codeterminazione» piuttosto che la trasformazione radicale delle relazioni sociali di produzione.16

Un altro importante fattore determinante del successo dei sindacati nel portare avanti la loro strategia cooperativa è stata la ricerca della trasparenza e della democrazia. L’opinione comune sui patti triangolari, come quello sulla politica dei redditi e sulla riforma delle pensioni, è che questi siano più efficaci quando definiti nelle stanze piene di fumo dai leader nazionali, in gran parte scollegati dalla loro base. Uno dei principi base nella teoria neo-corporativa (che si richiama a questo tipo di accordi) è che questo stesso scollegamento è ciò che rende, in un primo momento, possibili tali accordi. Finora i sindacati italiani hanno adottato un approccio completamente diverso. Hanno cercato di spiegare chiaramente perché hanno abbracciato particolari strategie negoziali, per assicurare che tali politiche fossero sostenute dalla maggioranza dei loro elettori. Queste scelte hanno implicato sia particolari comportamenti sia appropriate riforme organizzative. Dal punto di vista del comportamento, i leader sindacali hanno fatto precedere tutti i maggiori accordi contrattuali, incluso il controverso accordo sulla politica dei redditi del 1993 e la riforma delle pensioni del 1995, da migliaia di assemblee nei luoghi di lavoro e referendum vincolanti, nei quali i lavoratori hanno avuto l’opportunità di esprimere le loro opinioni. Il fatto che una maggioranza abbia espresso il proprio sostegno ha aumentato la legittimità delle decisioni collettive. Dal punto di vista delle riforme organizzative, i sindacati confederali hanno cercato di rivitalizzare i loro legami con la base attraverso l’istituzionalizzazione di regolari rinnovi elettorali dei rappresentanti nei luoghi di lavoro.

Quest’ultimo elemento ci porta a considerare un altro fattore determinante del successo: la simultanea attuazione di strategie apparentemente contraddittorie, concentrate sia sul centro che sulla periferia, sia sull’azione politica che su quella di base. Tradizionalmente, i sindacati impegnati in scambi politici a livello nazionale tendono a trascurare le loro strutture locali e a investire meno risorse nelle loro relazioni con la base.17 Per esempio, la contrattazione collettiva centralizzata spesso presuppone uno stretto controllo sulle strutture a livello di stabilimento e qualche volta sostituisce anche la contrattazione decentrata. La recente esperienza italiana mostra che le due strategie di centralizzazione e decentramento non sono soltanto compatibili, ma si rafforzano anche reciprocamente. La rivitalizzazione delle confederazioni nei luoghi di lavoro le ha aiutate a ottenere il sostegno dei lavoratori per le politiche nazionali. Allo stesso tempo, le risorse politiche guadagnate a livello nazionale sono state usate per introdurre le riforme (come la legge del 1997 che regola le elezioni nei luoghi di lavoro e decentra la contrattazione collettiva nel settore pubblico) che avrebbero ulteriormente rafforzato i livelli più bassi.

Questa strategia, che potremmo definire «duale», ha condizionato non solo l’organizzazione interna del sindacato, ma anche la struttura della contrattazione collettiva. L’architettura contrattuale introdotta su richiesta dei sindacati attraverso l’accordo tripartito del 1993, confermata poi dal patto tripartito del 1998, ha evitato il solito compromesso fra la standardizzazione centrale da una parte e la flessibilità decentrata dall’altra. Una struttura interessante di contrattazione collettiva «intrecciata» ha unito la negoziazione centrale delle linee guida nazionali con la possibilità di adattamenti a livello locale. Grazie a questa struttura di contrattazione collettiva i sindacati sono stati attivi sia a livello nazionale sia a livello locale in modo coordinato. Di per sé avevano meno ragioni che in passato di temere il decentramento della contrattazione collettiva,18 decentramento che, anche se non estremo ma piuttosto controllato, potrebbe effettivamente rivelarsi un’opportunità strategica.

Avendo dipinto un quadro roseo delle capacità dei sindacati italiani, ci affrettiamo ad aggiungere che non tutte le opportunità strategiche sono state colte durante negli anni Novanta. L’opportunità d’oro mancata è stata la fusione delle tre maggiori confederazioni in una sola organizzazione. Questo avrebbe infine realizzato uno dei sogni dell’«autunno caldo» del 1969. Nel 1996 e nel 1997, quando la CGIL e la CISL tennero i loro congressi, l’unità sembrava essere dietro l’angolo; anche una data per l’evento simbolico, l’anno 2000. Adesso, l’unità è di nuovo una prospettiva remota. Come accennato prima, le differenze, in particolare, fra CGIL e CISL sono recentemente cresciute in modo notevole; eppure molte di esse differenze non hanno molta importanza per i lavoratori di base. Inoltre, la distanza che separa gli iscritti è probabilmente minore di quella esistente fra due iscritti della CGIL, uno affiliato alla corrente di «sinistra» e l’altro a quella di «destra». Si può pensare che, oltre alle ambizioni personali, abbia pesato l’inerzia organizzativa (da entrambe le parti) per spiegare perché l’unificazione non si è materializzata in questo decennio: ma non si può sottovalutare la persistenza delle differenze delle culture sindacali.19

Si ritiene che questo sia, forse, il rischio maggiore per il futuro. La ricomparsa della competizione politica fra le tre confederazioni minaccia di disfare molte delle vittorie accumulate nella scorsa decade. La maggior parte dei risultati sono stati soltanto istituzionalizzati debolmente20 e si appoggiano sul consenso fra le parti coinvolte. Lo stato legale della concertazione, per esempio, è quello di un contratto fra il governo e i vari gruppi interessati, un contratto che può essere rinegoziato o, peggio, non mantenuto dai futuri governi. Anche le regolari elezioni dei rappresentanti nei luoghi di lavoro sono diventate legge nel settore pubblico, ma sono ancora basate su un accordo volontario nel settore privato.

Sarebbe ironico se i sindacati confederali dimenticassero le lezioni degli anni Ottanta e Novanta e sperperassero i vantaggi strategici che hanno accumulato. Questo potrebbe comportare il ritorno a una vecchia fase delle relazioni industriali italiane, caratterizzata da una debole istituzionalizzazione e dalla scarsa disponibilità degli interlocutori.

 

Le prospettive

Sono state esaminate le ragioni di successo delle strategie sindacali negli anni Novanta. È troppo presto per avere la profondità di visuale, necessaria per analizzare i cambiamenti in atto e le loro implicazioni pratiche. Però è aperto un dibattito e numerosi sono i dubbi intorno alla tenuta futura della ricetta del decennio scorso, fondata su politiche dei redditi accompagnate dal decentramento controllato della contrattazione, sull’impegno sindacale verso i beni pubblici coordinato con una attenta manutenzione della democrazia sindacale. Sono evidenti alcuni cambiamenti di scenario. Il primo consiste nel sostanziale abbandono da parte del governo delle politiche di concertazione che avevano giocato un ruolo così importante non solo per i sindacati. Il secondo aspetto è l’allontanamento più marcato dalla strada dell’unità sindacale, dopo le divisioni prodottesi tra le confederazioni nel 2002 e la firma separata del «Patto per l’Italia».

Il terzo elemento da evidenziare è la carenza di regole di misurazione della rappresentatività, che produce gravi incertezze nei casi di accordi controversi, come è successo per il contratto dei meccanici (e a differenza del settore pubblico, dove queste regole operano da tempo con successo). Inoltre potrebbe anche crescere, come effetto delle nuove leggi in materia di flessibilità del mercato del lavoro, l’area dei lavori temporanei e spezzettati, aggravando così le difficoltà di un’adeguata offerta di rappresentanza, già incontrate da parte del sindacalismo confederale.

Le organizzazioni sindacali hanno dato comunque una buona prova del loro radicamento sociale e della loro notevole capacità di mobilitazione, come si è potuto vedere anche nel corso della vicenda delle pensioni. Nonostante ciò, appare plausibile, anche in ragione del quadro politico più sfavorevole, che i sindacati corrano il rischio di diventare progressivamente più marginali nell’arena politica e nella sfera delle decisioni pubbliche, con possibili effetti di trascinamento sulla loro influenza nella società italiana.

È presto per tracciare bilanci, ma non bisogna sottovalutare le capacità di adattamento e di innovazione strategiche date già in passato dai nostri sindacati. Un’ipotesi di lavoro è che le confederazioni, se vorranno confermare il loro ruolo nello spazio politico e sociale, debbano insistere soprattutto sul versante dell’innovazione e dell’autoinnovazione: ma questo sarà materia di future, e più sistematiche, trattazioni.21

 

 

 

Bibliografia

1 R. Locke, Remaking the Italian Economy, Cornell University Press, Ithaca 1995.

2 Locke e L. Baccaro, The Resurgence of the Italian Unions?, in A. Martin e G. Ross (a cura di), The Brave New World of European Labour, Berghahn, New York 1999.

3 A causa del poco spazio, non saranno discusse esplicitamente le strategie internazionali del movimento sindacale italiano. Queste strategie appaiono meno importanti in Italia che in altri paesi europei. (Locke e Baccaro 1999, Martin e Ross, 2000). Le influenze internazionali sono state, comunque, abbastanza importanti nella determinazione delle strategie nazionali dei sindacati italiani. Infatti, l’impegno nell’integrazione europea aiuta a spiegare la loro accettazione della moderazione salariale sul piano nazionale e della riforma delle pensioni.

4 G. Altieri e M. Carrieri (a cura di), Il popolo del 10%, Donzelli, Roma 2000.

5 S. Leonardi, Rappresentanza sindacale e tutela individuale: una ricognizione del sistema dei servizi della CGIL, in «Assistenza sociale», 2/1999.

6 S. Tarrow, Power in movement, Cambridge University Press, New York 1994.

7 G. Vaciago, Exchange Rate Stability and Market Expectations: The Crisis of the EMS, in «Review of Economic Conditions in Italy», 1/1993.

8 L. Baccaro, Negotiating the Italian Pension Reform with the Unions: Lessons for Corporatist Theory, in «Industrial and Labor Relations Review, 55/2002.

9 Leonardi, La contrattazione interconfederale, in «CESOS. Le relazioni sindacali in Italia. Rapporto 1996-97», Edizioni Lavoro, Roma 1998.

10 A. Bonomi e G. De Rita, manifesto per lo sviluppo locale, Bollati Boringhieri, Torino 1998 e D. Cersosimo, I patti territoriali, in Cersosimo e C. Donzelli (a cura di), MezzoGiorno, Donzelli, Roma 2000.

11 Cfr. CNEL, Rapporto sulla concertazione locale, in «Laboratori territoriali», CNEL, Roma 1999.

12 R.D. Putnam, Making Democracy Work, Princeton University Press, Princeton 1992.

13 M. Carrieri e L. Tatarelli, Gli altri sindacati, Ediesse, Roma 1997.

14 M. Carrieri, L’incerta rappresentanza, Il Mulino, Bologna 1995.

15 M. Salvati, Breve storia della concertazione italiana, in «Stato e Mercato», 60/2000.

16 C. Mershon, The Crisis of the CGIL: Open Divisions in the Twelfth National Congress, in S. Hellman e G. Pasquino (a cura di), Italian Politics: A Review, Pinter, New York 1992, vol. 7.

17 Locke e Baccaro, Pedagogy and Politics in the Italian Union Movement: A Tale of Administrative Failure, in Locke e K. Thelen (a cura di), Redrawing the Boundaries of Contemporary Labour Politics, MA: MIT University Press, Cambridge, di prossima pubblicazione.

18 H. Katz, Decentralization of Collective Bargaining, in «Industrial and Labor Relations Review», 47/1993; J. Pontusson e P. Swenson, Labor Markets, Production Strategies and Wage Bargaining Institutions: The Employer Offensive in Corporative Perspective, in «Comparative Plitical Studies», 29/1996; K. Thelen, Varieties of Labor Plitics in the Developed Democracies, in P.A. Hall e D. Soskice (a cura di), Varieties of Capitalism, Oxford University Press, Oxford 2001.

19 A. Accorsero, La divisione sindacale, in «Il Mulino», n. 1/2003.

20 G.P. Cella, Criteria of Regulation in Italian Industrial Relations: A Case of Weak Institutions, in P. Lange e M. Regini (a cura di), State, Market and Social Regulation: New Perspectives on Italy, Cambridge University Press, New York 1989.

21 Una diversa versione di questo testo è apparsa in «European Journal of Industrial Relations», vol. 9, 1/2003.