Procreazione assistita e mediazione bioetica

Di Giorgio Tonini Sabato 01 Novembre 2003 02:00 Stampa

C’erano una volta le «questioni di coscienza»: di tanto in tanto, arrivavano sul tavolo della politica e davano luogo a maggioranze trasversali, che poco o nulla interferivano con le alleanze di governo. Erano le questioni che avevano a che fare con la vita e la morte, la sessualità e la famiglia. Ed erano questioni che si addensavano lungo la linea di confine tra cultura «laica» e cultura «cattolica». Talvolta davano origine a esperienze di dialogo (si pensi al nuovo diritto di famiglia), talvolta a momenti, anche assai aspri, di conflitto (il divorzio e l’aborto).

 

C’erano una volta le «questioni di coscienza»: di tanto in tanto, arrivavano sul tavolo della politica e davano luogo a maggioranze trasversali, che poco o nulla interferivano con le alleanze di governo. Erano le questioni che avevano a che fare con la vita e la morte, la sessualità e la famiglia. Ed erano questioni che si addensavano lungo la linea di confine tra cultura «laica» e cultura «cattolica». Talvolta davano origine a esperienze di dialogo (si pensi al nuovo diritto di famiglia), talvolta a momenti, anche assai aspri, di conflitto (il divorzio e l’aborto). In entrambi i casi, la relazione che si stabiliva tra la trattazione di quei temi e gli equilibri di governo, era assai mediata. Il PCI si giovò della vittoria laica sul divorzio per allargare i suoi consensi ed entrare nell’area del governo. Ma nessun governo è caduto e nessuna alleanza è saltata sulle «questioni di coscienza». La DC votò contro la legge sull’aborto, ma il presidente del Consiglio di allora, Giulio Andreotti, non fece come re Baldovino del Belgio, non abdicò: controfirmò la promulgazione della legge 194. E dopo la sconfitta del referendum del Movimento per la vita, lo stesso Andreotti osservò, non senza una punta di malizia, che il 32% antiabortista (che comprendeva anche l’apporto del MSI) era una cifra elettorale assai inferiore a quella che era capace di raccogliere, alle elezioni politiche, la DC da sola.

Le cose stanno cambiando velocemente. Intanto, c’è la novità della frequenza con la quale questi temi si affacciano alla soglia del confronto-scontro politico. I temi cosiddetti «post-materialistici» stanno infatti conquistando uno spazio centrale nel confronto politico. Anche perché stanno conquistando una rilevanza crescente nel dibattito culturale, nella riflessione sul futuro dell’umanità.

In secondo luogo, anche in conseguenza del primo fenomeno, stiamo assistendo all’utilizzo politico di questi temi, in particolare da parte del centrodestra italiano. Con una finalità strategica, al di là dell’obiettivo tattico di rafforzare il legame «concordatario» con una parte della gerarchia cattolica: quella di definire la propria identità di coalizione, abbandonato l’originario progetto berlusconiano di «partito liberale di massa», sulla falsariga dell’esperienza americana della moral majority.

Il centrosinistra patisce questa offensiva, perché la mancanza di una sintesi politico-culturale sui temi etici, tra laici e cattolici, lo fa apparire debole, diviso, in definitiva subalterno al gioco imposto dal centrodestra.

Mentre si va chiudendo la tradizionale via di fuga della «libertà di coscienza», sarebbe opportuno, anzi necessario e urgente – tanto più in vista dell’auspicata costruzione di una casa politica comune dei diversi riformismi – un dialogo più ravvicinato, alla ricerca di una comune visione di sintesi sui diversi problemi aperti, in un campo come quello bioetico, ormai non meno rilevante, sul piano politico, delle questioni internazionali o socio-economiche.

Tra le questioni bioetiche all’ordine del giorno in parlamento, c’è la legge sulla procreazione medicalmente assistita. Una legge che il centrosinistra non è riuscito a varare nella scorsa legislatura, per le divisioni manifestatesi tra laici e cattolici, e che il centrodestra, non senza contraddizioni interne, sta ora cercando di approvare, «blindando » a Palazzo Madama il testo approvato a Montecitorio.

Quando la questione è arrivata al Senato, il quadro sia legislativo che politico è apparso in larga parte compromesso: un testo di legge fortemente proibizionista, a livelli sconosciuti in Occidente e per molti versi assai probabilmente inapplicabile; un centrodestra parlamentarmente vincente (anche se preoccupato dei costi in termini di consensi, soprattutto nel mondo medico e nell’elettorato femminile); un centrosinistra spaccato, tra un centro cattolico subalterno e una sinistra isolata.

In questo difficile contesto, l’obiettivo perseguito è stato quello di riaprire il dialogo, contrastando la tentazione di una deriva laicista della sinistra e attestando i DS e, per quanto possibile, le altre formazioni di sinistra, su una linea che assumesse le preoccupazioni etiche, diffuse in particolare nel mondo cattolico, proponendo loro una diversa risposta legislativa, politica, culturale.

Punto di partenza di questa operazione è stata l’esplicita condivisione del recente richiamo di Jürgen Habermas sul rischio dello «scivolamento in una genetica liberale, vale a dire una genetica regolata dalla legge della domanda e dell’offerta». Un rischio che, secondo Habermas, va contrastato affermando la posizione politico-culturale per la quale i limiti del possibile ricorso agli strumenti della genetica debbono essere definiti «in maniera autonoma, a partire da considerazioni normative che rientrano nella formazione democratica della volontà» e non «in maniera arbitraria, a partire da preferenze soggettive che si soddisfano attraverso il mercato».

L’ingegneria genetica ha infatti a che fare con la natura umana e col complesso rapporto tra natura e cultura: un rapporto che incide sull’identità e il destino, non solo di ciascuna persona, ma anche, radicalmente, del genere umano come tale. Si tratta, come è evidente, di un ambito della decisione che, tanto più in una visione «di sinistra», non può essere affidato alla casualità del mercato, ma deve vedere il responsabile protagonismo della politica. Certo, una politica consapevole dei propri limiti, una politica che non ignori che la formazione democratica della volontà è, in un campo come quello bioetico, operazione particolarmente complessa.

Un intervento legislativo che voglia risultare possibile ed efficace, in un ambito delicato e sensibile come quello che concerne la sfera della trasmissione della vita umana, non può infatti scaturire dall’imporsi di una visione etica su altre, ma deve emergere dalla ricerca di una mediazione «alta», capace di tener conto di un quadro più ampio di quello nazionale e nella quale si possa riconoscere, almeno parzialmente, il più ampio spettro di posizioni e di visioni culturali e morali. La larga condivisione, in materie come questa, della soluzione normativa è del resto fattore di successo non secondario della legge stessa, sia sotto il profilo della sua efficacia tecnica, sia sotto il profilo della sua capacità di influenzare positivamente il costume morale collettivo.

L’intervento legislativo in campo bioetico deve pertanto ricercare, senza mai perdere il riferimento al più ampio quadro legislativo almeno europeo, un punto di incontro tra le diverse visioni e un punto di equilibrio nella tutela di valori talora in relazione di reciproca contraddizione: il diritto alla salute, che include anche il diritto alla cura della sterilità, insieme al diritto-dovere di prevenire la trasmissione di malattie per via genetica; il riconoscimento della responsabile libertà della coppia come soggetto della procreazione; il principio di precauzione circa gli effetti biologici, psicologici e sociali del ricorso alle tecniche di fecondazione assistita; il riconoscimento non della «personalità giuridica», che è forzatura irragionevole, ma della «dignità umana» dell’embrione; la tutela dei diritti del nascituro e del nato da procreazione assistita.

Rispetto a questa fitta griglia di criteri valutativi, il testo approvato dalla Camera necessita, per giudizio largamente condiviso tra i medici, gli scienziati, i ricercatori, ma anche i giuristi e i filosofi, per non parlare delle associazioni dei pazienti, di un circoscritto ma incisivo intervento emendativo.

Cinque in particolare i punti critici del testo, come è emerso dalle lunghe audizioni effettuate dalla Commissione sanità del Senato.

Il primo è il divieto di utilizzo delle tecniche di fecondazione medicalmente assistita per la prevenzione delle malattie trasmesse per via genetica. Si tratta di una pratica che si è andata diffondendo nel nostro paese e che consiste nella produzione in vitro di più embrioni e nell’impianto nell’utero della madre di un embrione sano, selezionato attraverso la diagnosi preimpianto. Si tratta, come è evidente, di una tecnica che comporta la distruzione di embrioni e come tale è eticamente controversa, anche perché ove praticata in modo estensivo potrebbe dar luogo a pratiche di tipo eugenetico. E tuttavia, non è possibile neppure ignorare che il divieto di ricorrere alla fecondazione assistita con diagnosi preimpianto e selezione embrionaria finirebbe per indurre le coppie affette o portatrici sane di malattie genetiche o a rivolgersi a strutture di altri paesi, o a fare ricorso all’aborto terapeutico.

Naturalmente, la posizione che considera eticamente preferibile la soppressione di embrioni malati prima dell’impianto, rispetto all’aborto terapeutico che interrompe l’esistenza di feti dopo la decima settimana di gravidanza, può non essere condivisa da chi consideri sacra e inviolabile l’esistenza dell’embrione dal momento del concepimento. Jacques Maritain scriveva nel 1967 che «uccidere un essere che possiede virtualmente la natura umana ed è fatto per essere uomo, è lo stesso delitto che uccidere un uomo». Ma ciò non impediva a Maritain di cogliere la dinamica evolutiva tra l’embrione, il feto e il nato: «Ammettere che il feto umano, dall’istante della sua concezione, riceva l’anima intellettiva quando la materia non è ancora in nulla disposta a questo riguardo, è ai miei occhi un’assurdità filosofica. È tanto assurdo quanto chiamare bebè un ovulo fecondato. Significa misconoscere completamente il movimento evolutivo, che viene in realtà considerato un semplice movimento di aumento o di crescita».

Il testo approvato dalla Camera non solo misconosce, ma addirittura capovolge il movimento evolutivo di cui parla Maritain. Il comma 1 dell’articolo 14 recita infatti testualmente: «È vietata la crioconservazione e la soppressione degli embrioni, fermo restando quanto previsto dalla legge del 22 maggio 1978, n. 194». Sulla base di questo testo, nell’ordinamento giuridico italiano, l’embrione sarebbe sacro e inviolabile allo stadio di ovulo fecondato visibile solo al microscopio e privo dell’ambiente materno che gli è indispensabile per venire al mondo; e invece sostanzialmente dipendente dall’autonoma determinazione della donna una volta raggiunto lo stadio fetale. Si tratta, come è evidente, di una assurdità logica.

Un secondo punto critico del testo, evidenziato dallo stesso parere della Commissione giustizia del Senato, si trova al comma 3 dell’articolo 6, ove si prevede che la volontà di accedere alle tecniche di fecondazione assistita possa essere revocata da ciascuno dei due soggetti della coppia solo «fino al momento della fecondazione dell’ovulo».

La ratio della norma è chiara, coerente col divieto di soppressione e anche di congelamento dell’embrione e conseguente all’implicito riconoscimento dello status di persona all’embrione stesso. E tuttavia la norma rischia di essere inapplicabile, nel caso in cui la donna effettivamente revochi il suo consenso all’impianto in utero dell’ovulo fecondato. Come ha scritto Stefano Rodotà, alla luce di quanto previsto dal comma 5 dell’articolo 14, che prevede il diritto degli interessati di essere informati «sullo stato di salute degli embrioni prodotti e da trasferire nell’utero», si dovrebbe concludere «che la donna sarebbe obbligata ad accettare il trasferimento nell’utero anche nel caso in cui vi fosse la certezza della nascita di una persona con gravi malformazioni. A questo obbligo, tuttavia, si accompagnerebbe poi il diritto di ricorrere all’interruzione della gravidanza, dando così vita a una situazione giuridicamente ed eticamente paradossale e preoccupante».

Il paradosso messo in luce da Rodotà scopre uno dei nervi più sensibili nel dibattito sulla procreazione assistita: il cosiddetto statuto giuridico dell’embrione.

Secondo il Centro di bioetica dell’Università Cattolica del S. Cuore, «analogamente a ciò che vale per l’uomo nato, dovranno essere sanciti anzitutto il diritto dell’uomo nascituro alla vita e alla salute e il divieto, anche penalmente qualificato, di ogni intervento sull’embrione che non sia compiuto a beneficio complessivo dell’embrione stesso». L’autorevole centro cattolico parla di «analogia» tra l’embrione e l’uomo nato: e in effetti sarebbe arduo spingersi oltre, se non affrontando a viso aperto la battaglia per una nuova legislazione proibizionista sull’aborto e se non prefigurando un sistema sanzionatorio per la soppressione dell’embrione (e del feto) di pari forza a quello in vigore per la soppressione dell’uomo nato.

Se nessuno si è spinto oltre le colonne d’Ercole della «analogia», è perché sul piano giuridico c’è una differenza di fondo tra l’embrione e l’uomo nato. Come ha detto il 29 ottobre scorso Brigitte Zypries, ministra della giustizia del governo federale tedesco, in un discorso alla Università Humboldt di Berlino, «anche in vitro l’embrione non è un qualsiasi mucchio di cellule del quale genitori, medici e ricercatori possano disporre a piacimento. Essi debbono esercitare la loro libertà costituzionalmente garantita in modo non disgiunto dalla responsabilità nei confronti dell’embrione». E tuttavia, prosegue la ministra, la vita dell’embrione «non dipende solo dallo Stato, ma soprattutto da una donna disponibile a portare a termine una gravidanza. A questo lo Stato non può obbligare nessuno».

Un terzo punto critico, denunciato da quasi tutti i medici intervenuti nel corso delle audizioni in Commissione, è quanto previsto dal comma 2 dell’articolo 14, per il quale le tecniche di fecondazione assistita «non devono creare un numero di embrioni superiore a quello strettamente necessario a un unico e contemporaneo impianto, comunque non superiore a tre». Il fine dichiarato di questa norma è quello di evitare la produzione di embrioni cosiddetti «soprannumerari» e quindi di rimuovere alla radice la controversa questione, di indubbia problematicità etica, sulla destinazione degli stessi.

Tuttavia, a giudizio pressoché unanime dei medici ascoltati dalla Commissione, con questa norma il legislatore italiano obbligherebbe il medico a utilizzare una metodologia non solo non ottimale, ma addirittura tale da essere contraria alla deontologia e all’etica medica. Se venisse introdotto, come proposto dal testo in esame, il divieto di produrre embrioni potenzialmente soprannumerari e l’obbligo di impiantare subito tutti e tre gli embrioni prodotti, si avrebbe la notevole diminuzione delle percentuali di successo del trattamento e ogni donna dovrebbe, in media, triplicare i cicli di procreazione medicalmente assistita, con i relativi rischi e disagi, per ottenere le stesse percentuali di gravidanza.

Tutto ciò, peraltro, avverrebbe «solo in Italia – fa notare il professor Flamigni – perché in tutti gli altri paesi il congelamento degli embrioni è consentito (visto che Austria e Germania, che l’avevano proibito, autorizzano la crioconservazione degli zigoti allo stadio pre-singamico). Personalmente conto molto sulla possibilità di sostituire il congelamento degli embrioni con quello degli ovociti: ma questo vuol dire sperimentazione e tempo, e sarebbe stata opportuna una fase di transizione». Il quarto punto critico è il divieto assoluto di ricorrere alla procreazione medicalmente assistita di tipo eterologo (comma 3 dell’articolo 4), ossia effettuata con materiale genetico esterno alla coppia. La principale motivazione addotta a sostegno del divieto, quella del diritto del nascituro a un quadro parentale che veda l’identificazione tra la dimensione biologica e quella giuridica della genitorialità, appare di incerta sostenibilità giuridica, nonché di controversa fondazione filosofica. In ogni caso contraddittoria con il principio del limite della politica e del diritto. Un limite che non può essere dilatato fino a penetrare il territorio misterioso delle ragioni che motivano la procreazione e che rendono una vita umana degna di essere vissuta. L’argomento dell’interesse del «congetturo» acquisterebbe senso solo in presenza di dati di fatto che evidenzino forme di sofferenza o quanto meno di disagio nell’ambito dell’ormai popolosa comunità dei nati da fecondazione eterologa. E invece, nessuna ricerca empirica ha potuto mettere in evidenza danni o anche solo problemi apprezzabili, vuoi di natura fisiologica, vuoi di natura psicologica, a carico dei nati mediante il ricorso a tali tecniche.

Il quinto punto critico riguarda il rapporto tra tutela dell’embrione e libertà di ricerca. Il testo all’esame del Senato esclude la possibilità di utilizzare a fini di ricerca medica tutti gli embrioni, compresi quelli destinati alla soppressione. Tale divieto, secondo Augusto Barbera, «non pare compatibile con la libertà di ricerca scientifica, sancita dall’articolo 33 della Costituzione». In un’intervista all’Espresso del 5 settembre 2003, Giuliano Amato aggiunge: «trovo scandaloso il medico di famiglia che non si occupa di far prendere alla donna una decisione consapevole, ma lascia il certificato per l’aborto in portineria. Di mezzo c’è la vita di un bambino. Io parlo così: la vita di un bambino. Ma trovo che sia altrettanto immorale lasciar morire migliaia di embrioni e non occuparsi di costruire un sistema che produca cellule staminali. Un embrione destinato a morire non è diverso da un bambino appena morto a cui è permesso espiantare gli organi per la sopravvivenza di un altro bambino».

Cinque punti critici, quelli esposti fin qui, dai quali risulta evidente come il testo di legge varato dalla Camera non risponda all’esigenza di dotare il nostro paese di una legge in sintonia con l’Europa, capace di costituire un punto di incontro e non di conflitto tra le diverse visioni etico-culturali e soprattutto tecnicamente applicabile da parte degli operatori, medici e non.

Scriviamo senza conoscere l’esito del confronto in aula al Senato. Quel che appare certo è che la parziale correzione dei cinque punti critici potrebbe dare al provvedimento un’altra luce e un altro respiro. Si tratterebbe di prevedere un’apertura, rigorosamente disciplinata, alla prevenzione delle malattie genetiche, con la diagnosi preimpianto e la selezione embrionaria ammesse solo nei casi di grave rischio genetico, in modo da scongiurare il rischio del diffondersi di pratiche eugenetiche. Non dovrebbe essere difficile una più realistica trattazione del problema del consenso della donna all’impianto in utero, così come un’apertura alla crioconservazione, quanto meno (sul modello tedesco e in attesa di buone notizie sulla conservazione degli ovociti) degli zigoti allo stadio precedente alla fusione nucleare. L’accesso alla fecondazione eterologa dovrebbe essere consentito nei casi di accertata impossibilità, certificata da apposita commissione medica pubblica, di fare ricorso a tecniche di tipo omologo. Infine, si tratterebbe di accogliere l’emendamento Amato, che prevede la possibilità di utilizzare gli embrioni soprannumerari per definiti obiettivi di ricerca.

Attestandosi su questa linea, la sinistra democratica ha fatto la sua parte, abbracciando un’idea responsabile e solidale della libertà individuale. Le speranze in una legge equilibrata sono ora appese al fragile filo del destino in Italia del cattolicesimo liberale e democratico. Gian Enrico Rusconi, su «La Stampa» del 1 novembre scorso, commentando la discussione sul crocifisso nelle scuole, lo dava per ormai «rimosso dalla scena politica italiana». Noi confidiamo nella risurrezione.