Femminismo e giovani donne. C'è ancora bisogno di un movimento?

Di Marina Cacace Lunedì 01 Settembre 2003 02:00 Stampa

«Oggi il femminismo ha una presa così salda e organica nella vita delle donne, che tutto ciò che esse fanno può contenere elementi di “femminismo in azione” (…). Quello che sta accadendo sotto i nostri occhi è una “rivoluzione tranquilla”, che non viene espressa in assemblee pubbliche ma nella vita di tutti i giorni. (…) La nostra politica emerge dalla nostra vita quotidiana».

 

Voci contrastanti

«Oggi il femminismo ha una presa così salda e organica nella vita delle donne, che tutto ciò che esse fanno può contenere elementi di “femminismo in azione” (…). Quello che sta accadendo sotto i nostri occhi è una “rivoluzione tranquilla”, che non viene espressa in assemblee pubbliche ma nella vita di tutti i giorni. (…) La nostra politica emerge dalla nostra vita quotidiana».1

«Le giovani donne sperimentano un eccesso di speranza dovuta a mancanza di esperienza. Non hanno ad esempio esperienza dei problemi di cura, perché la maggioranza delle donne a trenta anni non ha ancora né figli né parenti anziani da curare. Non hanno nemmeno avuto il tempo di sperimentare il “tetto di vetro” che incombe sulle loro carriere. Mentre si godono le libertà personali garantite dalla generazione precedente, lo Stato smantella servizi e benefici. Senza qualche nozione di Realpolitik queste ragazze si divertiranno ancora per poco».2

«Secondo un sondaggio, il 70% delle giovani donne australiane non si considera femminista. Poiché naturalmente tutte crediamo nella parità dello stipendio, nella libertà dalle molestie sul luogo di lavoro e nella libertà sessuale, come ci dovremmo chiamare, allora? (…) Crediamo che il nostro sia un “femminismo esistenziale”, che riguarda la pratica individuale e l’assunzione di sfide al livello personale».3

«Il problema consiste nel fatto che spesso le giovani donne vivono il nodo della conciliazione al livello individuale. Succede allora che le difficoltà restino soggettive, personali, che non si trasformino in una richiesta sociale imperiosa e quindi non assumano una centralità strategica all’interno delle politiche generali di welfare (…)».4

Questo dialogo a distanza tra donne molto diverse per età, provenienza geografica, background culturale e professionale esemplifica con una certa chiarezza quali questioni ponga al femminismo l’impatto con le giovani donne e suscita un interrogativo cruciale, che deve essere messo in evidenza anche a costo di semplificare eccessivamente la realtà. C’è ancora bisogno di un movimento femminista con una forte identità politica, per tutelare e promuovere i diritti delle donne e il loro spazio nella società a tutti i livelli? O siamo entrati in una fase nella quale ormai il femminismo politico è uno strumento obsoleto, che rischia di essere ghettizzante e  che andrebbe semmai sostituito – come propongono le femministe americane della «Third Wave» – con un approccio marcatamente culturale e dal taglio esistenziale?

 

Una condizione ambivalente

Non è facile dare una risposta a un simile interrogativo, soprattutto se si considera il fatto che, nel contesto della globalizzazione, non è possibile prendere in esame le sole donne dei paesi occidentali. L’inclusione delle donne del Sud del pianeta comporta allora un ampliamento delle tematiche del femminismo tradizionale e complica ulteriormente il quadro, anche perché esse sono protagoniste, almeno in quei paesi dove questo è possibile, di un attivismo sociale senza precedenti, soprattutto in merito alle questioni collegate allo sviluppo. Inoltre, le difficoltà di valutare la reale condizione delle donne nelle società contemporanee e i risultati raggiunti finora dal movimento femminista rendono ancora più complesso il nodo da sciogliere. Se davvero il femminismo ha prodotto risultati che sono stati ormai incorporati nel senso comune delle nuove generazioni, un movimento che si serva delle tradizionali forme dell’azione politica potrebbe davvero risultare inattuale, soprattutto agli occhi delle giovani donne. Se invece, contro ogni aspettativa, persistono o – come addirittura sembra in certi casi – si aggravano alcune tendenze segreganti e alcuni fattori negativi che colpiscono le donne, l’atteggiamento inconsapevolmente ottimista delle ragazze può rappresentare un pericolo tale da mettere in discussione risultati conseguiti con grande fatica.

L’ambiguità sembra d’altra parte proprio il tratto caratteristico della situazione che vivono oggi le donne. È ormai diffusa, ad esempio, l’abitudine di riferirsi al soggetto femminile evocando contemporaneamente le immagini della forza e della debolezza, della fragilità e del coraggio. Ciò che più sorprende, tuttavia, è come tale ambivalenza si riproduca in situazioni e contesti differenti. Nonostante le condizioni di vita a volte anche radicalmente diverse, infatti, tanto al Nord quanto al Sud del pianeta le donne – da una parte – rappresentano in maniera evidente una risorsa preziosa e insostituibile in tutti gli ambiti della vita sociale (anche nei paesi più poveri e nelle condizioni più disperate) e – dall’altra – sono particolarmente esposte a rischi intensi e specifici del loro genere (anche nei paesi più ricchi e nelle condizioni più fortunate). Le politiche e gli interventi rivolti alle donne e promossi dagli organismi internazionali nei paesi in via di sviluppo, ad esempio, devono fare continuamente i conti, e molto concretamente, con questa ambiguità. Le donne sono così il target di programmi finalizzati a ridurne l’esposizione ai rischi sociali e ambientali, che le colpiscono con intensità maggiore rispetto agli uomini (rischi di povertà ed esclusione sociale, mancato rispetto dei diritti, soggezione alla violenza, ecc.). Ma vengono anche spesso identificate come il soggetto da rafforzare e promuovere per garantire il successo di strategie di sviluppo di più ampio respiro, e questo perché, sulla base dell’esperienza, vengono generalmente considerate più attive, più affidabili, dotate di maggiore determinazione (basti pensare ai programmi di microcredito o alla sanità al livello di base).5 Sul soggetto femminile incidono dunque, contemporaneamente, fenomeni di segno opposto.

 

Fenomeni negativi

In relazione agli elementi negativi, è quasi superfluo ricordare che le donne sono le prime vittime della violazione dei diritti umani e della violenza, in tutto il mondo. Nel Sud, sono sovrarappresentate tra le vittime civili delle guerre e subiscono sistematiche violazioni dei loro diritti umani, mentre i rifugiati, nel mondo, sono per l’80% donne. Stupri e violenze di massa sulle donne fanno ormai spesso parte delle strategie militari.6 Anche nel Nord, tuttavia, persiste e si aggrava la violenza contro le donne. In Europa il 20% (negli Stati Uniti il 25%) delle donne ha subito almeno una volta un’aggressione violenta da parte del marito, dell’ex marito o di un partner. A differenza di quanto accade agli uomini, le donne subiscono violenza, nella stragrande maggioranza dei casi, ad opera di persone che conoscono bene, in primo luogo il marito o il compagno.7

Il fenomeno della «femminilizzazione della povertà» ha cominciato a essere registrato a partire dagli anni Settanta, quando è stata osservata la presenza differenziata di donne e uomini tra i poveri, nel Nord come nel Sud del pianeta. La stima più diffusa parla di un rapporto di 70 a 30 tra donne e uomini poveri. Tale stima non ha una validità assoluta, in quanto le differenze tra i paesi sono molto importanti, ma dà comunque il senso della direzione dei processi di esclusione. Nel Nord, le cause identificate fanno riferimento ai mutamenti nei sistemi familiare, economico e di welfare. Nel Sud incide fortemente anche la discriminazione delle donne sul piano giuridico.8

Quanto alla segregazione occupazionale, c’è innanzitutto da registrare la persistenza di quella cosiddetta «orizzontale», ovvero la concentrazione delle donne in poche aree occupazionali, tipicamente svalutate, proprio in quanto ritenute femminili. Nel 2000, il 48% delle donne europee occupate lavorava in soli quattro settori: sanità e servizi sociali, educazione, pubblica amministrazione, commercio al dettaglio. Rispetto alla segregazione detta «verticale» (cioè lo scarso accesso delle donne alle posizioni apicali), se esaminiamo i risultati conseguiti dalle donne americane, spesso considerate il simbolo della capacità femminile di affermarsi, troviamo che nel 2001 le senior manager rappresentavano solo il 5% del totale.

Certamente c’è stato negli ultimi anni, in tutti i paesi sviluppati, un forte aumento di donne manager ai livelli intermedi o medio-alti, ma quando si considera il livello apicale, le americane sono ferme al 5% da anni. Ma anche in un paese come la Svezia la percentuale di donne in posizioni apicali si è arrestata intorno al 5% e in nessun altro paese si registrano da venti anni risultati migliori.9 D’altro canto, in nessun paese del mondo il carico del lavoro di cura è distribuito in maniera neanche lontanamente equilibrata tra i generi, e le trasformazioni in questa area sono altrettanto e forse ancora più lente di quelle nel mondo del lavoro.10

La situazione non è più favorevole per ciò che concerne l’accesso al potere politico. La rappresentanza delle donne ai più alti livelli del decision-making nazionale e internazionale non è cambiata. Le donne continuano a essere minoranza nei parlamenti nazionali (con una media mondiale del 13% nel 1999). Solo nei paesi dove è in vigore un sistema di quote (ad opera della legislazione nazionale o dei partiti politici) i tassi di partecipazione aumentano (in Svezia il 40% dei parlamentari è donna, in Eritrea il 22%, in India la presenza delle donne nei governi statali arriva al 33%).11

 

Fenomeni positivi

In una diversa ottica e osservando altri fenomeni – alcuni dei quali ancora relativamente nuovi o poco studiati – è possibile osservare come le donne si trasformino immediatamente, da soggetto bisognoso di sostegno e destinatario di investimenti sociali in risorse determinanti per lo sviluppo. Un esempio, particolarmente rilevante nell’attuale congiuntura storico-politica, riguarda l’azione orientata alla pace. Ci sono ormai molte ricerche a livello internazionale che confermano come le donne svolgano un ruolo centrale per la gestione dei conflitti e, soprattutto, per la ricostruzione del tessuto sociale nelle fasi, pericolosissime e fortemente instabili, del post-conflitto. Queste ricerche vengono considerate attendibili da organismi internazionali e banche di sviluppo, che investono ormai costantemente sull’azione di ricostruzione della coesione sociale e di pacificazione a livello locale svolta dalle donne e dalle loro organizzazioni.12

In tutti i paesi del mondo sviluppato, poi, si registra un sorpasso, piuttosto pronunciato, delle ragazze sui ragazzi per quanto riguarda l’istruzione. Le giovani europee, ad esempio, hanno minori probabilità di abbandonare la scuola prima del completamento degli studi secondari rispetto ai maschi e si iscrivono ai corsi universitari in percentuale maggiore. Il 56% di coloro che in Europa si sono laureati nel 2000 era costituito da donne. Nei paesi in via di sviluppo la situazione è maggiormente diversificata, ma in molti casi è stata praticamente raggiunta la parità tra uomini e donne. Dove questo non accade, la ragione va spesso rintracciata in due circostanze principali: la presenza di un conflitto o di forte instabilità sociale (i livelli di partecipazione delle ragazze crollano immediatamente), o la presenza di interpretazioni restrittive e oppressive della fede religiosa.13

Si stanno inoltre consolidando le prove empiriche relative all’esistenza di uno «stile di leadership» femminile. Molti studi – condotti sia nel settore pubblico che in quello privato e non profit – concordano, seppure in termini e con sfumature differenti, sul fatto che le donne leader, ovunque nel mondo, tendono ad aderire, con maggiore frequenza rispetto agli uomini, a uno stile di leadership definito di volta in volta «trasformazionale», «interattivo» o «democratico», che le porta a favorire la partecipazione e l’inclusione, a essere maggiormente disposte a condividere il potere e le informazioni, a migliorare l’autostima dei collaboratori, a trasmettere entusiasmo per il lavoro e i suoi obiettivi.14

Per quanto riguarda infine l’impresa, le donne imprenditrici sono meno numerose degli uomini e le loro imprese sono più spesso piccole o di natura informale e posizionate in settori tradizionalmente femminili.15

Tuttavia, ci sono segnali che mostrano come una nuova generazione di donne imprenditrici si stia affermando in molti paesi del mondo, mettendo a frutto la maggiore qualificazione raggiunta e adottando strategie orientate all’alta qualità, sia in settori tradizionali che in settori non tradizionali.

 

Il femminismo tra politica e vita quotidiana: un’ipotesi di ricerca

Uno sguardo anche distratto alle tendenze negative sopra richiamate non può non rafforzare il punto di vista di quanti sostengono che è necessario non abbassare la guardia e che deve continuare a essere attivo un soggetto politico (in senso ampio) che si prenda cura dei gravi problemi che affliggono le donne, problemi che, nel Sud come nel Nord del pianeta, mostrano una certa tendenza a persistere e a riprodursi nel tempo. Se le giovani donne ignorano il femminismo, lo rifiutano apertamente, o al massimo lo considerano benignamente un reperto storico che interessa fino a un certo punto, chi si farà carico di questi problemi? D’altra parte, elementi positivi come quelli brevemente delineati sopra sembrano suggerire l’esistenza di alcuni approcci alla realtà e di alcuni modelli di comportamento, ampiamente diffusi tra le donne, che si stanno rivelando particolarmente promettenti per la loro affermazione in ogni ambito della vita sociale. Sembra, insomma, che le donne stiano praticando valori e stili propri e – grazie alle vittorie conquistate sul campo dalle generazioni che le hanno precedute – che esse possano affermare e imporre tali valori e stili con una libertà e un’autorevolezza di cui in passato non hanno mai potuto godere. Una simile pratica, quotidiana e diffusa, potrebbe avere effetti sociali di lungo periodo addirittura rivoluzionari, senza bisogno di dare vita a un movimento. Il nodo da sciogliere potrebbe allora essere formulato nei seguenti termini: con l’attenuazione del movimento delle donne è forse scomparso ogni orizzonte di cambiamento e di consapevolezza per il soggetto femminile? O meglio: si può dire che sia all’opera, in questo momento e anche in assenza di un forte movimento femminista, un’azione femminile orientata al cambiamento in grado di affrontare in maniera pertinente i gravi problemi che sono stati ricordati? E se non si configura come un’azione politica in senso tradizionale, di che tipo di azione potrebbe trattarsi?

Può essere utile, come traccia per la formulazione di un’ipotesi di ricerca per dare risposta a questi interrogativi, richiamare la distinzione utilizzata in sociologia tra i concetti di azione collettiva e azione sociale.16

Mentre con l’espressione «azione collettiva» si intende l’azione organizzata di un gruppo sociale che condivide interessi e obiettivi comuni, finalizzata alla tutela di tali interessi e alla promozione di tali obiettivi,17 l’azione sociale ha, paradossalmente, forme di concretizzazione più propriamente individuali, anche se è condivisa da molti individui. La definizione classica, tratta da Max Weber,18 identifica l’azione sociale con gli atti dotati di senso compiuti da soggetti individuali in relazione al perseguimento di un fine, alla pratica di un valore o al rispetto di una tradizione.19 Fini, valori e tradizioni sono dunque gli elementi che collegano l’azione dell’individuo al più ampio contesto sociale in cui egli è inserito. In virtù di tale collegamento, l’azione sociale può dunque essere più sinteticamente definita come «un modello operazionale interiorizzato»,20 ovvero un modello di azione, diffuso nel contesto sociale esterno, col quale determinate categorie di soggetti entrano in contatto, attraverso le più diverse forme di socializzazione, comunicazione o esperienza, e che viene adottato da tali soggetti in virtù di un processo di internalizzazione, spesso in funzione del perseguimento di obiettivi di cambiamento.21

In questa prospettiva, l’attenuazione dell’azione collettiva costruita intorno all’identità femminile potrebbe essere letta, non come il segno della dissoluzione della «energia sociale» che questa stessa azione collettiva aveva prodotto (in termini, ad esempio, simbolici, culturali o di mutamento sociale), bensì come un processo di trasformazione. Sarebbe suggestivo immaginare che tale energia, piuttosto che dissiparsi, si sia incanalata verso forme di azione più diffuse, personali e pervasive, anche se meno visibili. Facendo ricorso alla distinzione appena richiamata, e sulla falsariga delle teorie che hanno tentato di interpretare la crisi dei movimenti degli anni Sessanta e Settanta e la trasformazione della spinta sociale che li caratterizzava,22 si potrebbe allora affermare che si è passati da una situazione di predominio dell’azione collettiva femminile, in cui la «sincronizzazione»23 tra le donne era garantita dalle modalità estrinseche dell’organizzazione in gruppi, a una situazione di predominio dell’azione sociale delle donne, in cui la «sincronizzazione» è prodotta da meccanismi più sofisticati e nascosti, connessi, ad esempio, con la comunicazione di massa o con l’adesione, anche «a distanza», a medesimi linguaggi o valori culturali e alla loro introiezione.

Tale ipotesi deve naturalmente essere approfondita e verificata. Si tratta di un lavoro di ricerca appassionante e importante, che solo col tempo potrà dare indicazioni utili, ma che conduce fin da subito alla prospettiva di una migliore comprensione tra le generazioni e al riconoscimento di diversi modi – ugualmente degni di rispetto e non in opposizione tra loro, ma anzi complementari – di impegnarsi per una società in cui il contributo delle donne sia maggiormente riconosciuto, valorizzato e remunerato.

 

 

Bibliografia

1 Jennifer Baumgardner e Amy Richards, attiviste statunitensi della «Third Wave Foundation», movimento femminista animato da esponenti della cosiddetta «generazione X». Cfr. J. Baumgardner e A. Richards, Manifesta. Young women, feminism, and the future, Farrar, Straus and Giroux, New York 2000.

2 Beatrice Faust, giornalista e scrittrice, fondatrice della Women’s Electoral Lobby australiana. Cfr. B. Faust, Daughters in the dark, in «The Weekend Australian», 15-16 Marzo, 1997.

3 Rosamund Else-Mitchell e Naomi Flutter, giovani femministe. Cfr. R. Else-Mitchell, N. Flutter, Talking up. Young women’s take on feminism, Spinifex Press Pty Ltd, Melbourne 1998.

4 Marina Piazza, sociologa, presidente della commissione Pari opportunità della presidenza del Consiglio dei ministri fino al settembre 2003. Cfr. M. Piazza, Le trentenni, Mondadori, Milano 2003.

5 Cfr. ad esempio: A. Rahman, Women and Microcredit in Rural Bangladesh: An Anthropological Study of Grameen Bank Lending, Westview Press, Boulder 1999; A.M. Adams, S. Madhavan e D. Simon, Women’s Social Networks and Child Survival in Mali, in «Social Science and Medicine», 54, 2/2002.

6 ICRC, Women and War – Special Report, Geneva, Marzo 2003.

7 Council of Europe, Violence Against Women in Europe, Report of the Committee on Equal Opportunities for Women and Men, Brussels, 15 marzo 2000.

8 S.S. McLanahan e E.L. Kelly, The Feminization of Poverty: Past and Future, Princeton University Press, Princeton 1998; C. Williams e D. Lee-Smith, Feminization of Poverty. Re-Thinking Poverty Reduction from a Gender Perspective, UN-Habitat, 2000.

9 M.J. Davidson e R.J. Burke, Another Century in the Rearguard, in «European Synthesis», 2/2003. Per uno studio più complessivo di questi fenomeni, cfr. M. Cacace, Il tetto di vetro. Dati, prove e interpretazioni sul fenomeno della segregazione verticale delle donne nelle aree professionali a dominanza maschile, Parte I, in «European Synthesis», 2/2003 (www.europeansynthesis.org ); Cacace e L. D’Andrea, Padri nei servizi per l’infanzia. Manuale sulle buone prassi tra uomini e donne, Centro di cooperazione familiare, Roma, 1996.

10 K. Aliaga e K. Winqvist, How Women and Men Spend Their Time. Results from 13 European Countries, Eurostat, Brussels 2003.

11 United Nations Department of Public Information, Women in Power and Decision-Making, New York, maggio 2000.

12 UNCHR, UNESCO, UNDP, UNFRA, UNICEF, UNIFEM (a cura di), Best Practices in Peace Building and Non-Violent Conflict Resolution. Some documented African Women’s Peace Initiatives, New York 1998; A. Cancedda, Women for Conflict Resolution and Consensus Building in Angola. Guidelines, CERFE, Roma 2002.

13 UNESCO, Enrolment in Tertiary Education (ISCED 5 & 6), by Country (1998/1999; 1999/2000; 2000/2001), Parigi, marzo 2003; M. Dunne, Women and Men in Tertiary Education, Eurostat, Brussel 2001.

14 B. Alimo-Metcalfe, An Investigation of female and male constructs of leadership and empowerment, in «Women in Management Review», 10/1995; A.H. Eagly, S.J. Karau e M.G. Makhijani, Gender and the effectiveness of leaders: a meta-analysis, in «Psychological Bulletin», 117/1995; K. Klenke, Women and Leadership. A Contextual Perspective, Springer Publishing Company, New York 1996; V.M. Holton, Taking a seat on the board: women directors in Britain, in R.J. Burke e M.C. Mattis (a cura di), Women on corporate boards of directors, Kluwer Academic Publisher, Dordrecht 2000; R.K. Thomas, Women in Leadership: An Examination of Transformational Leadership, Gender Role Orientation and Leadership Effectiveness, Gonzaga University, aprile 2000.

15 A. Franco e K. Winqvist, The Entrepreneurial Gap Between Women and Men, Eurostat, Brussel 2002; cfr. anche E. Mastropietro, Ricerca-azione su donne e impresa. Rapporto finale della ricerca, ASDO, Roma 2000.

16 G. Quaranta, Cittadinanza e riforma della democrazia, in «Democrazia Diretta», Edizioni Scientifiche Italiane, 3/1990.

17 Tra gli altri, cfr. V. Bogdanor (a cura di), The Blackwell Encyclopedia of Political Institutions. Blackwell Reference, New York 1987.

18 M. Weber, Economia e società, Edizioni di Comunità, Milano 1999.

19 L. Gallino, Dizionario di sociologia, UTET, Torino, 1978.

20 Quaranta, Appunti sull’attualità della teoria dell’azione sociale, Scuola di sociologia e scienze umane, CERFE, Roma 2002.

21 Cancedda, Female Leadership and Social Action. Implications for Research and Women’s Career Development, https://gruppocerfe.org/womenleadership/index.htm.

22 A. Melucci, L’invenzione del presente. Movimenti sociali nelle società complesse, Il Mulino, Bologna 1991.

23 Quaranta, Appunti, cit. 2002.