G. Tremonti, La paura e la speranza. Europa: la crisi globale che si avvicina e la via per superarla

Di Roberto Artoni Giovedì 26 Giugno 2008 19:23 Stampa
Un tentativo di sintesi Nella ricostruzione dell’autore, negli ultimi decenni si è affermata nel mondo occidentale, e in particolare in Europa, un’ideologia e una prassi mercatista, o liberista, che ha posto al centro di tutto il contesto sociale processi economici incontrollati o non governati dalle autorità politiche, riassumibili nel termine di globalizzazione. La globalizzazione, lungi dal portare benessere economico,
sicurezza di fronte ai grandi rischi dell’esistenza e armonia nei rapporti internazionali, ha innescato una serie di fenomeni negativi in pieno divenire, che vanno dall’esplosione dei prezzi delle materie prime, alla crisi finanziaria cominciata nell’estate del 2007 fino al dissesto ambientale e alle tensioni internazionali connesse al controllo delle fonti energetiche.

Un tentativo di sintesi

Nella ricostruzione dell’autore, negli ultimi decenni si è affermata nel mondo occidentale, e in particolare in Europa, un’ideologia e una prassi mercatista, o liberista, che ha posto al centro di tutto il contesto sociale processi economici incontrollati o non governati dalle autorità politiche, riassumibili nel termine di globalizzazione.

La globalizzazione, lungi dal portare benessere economico, sicurezza di fronte ai grandi rischi dell’esistenza e armonia nei rapporti internazionali, ha innescato una serie di fenomeni negativi in pieno divenire, che vanno dall’esplosione dei prezzi delle materie prime, alla crisi finanziaria cominciata nell’estate del 2007 fino al dissesto ambientale e alle tensioni internazionali connesse al controllo delle fonti energetiche. Inoltre, si annuncia la riproposizione della Sozialfrage di ottocentesca memoria: «perché la garantita sicurezza nel benessere che sarebbe stata portata dalla globalizzazione si sta trasformando in insicurezza personale, sociale, generale, ambientale». Si prospettano conseguenze particolarmente cupe per l’Europa, da molti secoli al centro del mondo, ma destinata a diventarne la periferia per il duplice effetto di una crisi globale e di una crisi locale. La crisi globale, diretta conseguenza dell’accettazione del mercatismo, deriverà dall’uso dissennato delle risorse naturali determinato anche, e soprattutto, dall’accesso a livelli di consumo tendenzialmente occidentali delle straordinariamente numerose popolazioni asiatiche. La crisi locale, europea, assumerà la forma di un colonialismo di ritorno guidato dalla Cina, che si annuncia come la potenza egemone del futuro, almeno in rapporto al nostro continente e sul piano economico.

Secondo l’autore esiste ormai una diffusa consapevolezza dei pericoli pressoché imminenti che alimentano un clima di paura (di qui il primo termine del titolo del libro). L’assenza di coerenti politiche in ossequio ai canoni ideologici mercatisti o liberisti (nella costruzione europea e nei rapporti commerciali internazionali nell’ambito del WTO) non fa che rendere sempre più evidente e incombente per larghi strati della popolazione la tenaglia costituita da salari orientali e costi occidentali. È tuttavia possibile uscire da questa paura, attuale e prospettica, attivando meccanismi capaci di ridare speranza agli europei, purché si eviti di rivolgersi al passato ripetendo esperienze storicamente fallite. Sarebbe, infatti, destinato all’insuccesso il riferimento alla sinistra tradizionale in buona misura causa, per vizi dottrinali originari, del mercatismo attualmente dominante. Al contrario, si dovrebbero rivalutare e riproporre alcuni valori tradizionali (religione, autorità, responsabilità, partecipazione spontanea al soddisfacimento dei bisogni collettivi, decentramento politico) che, soprattutto a partire dal 1968, sono stati obnubilati. Solo il recupero di questi valori, associati a interventi specifici sulle strutture istituzionali dell’Unione europea, potrebbe evitare un declino inarrestabile e conseguenze disastrose nel lungo periodo per la nostra civiltà.

In estrema sintesi, si dovrebbe tornare ad attribuire valore alla politica (nuova, dopo la fine delle ideologie), costruendo una visione della vita che non escluda Dio e non demonizzi lo Stato o la cosa pubblica.

Il mercatismo

Nel libro si fa continuo riferimento al mercatismo, definito come l’ideologia totalitaria che, demonizzando lo Stato e tutto ciò che è pubblico o comunitario, pone il mercato in posizione di dominio su tutto il resto. Si tratta probabilmente di un neologismo, che nella letteratura più antica trova un equivalente in manchesterismo e, in tempi più recenti, in liberismo, sia pure nella forma degenerata analizzata da Tremonti. Qualunque termine si voglia utilizzare, il punto essenziale è che il mercatismo deve essere radicalmente contrapposto al liberalismo.

In questa sua posizione Tremonti ha antecedenti illustri nella nostra cultura. In un famoso dibattito che contrappose negli anni Trenta Croce ed Einaudi (che fu sempre liberista e divenne liberale probabilmente solo dopo le tragiche esperienze della seconda guerra mondiale), il filosofo napoletano sostenne che anche provvedimenti antiliberisti possono essere considerati sanamente liberali, quando concorrano all’elevazione dell’uomo o lo sottraggano – si potrebbe aggiungere – a situazioni di precarietà o di sudditanza economica e morale che, di fatto, gli impediscono di esser cittadino consapevole. Ma sempre in questi essenziali richiami, si deve ancora ricordare che un altro grande autore, Polanyi, sottolineò fin dagli anni Quaranta che terra (o risorse naturali), capitale (soprattutto nelle sue manifestazioni finanziarie) e lavoro (in quanto inscindibile dall’essere umano in cui è incorporato) non sono merci come tutte le altre, ma impongono modalità di gestione molto attente e consapevoli se si vogliono evitare crisi economiche, sociali e ambientali dalle conseguenze potenzialmente disastrose, come si evidenzia in diversi passi del libro di Tremonti. Sempre sulla linea della distinzione fra puri esiti di mercato ed esigenze di coesione sociale si è mossa con risultati assai significativi una componente importante della più recente filosofia politica americana. Si può quindi affermare che Tremonti, da un lato, non è isolato nella sua posizione e, dall’altro, ha avuto comunque il merito di richiamare una distinzione colpevolmente trascurata, per ignoranza o per sprovvedutezza politica, negli ultimi due decenni in Europa e in Italia.

La globalizzazione

Com’è stato osservato da altri, il termine globalizzazione descrive molti fenomeni che, pur essendo riconducibili alla crescente interdipendenza economica fra paesi e aree geografiche, sono fra di loro profondamente eterogenei: vi rientrano infatti il flusso crescente di beni finali e servizi fra i diversi paesi determinato anche dalla riduzione dei costi di trasporto; la riduzione delle barriere, tariffarie e non, al commercio internazionale; i flussi internazionali di capitale finanziario; l’attività delle imprese multinazionali; gli investimenti diretti all’estero; la produzione all’estero di merci, o di loro componenti, destinate a essere reimmesse nel territorio nazionale; una maggiore esposizione alla volatilità dei mercati valutari; l’immigrazione.

Alcune di queste manifestazioni sono diretta e ineliminabile conseguenza dello stesso processo d’integrazione economica che comporta necessariamente la rilocalizzazione delle produzioni; altre, invece, riflettono la ricerca di profitti delle imprese nazionali che sfruttano il disallineamento, destinato ad annullarsi in periodi più o meno brevi, dei costi dei fattori produttivi; altre sembrano essere piuttosto manifestazioni di fenomeni di arbitraggio finanziario, con effetti molto spesso destabilizzanti; l’immigrazione, infine, è un fenomeno che, in forme forse non così diverse, ha caratterizzato tutta la storia dell’umanità.

Di fronte a realtà così eterogenee le risposte possono e devono essere differenti, e più o meno efficaci. Di fronte alla rilocalizzazione di certe produzioni in paesi fin qui relativamente sviluppati, non è proponibile il ricorso (come da alcuni è stato letto nel libro di Tremonti) agli antichi strumenti doganali, salvo il temporaneo e moderatamente efficace utilizzo di clausole di salvaguardia: la risposta non può che essere l’incremento delle esportazioni di produzioni più sofisticate verso quei mercati. Incidentalmente, si può osservare che questo sta già accadendo, almeno per quanto riguarda l’Europa, rendendo, di fatto, inutile l’introduzione di forme unilaterali di protezione delle produzioni, comunque destinate a perdere la loro importanza all’interno dei paesi sviluppati. In questo quadro, non deve essere escluso che le imprese italiane ed europee possano essere opportunamente incentivate a seguire comportamenti socialmente responsabili.

Sulle manifestazioni di natura finanziaria della globalizzazione, qui si può solo osservare che in un lontano passato due paesi dell’America Latina hanno assunto atteggiamenti profondamente diversi: il Cile, il paese forse più liberista del mondo a cavallo degli anni Settanta e Ottanta, ha posto limiti all’entrata di capitali a breve, contribuendo anche per questa via alla costruzione di un sistema finanziario particolarmente stabile; l’Argentina, al contrario, ha scelto la via della liberalizzazione estrema, ponendo le basi, anche a causa di altre scelte, di un epocale disastro finanziario. Le scelte non sono univoche e non sono dogmaticamente indirizzate alla piena libertà di movimento dei capitali.

Si potrebbe continuare con altre esemplificazioni, ma credo che si debba convenire sul fatto che i processi di globalizzazione, se si vuole che esplichino tutte le loro potenzialità positive, debbano essere governati sulla base di accurate analisi, accettandone gli inevitabili effetti in termini di rilocalizzazione di alcune attività produttive, regolando il decentramento produttivo e limitando con appropriati interventi istituzionali le componenti speculative o le miopi impostazioni di breve periodo. In altri termini si deve evitare ogni dogmatismo.

Su questo punto Tremonti attribuisce all’assenza di politiche europee articolate e adeguate in molti settori l’incapacità di fronteggiare le sfide di un mondo sempre più integrato. L’assenza di queste politiche può essere ricondotta, seguendo Tremonti, all’ideologia mercatistica dominante in Europa.

Sul fronte più propriamente sociale l’applicazione dei principi del Mercato unico europeo sembra avere il carattere di un regolamento dei conti fra i diversi gruppi sociali finalizzato ad allineare al ribasso tutti i meccanismi di protezione collettiva, con immediate conseguenze in molti paesi sulla distribuzione del reddito. Una concezione del mercato unico di questo tipo non può che portare a fenomeni di radicale rigetto dei processi d’integrazione e di apertura nei confronti del resto del mondo: è difficile, infatti, immaginare un processo di sostenuto sviluppo, proiettato soprattutto all’esterno, in cui gli elementi di insicurezza e di precarietà non pervadano strati sempre più ampi della società.

La crisi finanziaria

Le cause della crisi finanziaria, in atto dall’estate scorsa, possono essere ormai delineate con una certa precisione, individuandole nella disinvoltura degli operatori finanziari, nell’assenza di controlli adeguati e, più in generale, in una visione del mondo che attribuisce ai mercati finanziari una straordinaria capacità di autoregolazione e di ripartizione dei rischi fra una moltitudine di intermediari e di investitori in modo da renderli sostanzialmente irrilevanti. A questo si aggiunga che era divenuta opinione comune che i problemi d’indebitamento delle famiglie americane, all’origine di molti fenomeni destabilizzanti, sarebbero stati automaticamente risolti con una continua rivalutazione dei valori degli asset patrimoniali. Nessuna attenzione era posta nella teoria economica dominante ai problemi di redistribuzione del reddito, sia sotto forma di retribuzioni adeguate, sia sotto forma di servizi forniti dalla collettività. Le pagine dedicate da Tremonti a questi temi sono giustamente molto severe. Ma, al di là della condanna di operatori e di controllori, si dovrebbe andare oltre nell’analisi e chiedersi quali sono state le cause originarie delle ultime turbolenze finanziarie. L’origine deve essere essenzialmente ricondotta al fatto che gli Stati Uniti, l’unico paese a valuta di riserva, hanno accumulato nell’ultimo quinquennio un fortissimo disavanzo di parte corrente, con una media annua pari al 5% del prodotto nazionale lordo. Questo disavanzo ha trovato la necessaria contropartita nell’accumulazione di attività finanziarie da parte dei paesi che hanno eccedenze nei loro conti con l’estero. A loro volta questi paesi possono e potranno seguire due vie: o accumulare tranquillamente ricchezza finanziaria sotto forma tipicamente di titoli di Stato americano (come sembra abbiano fatto in passato i giapponesi) o utilizzare il loro surplus per acquisire capacità di controllo nelle imprese e nelle istituzioni finanziarie del mondo occidentale. Il comportamento del rentier non sembra essere oggi particolarmente popolare (e, si può presumere, lo sarà ancor meno in futuro); la via alternativa, sotto diverse forme e denominazioni, è sempre più seguita, producendo rilevanti e preoccupanti spostamenti nella distribuzione internazionale del potere economico e finanziario. Tutto ciò può essere letto come effetto della globalizzazione, ma più propriamente è il risultato dello sfruttamento unilaterale da parte del paese dominante dei vantaggi dell’integrazione economica internazionale: parafrasando Tremonti, è stata coltivata la speranza, o l’illusione, di poter avere per sempre a disposizione merci prodotte in Asia a basso costo, di delocalizzare sempre in Asia le produzioni inquinanti, di riservare agli immigrati i lavori più dequalificati, di sostituire il vecchio posto di lavoro fisso con quello a rotazione più competitivo, di disporre di denaro in misura illimitata grazie alla “tecnofinanza”. L’autore conclude: «non è andata esattamente così se non per poco».

Recentemente un alto funzionario americano ha sostenuto che gli americani dovrebbero studiare la storia di Roma. La Roma imperiale ha dovuto, infatti, affrontare due problemi: reclutare truppe sufficienti nelle province e procurarsi i mezzi finanziari per sostenere le politiche, militari e non. La soluzione del secondo problema è sempre stata particolarmente impervia, per il buon motivo che a quei tempi i mezzi di pagamento avevano un valore intrinseco, dato dal contenuto metallico. Nell’epoca contemporanea si è pensato di risolvere questo stesso problema distribuendo mezzi di pagamento cartacei.

Appare ragionevole affermare che la gestione della globalizzazione, al fine di valorizzarne gli effetti positivi e di delimitarne quelli negativi, richiede una nuova architettura finanziaria internazionale, possibilmente una nuova Bretton Woods.

La sinistra

È opinione di Tremonti che l’Europa potrà evitare la decadenza solo ridefinendo un’appropriata scala di valori e superando gli schematismi ideologici del passato, rappresentati soprattutto dal bagaglio culturale delle tradizionali forze di sinistra. Si cercherà qui di affrontare gli stessi problemi secondo un’angolatura personale. A tal fine si partirà da un tentativo di inquadramento del concetto di sinistra: a giudizio di chi scrive, una visione di “sinistra” ha come base ineliminabile un atteggiamento critico nei confronti del funzionamento spontaneo dei meccanismi di mercato, sia sul piano economico sia su quello sociale. A ciò segue un secondo elemento che porta a ritenere possibili, oltre che auspicabili, interventi migliorativi degli esiti di mercato. Ovviamente, l’individuazione e la realizzazione degli interventi richiedono una formidabile capacità di analisi, fatto questo non sempre, o raramente, riscontrabile. Si noti che questa impostazione non implica un atteggiamento di radicale opposizione dell’ordine costituito. Un tipico (e probabilmente il più grande) esponente di questa visione di “sinistra” è Keynes che, pur accettando pienamente l’ordine capitalistico, riteneva che senza un’attenta regolazione del suo funzionamento da parte della politica, la sopravvivenza di un sistema fondato sull’impresa ed effettivamente liberale nel lungo periodo sarebbe stata posta in pericolo, compromettendo le possibilità di sviluppo di una società orientata al perseguimento dei veri valori (di cui la sfera economica costituisce semplicemente il presupposto).

Simmetricamente, si può definire che una visione è di “destra” quando non si ritiene significativamente migliorabile con interventi di politica economica e sociale un sistema di tipo liberista. Il personaggio più rappresentativo di questa impostazione è Hayek: i limiti delle conoscenze umane sulla natura e le implicazioni dei processi sociali, associati all’imprevedibilità degli esiti di ogni intervento politico, sconsigliano azioni correttive degli assetti produttivi e distributivi naturali. Si deve comunque sottolineare che anche una politica di “destra” impone l’adozione di regole che impediscano la formazione di posizioni antitetiche alla piena estrinsecazione delle potenzialità di sviluppo.

Le due impostazioni descritte non sono evidentemente classificabili in termini di meriti relativi o di diversa sensibilità alle problematiche sociali. Sono due visioni legittime in quanto esprimono impostazioni adeguatamente articolate sul piano dell’analisi e su quello delle applicazioni. In altri termini, non è che Keynes sia più buono di Hayek o viceversa, o che Hayek possa trovare legittimazione nel dichiararsi di sinistra. Forse si può sostenere che Keynes è pessimista sul piano dell’analisi e ottimista su quello della politica, valendo per Hayek il contrario.

Su questa base si può tentare di interpretare alcune delle tesi espresse da Tremonti. In primo luogo, si potrebbe affermare che molte delle argomentazioni di Tremonti si collocano meglio in un’organica visione di “sinistra”. In secondo luogo, si può convenire che certe improvvise conversioni al liberismo o al mercatismo sono, da un lato, sospette e, dall’altro, lasciano un vuoto di rappresentanza politica, con la conseguenza non irrilevante che l’elettore, fra un prodotto potenzialmente genuino e uno certamente imitativo, tende a scegliere il primo.

Infine, sempre in quest’ambito, si può aggiungere che neppure un’articolata visione del mondo hayekiana sembra emergere nel dibattito italiano, così come corrisponde solo parzialmente alla realtà la rappresentazione per molti versi caricaturale della sinistra che appare nel libro, valida per alcune componenti ma non per tutte.

Una società stabilizzata

Nel libro di Tremonti è importante il riferimento a una società stabilizzata i cui elementi costitutivi sembrano essere: «sicurezza sul lavoro, per fare una famiglia con i bambini; sicurezza sociale, per programmare con serenità il proprio futuro nel bisogno e nella vecchiaia; sicurezza portata dalla garanzia della legge e dell’ordine». Questo tema si ricollega necessariamente al ruolo dello Stato e dei suoi interventi attraverso la finanza pubblica. A prescindere da affermazioni storicamente non corrette (quali l’associazione della sinistra con i deficit di bilancio, essendo se mai vero il contrario), si manifesta qui il problema dei livelli di spesa pubblica e di tassazione compatibili con un ordinato sviluppo dell’economia e della società.

Su questo punto è tuttavia essenziale, se si vuole vivere in una società stabilizzata, fare un poco di chiarezza. La spesa pubblica può essere distinta in tre componenti: la prima legata alle funzioni tradizionali dello Stato che comprende sicurezza, difesa, giustizia, amministrazione generale dello Stato e opere pubbliche. Questa componente è aumentata molto poco nel lungo periodo ed è simile in Europa e negli Stati Uniti: sulla base dei dati della Banca d’Italia, in termini di prodotto lordo si va dal 9,5% negli Stati Uniti all’8% nell’area euro, con l’Italia all’8,4%. Vi sono poi i consumi individuali di competenza delle amministrazioni pubbliche, in particolare istruzione e sanità. Se si tiene unicamente conto delle spese delle pubbliche amministrazioni i livelli di spesa sono analoghi in Italia e Stati Uniti e inferiori a quelli dei principali paesi europei. Se si considera anche la spesa privata per sanità, comunque fiscalmente agevolata, le erogazioni a questo titolo sono significativamente superiori negli Stati Uniti. Ove si tenesse conto di questa componente emergerebbe che la spesa in Europa, e in particolare in Italia, è mediamente inferiore a quella degli Stati Uniti.

Da ultimo, vi sono i trasferimenti sociali in denaro, essenzialmente pensioni, pari al 16% in Europa (al 17% in Italia); i dati per gli Stati Uniti non sono immediatamente comparabili, ma si può ritenere che la considerazione delle forme previdenziali private porterebbe la spesa degli Stati Uniti a un livello inferiore di alcuni punti rispetto a quella europea, comunque a un livello non drammaticamente lontano.

Depurando le erogazioni sociali dalle imposte a esse afferenti e considerando sia le componenti private, sia quelle pubbliche, il livello della spesa sociale sui due lati dell’Atlantico è sostanzialmente simile: la differenza fondamentale sta nel diverso ruolo delle componenti private negli Stati Uniti, con gli effetti distributivi, a favore dei ceti abbienti, e di limitato accesso ai servizi da parte dei gruppi sociali meno protetti che ne derivano.

Sulla base dei riferimenti empirici appena dati si può dimostrare che in prospettiva la componente dinamica della spesa pubblica deve essere riferita alle prestazioni di carattere individuale, sanità e pensioni in particolare. In questo campo le scelte di fondo riguardano sia il livello delle prestazioni (o l’assorbimento effettivo delle risorse), sia le modalità di fornitura del servizio, che possono essere o pubbliche o di tipo assicurativo fondate sul rapporto di lavoro. Qualunque sia la scelta, privata o pubblica, prevale comunque una modalità di erogazione che determina una sorta di scambio fra contributi versati in una certa fase della vita e accesso ai servizi o ai trasferimenti in un’altra fase della vita. In questo contesto, parlare genericamente di spesa pubblica o di tassazione, non evidenziando la contropartita a livello individuale, è fuorviante.

Ci si deve chiedere quale è l’assetto meglio compatibile con una società stabilizzata nel senso di Tremonti. I rischi sociali, vecchiaia o malattia, sono meglio gestiti o distribuiti in contesti assicurativi pubblici, dove la platea dei beneficiari è vastissima, o in strutture delimitate come sono le singole imprese? È ragionevole, e in quale misura, far gravare sull’individuo i rischi previdenziali? Quali strutture, pubbliche o assicurative, saranno meglio in grado di regolare la dinamica della spesa che l’evoluzione demografica lascia oggi presagire? Sono queste le domande fondamentali cui bisogna rispondere, non limitandosi a contrapporre spesa pubblica e privata e a fare minacciosi riferimenti a una tassazione espropriatrice. Si può aggiungere che l’esperienza accumulata negli ultimi decenni sembra indicare che le soluzioni di mercato o assicurative creano più problemi di quanti ne risolvano. A questo riguardo, Tremonti osserva giustamente che i fondi pensione non sono né di destra né di sinistra; ma, una volta stabilito questo fatto incontrovertibile, ci si deve chiedere se siano compatibili, nelle forme assunte in Italia, con un serio disegno di politica previdenziale o non siano, per molti versi, una modalità di finanziamento, anche a carico delle finanze pubbliche, di operatori finanziari o di amministratori di fondi.

Conclusioni

Il libro di Tremonti non è valutabile secondo i normali canoni: per legittima scelta dell’autore ha il carattere di un pamphlet, con la conseguenza che non tutti gli argomenti hanno potuto essere adeguatamente sviluppati. In alcuni passi, in particolare nella pars construens, un certo gusto espositivo, che si potrebbe definire dannunziano, rende poi difficile afferrare pienamente le argomentazioni dell’autore, almeno da parte di chi scrive. Non deve essere comunque trascurata l’utilità del libro. Sono affrontati problemi importanti che il clima culturale prevalente ha posto in secondo piano, quali gli effetti della globalizzazione (anche nella percezione collettiva) o l’urgenza di una rivitalizzazione delle politiche europee o ancora la centralità della coesione sociale in società sviluppate, che deve essere considerata un presupposto essenziale per l’accettazione delle politiche d’integrazione economica internazionale. A questo riguardo non si deve, infatti, dimenticare che i paesi più “aperti” in ogni senso, non solo economico, sono anche quelli in cui il sistema di protezione sociale è più sviluppato.

Con un’analisi per molti versi efficace Tremonti ha anche colto le debolezze analitiche e culturali di una certa sinistra, forse portando la discordia nel campo di Agramante. Ma, come insegna Hayek, nei processi sociali, e quindi anche in quelli culturali, le azioni individuali possono produrre risultati finali molto lontani da quelli che si intendevano originariamente perseguire.

Roberto Artoni