Nazione e cosmopolitismo nei Quaderni del carcere

Di Francesca Izzo Giovedì 26 Giugno 2008 19:18 Stampa
Dagli inizi del Novecento si è aperta un’epoca di tensione tra nazione e mercato mondiale. Nei suoi
“Quaderni del carcere”, Gramsci recupera nel concetto di cosmopolitismo di tipo nuovo il fondamento
democratico della nazione, esplorato attraverso la categoria di nazionale-popolare, intesa come il
moderno rapporto tra città e campagna, tra ceti colti e classi subalterne.

Come è noto, intorno alla «quistione della nazione italiana», trattata da Gramsci nei “Quaderni del carcere”, si coagulò, negli anni Cinquanta del secolo passato, uno dei più importanti confronti storiografici del dopoguerra, al quale presero parte esponenti di spicco delle principali tradizioni politico-culturali italiane. Nel corso di quel dibattito furono messe a punto griglie interpretative che hanno influenzato a lungo la lettura di Gramsci. Anche in ragione di complesse finalità politico- culturali, si tese ad associare il suo nome a un pensiero fortemente legato all’ambito nazionale e il suo storicismo a una concezione empirico- continuista della processualità storica. Il superamento dell’impianto classista proprio del comunismo gramsciano era, di fatto, piegato alle esigenze di legittimazione della “via italiana al socialismo”, cosicché la complessa orditura concettuale dei “Quaderni” sul tema della nazione veniva sciolta e assorbita entro tale compito.

Dopo quella stagione, che ha coinciso con la costruzione dell’Italia democratica e repubblicana, le riletture di Gramsci, appena succedute all’edizione critica dei “Quaderni”, non si sono interessate né alla questione della genesi e della forma della nazione italiana né alla teoria della nazione. Ciò probabilmente perché l’una sembrava saldamente costituita e ormai pronta a superare il suo storico dualismo tra Nord e Sud, mentre i profondi mutamenti nella struttura del mondo facevano ritenere tramontato il problema stesso delle nazionalità e del loro rapporto con lo Stato, almeno in Occidente.

Appare però singolare che il nome di Gramsci non compaia quando si riaccende con vigore, a livello mondiale, il dibattito sulla nazione e sui nazionalismi, tra gli anni Ottanta e Novanta del secolo scorso. In Italia il tema è stato declinato in termini di “crisi della nazione”, per l’intensità dei sommovimenti che hanno scosso la compagine nazionale, metten- do a rischio la stessa idea di unità del paese.1

La chiusura del ciclo storico del dopoguerra e l’avvio di un’epoca inquieta, densa di conflitti, ma anche di nuovi processi aggregativi (l’unificazione europea) e di ricerca travagliata di moderne identità nazionali politicamente definite (l’Islam o la nazione india in America Latina, ad esempio) hanno riattualizzato il tema della nazione, o meglio delle nazioni, del loro formarsi, del loro permanere, della loro funzione progressiva o regressiva nell’arena del mercato mondiale. In questi anni una notevole massa di contributi si è andata accumulando sia in Italia che in campo internazionale e in questo contesto è utile riportare l’attenzione sull’elaborazione gramsciana, perché, nel modo in cui Gramsci ricostruisce il formarsi delle moderne nazioni europee e coglie la specificità della vicenda italiana, è compresa una teoria della nazione che non solo presenta tratti innovativi rispetto alle più conosciute elaborazioni (da quella liberale a quella organicistico- tradizionale alle teorizzazioni in campo marxista, dagli austromarxisti a Kautsky, a Lenin e Stalin), ma offre strumenti concettuali che aiutano a comprendere i drammatici processi di nazionalizzazione oggi in atto in varie parti del mondo.

Nelle pagine che seguono ci si limiterà a fissare nel concetto di nazionale- popolare il nucleo centrale dell’analisi gramsciana e ci si soffermerà su alcuni passaggi dei “Quaderni” nei quali viene sviluppata la dialettica, rigorosamente storicizzata, tra statale-nazionale e cosmopolitismo. Lo scopo è quello di mettere in luce la forza e la densità teorica della categoria di nazionale-popolare, che, tranne qualche eccezione, è stata in larga misura fraintesa e sostanzialmente trascurata.

È utile premettere una duplice considerazione. La prima, per certi aspetti scontata per chiunque conosca anche solo superficialmente i “Quaderni del carcere”, è che Gramsci reputa la formazione dello Stato-nazione essenziale per il mercato capitalistico e un momento fondamentale dello sviluppo civile e politico delle classi subalterne. In questo senso egli appartiene alla numerosa schiera di marxisti che hanno superato l’approccio schematico alla questione nazionale di Marx ed Engels, i quali, dal “Manifesto del partito comunista” sino alle più tarde prese di posizione teoriche (nonostante i contraddittori giudizi su concrete vicende storiche), l’hanno sempre ritenuta «un problema secondario», assorbito e risolto dall’imminente rivoluzione proletaria.2 La seconda riguarda la prospettiva da cui Gramsci guarda al problema storico della nazione italiana. La sua attenzione si rivolge infatti essenzialmente ad aspetti culturali, etici, religiosi, ovvero egli tematizza questo nodo storico in termini di sconnessione tra “nazione culturale” e “nazione politica”,3 tra “nazione” e “Stato”, ovvero tra il “paese reale” e il “paese legale” della pubblicistica cattolica di fine Ottocento. Gramsci, in effetti, condivide con molta della letteratura critica del Risorgimento l’immagine dell’Italia come paese con uno Stato ma senza nazione. Si tratta di un problema variamente affiorato nel processo di unificazione del paese e scoppiato drammaticamente con il tentativo di chiusura volontaristica e dittatoriale operato dal fascismo.4

D’altra parte, la sua dottrina dell’egemonia, che è programmaticamente elaborata sulla distinzione metodica tra Stato-apparato, momento coercitivo dell’autorità, e Stato- società civile, trama privata di esercizio del consenso, lo porta non solo a operare una chiara distinzione tra nazione e Stato, ma ad attribuire alla nazione una consistenza e un valore costitutivi della dimensione statuale. E lo spinge a far leva sull’asimmetria tra Stato e nazione per circoscrivere e intendere i limiti storici dello Stato italiano, a differenza di Benedetto Croce che, iniziando la sua “Storia d’Italia dal 1871 al 1915”,5 cancella la questione della nazione alla radice, facendone coincidere la storia con la data di nascita dello Stato. In effetti sono le cosiddette “anomalie” o più propriamente i ritardi nella formazione dello Stato tedesco e italiano ad aprire il capitolo dei rapporti tra nazione, territorialità e statualità; tanto che la stessa presa di coscienza francese, espressa dall’opera di Ernest Renan,6 si svilupperà solo dopo il 1870, come reazione alla nascita e all’espansione del Reich tedesco.

Così come è ancora l’anomalia della prolungata agonia degli imperi plurinazionali (austroungarico, russo e turco) ad Oriente ad attivare aspri conflitti nazionali, alla base delle complesse elaborazioni degli austromarxisti7 e dei bolscevichi, in particolare Lenin e Stalin.

Ma al di là della distinzione tra Stato e nazione che Gramsci condivide con tante e diverse scuole di pensiero, al cuore della concezione gramsciana si staglia una peculiare categoria, quella di nazionale-popolare, forgiata per comprendere, secondo l’impianto della filosofia della prassi, il processo tipico di costituzione dello Stato nazionale moderno e per dar conto delle sue varianti. In estrema sintesi, tale processo consiste in un doppio movimento: da un lato l’elemento territoriale, cioè il mondo contadino, si sviluppa progressivamente sino ad innalzarsi alla dimensione nazionale, mentre dal- l’altro l’elemento spirituale, ovvero la cultura medievale cosmopolitica, romano- imperiale e cattolica, tende a nazionalizzarsi e a popolarizzarsi. Il concetto di nazionale-popolare non segnala una presunta chiusura provinciale e storicista della riflessione gramsciana, come ha voluto un’autorevole corrente critica,8 ma individua piuttosto il paradigma di una lettura, straordinariamente ricca, del processo di costituzione dello Stato moderno. Processo la cui decifrazione occupa gran parte delle “Note” e trova un suo punto di forza nell’idea che il suo inizio stia nella rottura del monopolio della cultura detenuto dalla Chiesa cattolica e nella formazione di un legame tra intellettuali e popolo fecondato dal seme della libertà. Gli aspetti salienti che strutturano la concezione gramsciana della nazione paiono, dunque, sostanzialmente due.

Innanzitutto la nazione è connessa strettamente al territorio. Gramsci non prende mai in considerazione la possibilità che esista una nazione priva di territorio. Sta qui la radice della differenza di impostazione rispetto agli austromarxisti Karl Renner e Otto Bauer, che facevano della nazionalità esclusivamente una questione di cultura. Gramsci, pur distinguendo Stato e nazione, anzi Stato, società civile e nazione, non categorizza tale distinzione in termini di volontà, potere e società da una parte e cultura e communio dall’altra, come avviene negli austromarxisti. Piuttosto, interpreta la dimensione territoriale in termini storico-materialistici.

In un blocco di note dedicate a esplorare i fattori storici di lunga durata che hanno ostacolato la formazione della nazione italiana e che egli fa risalire all’epoca romana, si legge «Non si può parlare di nazionale senza il territoriale: in nessuno di questi periodi [il periodo repubblicano dopo le guerre puniche e l’Impero dopo Cesare] l’elemento territoriale ha importanza che non sia meramente giuridico-militare, cioè “statale” in senso governativo, senza contenuto etico-passionale».9 Il termine territoriale non segnala né l’elemento statale-governativo o burocratico- amministrativo, come accade in Frederich Meinecke, né l’idea della spazialità confinaria e ordinatrice delle potenze sovrane, come in Carl Schmitt;10 esso indica invece le masse umane legate alla terra la cui esistenza è divisa tra il bisogno- passione e la trascendenza etico- religiosa.

Si può iniziare a parlare di nazionalità quando, nel processo di creazione storica, viene coinvolta la radice etico- passionale della vita sociale, quell’etnos legato al territorio che storicamente coincide con il mondo contadino. Questa lettura è argomentata da molteplici riferimenti, sia al Machiavelli democratico, sostenitore della riforma della milizia, che alla storia romana, in particolare alla de- nazionalizzazione della questione agraria attuata dal cosmopolitismo imperiale di Cesare.

Quanto al secondo aspetto, esso riguarda il radicamento delle funzioni spirituali e universali nella dimensione etico-passionale, che spingono alla nazionalizzazione del territoriale. Ci si riferisce a quell’insieme di eventi che Gramsci da un lato condensa nell’idea di rivoluzione scientifico-filosofica, che spezza il monopolio culturale della Chiesa cattolica e dell’umanesimo imperiale; e, dall’altro, riconduce al diverso rapporto tra città e campagna. Quest’ultimo si sviluppa in una serie di fenomeni che vanno dalla formazione di un esercito non più mercenario, espressione di un nuovo blocco storico urbano-rurale, egemonizzato dalla città, alla nascita dei “volgari”, che mirano a stabilire una comunanza linguistica tra colti e incolti.11

In questo processo prende forma il popolo, che secondo il concetto gramsciano indica sempre «l’insieme delle classi subalterne e strumentali »,12 sia urbane che rurali, che per effetto della divisione tra lavoro manuale e intellettuale sono prive di omogeneità culturale e di concezioni elaborate e coerenti.

Conviene precisare che la ricostruzione di Gramsci non rispetta rigorosi canoni storiografici: si tratta piuttosto di una teoria morfologica del processo storico, fissato, nelle sue linee evolutive, nelle figure-mito o nei simboli di Machiavelli e Cesare, suo contraltare, dei quali Gramsci si serve per enucleare dal lungo corso degli eventi che prende in esame le forme che a suo giudizio caratterizzano la modernità.

Lo stesso riferimento alla Riforma è inserito in questo quadro concettuale. Gramsci recepisce dalla tradizione idealistica e storicista tedesca il modulo interpretativo che coglie nella Protesta il momento di avvio dell’avventura moderna della libertà, ma declina la sua funzione storica nel senso del nazionale-popolare. Nella sua visione, la riforma religiosa risulta un fattore potente di costruzione di un nuovo ethos individuale e collettivo, coerente con lo sviluppo di una società moderna solo in quanto essa consente all’elemento vivificante della libertà di penetrare nel religioso popolare, nell’immediatezza del territoriale, creando così le condizioni per la comunanza etica fra ceti intellettuali e popolo. Nell’idea gramsciana di nazione la presenza del religioso gioca dunque un ruolo essenziale, ma in una accezione alquanto diversa dalla tradizione etnico-romantica. Ciò che la distingue è l’incontro tra il religioso popolare, un religioso già attraversato dall’anelito della libertà, e il filosofico delle classi dirigenti intel- lettuali.13 Nel Quaderno 10, Gramsci scrive: «Il popolo non può giungere alla concezione della libertà politica e all’idea nazionale se non dopo aver attraversato una riforma religiosa cioè dopo aver conquistato la nozione di libertà nella religione ».14 La citazione è tratta da un Quaderno speciale dedicato, come è noto, alla discussione critica della filosofia di Benedetto Croce, in particolare al rapporto tra filosofia e religione e all’incapacità, secondo Gramsci, della filosofia idealistica di diventare un’integrale concezione del mondo per la mancata elaborazione del momento popolare-religioso. Ed è significativo che nell’opera di Federico Chabod sulla nazione si ripeta il modulo crociano dell’espulsione del religioso-popolare dal campo della libertà: nella sua ricostruzione, infatti, lo sbocco nel nazionalismo e nel bellicismo dell’idea nazionale, fondata sulla cultura e sulla libertà, dipende dalla sua diffusione nei movimenti di massa di tipo religioso. «La politica acquista pathos religioso (…) ciò spiega il furore delle grandi conflagrazioni moderne (…). La nazione diventa la patria: e la patria diviene la nuova divinità del mondo moderno (...). È, questa, la gran novità che scaturisce dall’età della Rivoluzione francese e dell’Impero».15 Gramsci, invece, coglie nella Rivoluzione francese l’evento che fa epoca nella trasformazione del territoriale (sovranità incarnata nella figura del re o dell’imperatore) in nazionale, sia nella forma propria della rivoluzione giacobina che nella forma della rivoluzione passiva, Rivoluzione- Restaurazione.

Il giacobinismo è una incarnazione storico-simbolica, al pari di Machiavelli, del nazionale-popolare e impropriamente si è fatta risalire la sua centralità nei “Quaderni” all’influenza determinante del leninismo e all’accostamento di bolscevismo e giacobinismo. Piuttosto il giacobinismo, al di là di ogni rigorosa filologia storica, si presenta nelle note più tarde come il modello della organica saldatura tra intellettuali e popolo (contadini), sulla base di un determinato programma economico. In questo senso esso è in continuità con il simbolo di Machiavelli, di cui amplia e approfondisce i tratti anticipatori del moderno Stato nazionale. «I giacobini pertanto furono il solo partito della rivoluzione in atto, in quanto non solo essi rappresentavano i bisogni e le aspirazioni immediate delle persone fisiche attuali che costituivano la borghesia francese, ma rappresentavano il movimento rivoluzionario nel suo insieme, come sviluppo storico integrale (…). Se è vero che i giacobini “forzarono” la mano, è anche vero che ciò avvenne sempre nel senso dello sviluppo storico reale, perché non solo essi organizzarono un governo borghese, cioè fecero della borghesia la classe dominante, ma fecero di più, crearono lo Stato borghese, fecero della borghesia la classe nazionale dirigente, egemone, cioè dettero allo Stato nuovo una base permanente, crearono la compatta nazione moderna francese».16

Nel modello giacobino vengono tipizzati i caratteri della rivoluzione borghese e del blocco storico che anima lo Stato nazione moderno. Esso esprime il legame organico tra ceti urbani intellettuali e masse contadine e l’emergere sempre più saliente dell’elemento umano rispetto al territoriale-patrimoniale. In questo processo si perfeziona la nazionalizzazione del territoriale. Riferendosi alla decisione di Napoleone di mutare il titolo “re di Francia” in “re dei francesi”, Gramsci così commenta: «La denominazione ha un carattere nazionale popolare profondo, e significa un taglio netto con l’epoca dello Stato patrimoniale, una maggiore importanza data agli uomini invece che al territorio».17

Preme qui sottolineare la consapevolezza che Gramsci ha della grandezza dell’impresa della borghesia nel costruire lo Stato. Cogliendo l’essenza della nazione nella tendenziale e contraddittoria unificazione dei colti e degli incolti (certo in posizione subalterna), di lavoro manuale e intellettuale, fondamentalmente nell’immissione dei contadini nella comunità etica della nazione, egli rivela un grado più alto di consapevolezza rispetto alla stessa autocoscienza liberale. Sintomatica della scarsa comprensione di questo snodo essenziale della società moderna è l’incertezza di molti teorici liberali riguardo al giudizio se i contadini facciano parte o meno della nazione.18

Inoltre, sul filo di queste analisi risulta chiaro che per Gramsci la parola d’ordine rivoluzionaria dell’unità degli operai e dei contadini, rilanciata da Lenin e dai bolscevichi vittoriosi, ha una connotazione profondamente nazionale, poiché indica l’assunzione da parte di un determinato soggetto rivoluzionario di un compito risultato impraticabile per la propria borghesia. Sulla base del modello storico-morfologico di Machiavelli e del giacobinismo, Gramsci sviluppa l’analisi differenziata del caso della nazione italiana, segnata dal cosmopolitismo dei suoi intellettuali, sia di matrice romano-imperiale che cattolica, e dalle forze selvagge, ribelli e sovversive che si agitano nel territoriale.

«Bisogna quindi dire che, a differenza degli altri paesi, neanche la religione in Italia era elemento di coesione tra il popolo e gli intellettuali (…) non esisteva un “blocco nazionale-popolare” nel campo religioso. In Italia non esisteva “chiesa nazionale”, ma cosmopolitismo religioso, perché gli intellettuali italiani erano collegati a tutta la cristianità immediatamente come dirigenti anazionali».19

Lo sguardo lungo gettato sulla storia della penisola mira a rintracciare le cause lontane e profonde della debole e travagliata formazione della nazione, a ricercare il perché «in Italia non si ebbe la monarchia assoluta al tempo di Machiavelli»,20 la cui mancata costituzione ha aperto una crisi destinata a tenere il paese ai margini delle correnti principali della storia europea e mondiale. In questa anamnesi storica risalta la lettura che Gramsci, riprendendo moduli critici messi a punto in parte da Antonio Labriola e Francesco De Sanctis e in parte da Giuseppe Toffanin, offre dell’Umanesimo e del Rinascimento. Entrambi, nel loro pieno dispiegarsi, si oppongono al “Rinascimento spontaneo” comunale e all’”Umanesimo etico-politico”, e ne soffocano le energie nazionalizzatrici. Ma Gramsci trova che il nodo Umanesimo-Rinascimento non basti a spiegare le ragioni della fragilità italiana; occorre risalire più indietro, sino alle origini romane, sino alla figura e all’opera di Cesare. Optando per l’Impero, egli compì un atto di incalcolabile peso per il futuro della penisola, instaurando in Italia il dominio delle tendenze cosmopolitiche in tutti quegli snodi che altrove in Europa hanno condotto alla formazione dello Stato nazionale moderno. Così, in apertura del Quaderno 19, dedicato all’analisi del Risorgimento italiano, Gramsci si sofferma sul periodo di storia romana che segna il passaggio dalla Repubblica all’Impero. «Se è vero che Cesare continua e conclude il movimento democratico dei Gracchi, di Mario, di Catilina, è anche vero che Cesare vince in quanto il problema, che per i Gracchi, per Mario, per Catilina si poneva come problema da risolversi nella penisola, a Roma, per Cesare si pone nella cornice di tutto l’Impero (…). Questo nesso storico è della massima importanza per la storia della penisola e di Roma, poiché è l’inizio del processo di “snazionalizzazione” di Roma e della penisola e del suo diventare un “terreno cosmopolitico”».21

Anche nel Quaderno 17 Gramsci discute del “problema Cesare” sostenendo che «Lo sviluppo storico di cui Cesare fu l’espressione assume nella “penisola italica” ossia a Roma la forma del “cesarismo” ma ha come quadro l’intero territorio imperiale e in realtà consiste nella “snazionalizzazione” dell’Italia e della sua subordinazione agli interessi dell’Impero (…). Roma divenne una città cosmopolita, e l’Italia intera divenne centro di una cosmopoli».22 Attraverso questi rapidi ma perspicui cenni, Gramsci fa di Cesare la figura emblematica delle radici e delle tendenze cosmopolitiche che hanno orientato il destino della penisola italiana sino a determinarne i modi dell’unificazione. Con la sua scelta per l’Impero, egli ha distaccato i quadri dirigenti romani dal territorio italiano, li ha inseriti nel circuito imperiale e, recidendo i loro legami con il mondo delle campagne, ha abbandonato quest’ultimo alla disgregazione. «Con la sua politica Cesare ha rappresentato, nella storia italiana, il rovescio preciso della prospettiva delineata in quel grande “manifesto” rivoluzionario che è il Principe del Segretario fiorentino. Attraverso le “figure” di Cesare e di Machiavelli Gramsci svela dunque – rappresentandola in chiave simbolica – la tensione fra “cosmopolitismo” e “Stato nazionale” che per lui – in modi aperti, tuttora irrisolti – attraversa dalle origini fino al Novecento tutta la storia della penisola italiana».23

Una tensione, questa, che nel corso dell’intera vicenda moderna ha impedito una piena nazionalizzazione dei ceti intellettuali e ha alimentato una parallela esclusione delle masse contadine dalla cittadinanza, sino al punto di configurare un dualismo territoriale nel processo di costituzione dell’unità nazionale.

Gramsci raggiunge in queste note la più ricca e densa esposizione di quel problema che aveva cominciato ad abbozzare nello scritto “Alcuni temi della questione meridionale”, primo serio tentativo di ricognizione del terreno nazionale dopo la sconfitta del movimento operaio e il consolidamento del fascismo al potere.

L’intuizione centrale di questo scritto consisteva nell’idea, espressa in forma ancora embrionale, che nella questione meridionale si manifesti la specifica qualità dell’egemonia esercitata dalla borghesia italiana nel suo compito storico di unificazione del mercato interno e di nazionalizzazione delle masse contadine.

Nel mettere a fuoco tale specificità, Gramsci introduce il tema degli intellettuali, ovvero ne sottolinea la funzione decisiva nella configurazione e nel mantenimento dell’apparato egemonico.

Nel processo formativo della nazione, centrato sulla tendenziale unificazione di città e campagna, le figure portanti sono, dunque, gli intellettuali, che elaborano una lingua, dei costumi, una tradizione storica capaci di diffusione popolare e di integrare filosofia e religione, il pensare e il sentire in un senso comune dinamico ed espansivo.

Si tratta di un processo che ad un determinato punto incontra i suoi limiti, per la natura intrinsecamente contraddittoria di questa integrazione: la borghesia non può assimilare a sé tutta la società, pena la sua stessa negazione, ma nello stesso tempo l’universalismo della sua costituzione la spinge in quella direzione.24 In questo movimento si manifesta la tendenza incoercibile alla democrazia dei tempi nuovi, ma anche le torsioni che, in particolari circostanze di crisi, la deformano nella terribile caricatura totalitaria oppure la frantumano nei rivoli delle rivoluzioni passive. Se il primitivo programma di indagine sulla nazione italiana poteva lasciar pensare a una ricerca ristretta a un ambito solo nazionale, man mano che la ricerca si approfondisce si nota come Gramsci collochi la questione della nazione italiana nel quadro di un’analisi differenziale del processo mondiale di fusione tra struttura (mercato mondiale) e sovrastruttura (Stati nazionali) e di formazione del blocco storico borghese. Sulla scia del “Manifesto del partito comunista” e de “Il Capitale” di Marx, Gramsci giudica che la storia moderna sia storia mondiale e che solo convenzionalmente la si può pensare sotto il profilo nazionale, poiché si tratta appunto dello «stesso sviluppo storico che si manifesta in maniera differente nei diversi paesi combinandosi diversamente con gli elementi nazionali».25 Filosoficamente egli ritiene che «il concetto hegeliano sullo “spirito del mondo” che si impersona in questo o quel paese è un modo “metaforico” o immaginoso di attirare l’attenzione su questo problema».26

Ma nello stesso tempo, come scrive nel Quaderno 14 «Realmente il rapporto “nazionale” è il risultato di una combinazione “originale” unica (in un certo senso) che in questa originalità ed unicità deve essere compresa e concepita se si vuole dominarla e dirigerla (…). Ma la prospettiva è internazionale e non può che essere tale».27

La «quistione della nazione italiana» – con una sensibile variazione di accenti rispetto non solo agli scritti precarcerari ma anche agli esordi dei “Quaderni” – viene inserita in una teoria della costituzione dei soggetti storici che si articola intorno ad un doppio fuoco: teoria della costituzione e della crisi dello Stato nazionale, soggetto storico dell’epoca moderna, e teoria della embrionale costituzione del nuovo soggetto dell’epoca post-statale a tendenza cosmopolitica.

L’aspetto che qui ci interessa è che, sviluppando le implicazioni della crisi seguita alla prima guerra mondiale, Gramsci tende a rovesciare il rapporto tra nazionale e cosmopolitico, proprio perché il quadro dell’epoca non è più dominato dallo Stato nazione, quale soggetto esclusivo dello sviluppo storico.

Nel Quaderno 6 Gramsci espone i termini generali in cui si manifesta la crisi: «Già oggi si verifica nel mondo moderno un fenomeno simile a quello del distacco tra “spirituale” e “temporale” nel Medio Evo (…). Gli intellettuali tradizionali, staccandosi dal raggruppamento sociale al quale avevano dato finora la forma più alta e comprensiva e quindi la coscienza più vasta e perfetta dello Stato moderno, in realtà compiono un atto di incalcolabile portata storica: segnano e sanzionano la crisi statale nella sua forma decisiva».28 Il distacco degli intellettuali, principali agenti della nazionalizzazione del territoriale mediata dallo Stato, costituisce il segnale più evidente dello scollamento tra nazione e Stato e l’indice, ancora disorganico e pulviscolare, di nuove possibili aggregazioni. La ricerca di Gramsci è orientata a cogliere queste possibilità all’interno della contraddizione strategica che vede aprirsi negli sviluppi della crisi postbellica.

In un brano assai noto, egli scrive «Tutto il dopoguerra è crisi (…). Per alcuni (e forse non a torto) la guerra stessa è una manifestazione della crisi (…). Una delle contraddizioni fondamentali è questa: che mentre la vita economica ha come premessa necessaria l’internazionalismo o meglio il cosmopolitismo, la vita statale si è sempre più sviluppata nel senso del “nazionalismo”, “del bastare a se stessi” ecc.

Uno dei caratteri più appariscenti della “attuale crisi” è nient’altro che l’esasperazione dell’elemento nazionalistico (statale nazionalistico) nell’economia».29 A partire dal terreno dell’economia si sta sviluppando una diversa dinamica tra nazionale e cosmopolitico, ma la crisi in Europa si avvolge su se stessa con tratti distruttivi, se non catastrofici, per le tendenze a riportare entro i rigidi confini dello Stato le forze del nuovo industrialismo che invece si dispiegano attraversando i confini.

In Gramsci, nonostante la crisi del 1929 e nonostante l’affermarsi del fascismo e del nazionalsocialismo, tra il 1932 e il 1935 si rafforza la convinzione che tra i due capitalismi che si contendono il futuro del mondo, quello autoritario-statalistico, diffuso in Europa anche in paesi e in ambienti democratico–socialisti, e quello liberaldemocratico, rappresentato dall’americanismo, sia destinato a vincere il secondo perché prova a chiudere positivamente la contraddizione fondamentale dell’epoca, assecondando la tendenza cosmopolitica.

È da questa prospettiva che Gramsci giudica anacronistico e antistorico il tentativo del fascismo di affrontare il «nodo storico della nazione italiana ». Anacronistico perché nell’esplosione della crisi organica dello Stato punta al volontariato della nazione per ricostituirne artificiosamente e autoritariamente l’unità, pretendendo così di risanare le tare della sua struttura: «All’adesione organica delle masse popolari-nazionali allo Stato si sostituisce una selezione di “volontari” della “nazione” concepita astrattamente. Nessuno ha pensato che appunto il problema posto dal Machiavelli col proclamare la necessità di sostituire milizie nazionali ai mercenari (…) non è risolto finché anche il “volontarismo” non sarà superato dal fatto “popolare- nazionale” di massa».30

Quindi, non è l’ingresso delle masse nella storia e nella politica, con il loro carico di pathos religioso, a spingere la nazione sulla china del nazionalismo (secondo il modulo liberale), bensì il loro inquadramento statale– autoritario da parte dei “mercenari della nazione”.

Il fascismo appare a Gramsci antistorico per un duplice ordine di ragioni. Innanzitutto, nonostante avanzi, in alcune note, l’idea che il fascismo rappresenti una delle manifestazioni della rivoluzione passiva, egli ritiene che esso «non fa[ccia] epoca», in base alla sua diagnosi anticatastrofista della crisi e all’approfondimento che viene compiendo nel Quaderno 22 dell’americanismo.

Inoltre egli sottolinea l’inconciliabilità del fascismo con il cosmopolitismo della tradizione italiana,31 reputando i conati europeisti del regime infondati e propagandistici. Mentre il cosmopolitismo è stato per secoli la causa della fragilità e incompiutezza dello Stato italiano, con l’emergere del nuovo terreno dell’industrialismo di marca americana esso viene assumendo un valore del tutto nuovo, un senso positivo che pone in sintonia l’Italia con le correnti del tempo.

Nel Quaderno 14 Gramsci aveva richiamato, in un brano assai noto, le tendenze del tempo da assecondare: «Una classe di carattere internazionale in quanto guida strati sociali strettamente nazionali (…) deve “nazionalizzarsi” in un certo senso e questo senso non è d’altronde molto stretto, perché prima che si formino le condizioni di un’economia secondo un piano mondiale, è necessario attraversare fasi molteplici in cui le combinazioni regionali (di gruppi di nazioni) possono essere varie. D’altronde non bisogna mai dimenticare che lo sviluppo storico segue le leggi della necessità fino a quando l’iniziativa non sia nettamente passata dalla parte delle forze che tendono alla costruzione secondo un piano, di pacifica e solidale divisione del lavoro».32

«L’espansione moderna è di ordine finanziario-capitalistico»; «Le condizioni di una espansione militare nel presente e nell’avvenire non esistono e non pare siano in processo di formazione ».33 Insomma, l’egemonia degli Stati Uniti sull’Europa dei nazionalismi e del militarismo si fonda sull’espansività del suo modello di industrialismo che non fa perno sulla terra, sul territorio e quindi sulla conquista militare, ma sul fattore umano, quel fattore umano che già era emerso nel corso del processo di nazionalizzazione del territoriale.

La tradizione italiana che, nella lunga fase storica segnata dall’esclusivo dominio della forma statale, aveva contribuito a relegare il paese ai margini dello sviluppo moderno, appare ora in singolare sintonia con la nuova struttura del mondo: nazione e cosmopolitismo tendono a non divergere più, anzi il cosmopolitismo appare a Gramsci una risorsa dell’Italia nel nuovo contesto storico.

«Il popolo italiano è quel popolo che “nazionalmente” è più interessato a una moderna forma di cosmopolitismo – in questa stesura del 1935 il termine cosmopolitismo sostituisce quello di internazionalismo usato nella prima stesura della nota nel Quaderno 9 – (…). Collaborare a ricostruire il mondo in modo unitario è nella tradizione del popolo italiano, della storia italiana (…) si può dimostrare che Cesare è all’origine di questa tradizione (…). La “missione” del popolo italiano è nella ripresa del cosmopolitismo romano e medioevale, ma nella sua forma più moderna ed avanzata».34

Dopo avere per una nutrita serie di note stigmatizzato quel corso di eventi e di scelte che Cesare aveva inaugurato, con un singolare rovesciamento di prospettiva, che – è bene sottolineare – denuncia una concezione della storia per nulla linearmente progressiva, “storicistica” secondo quanto si è ripetuto sino alla nausea, Gramsci riabilita Cesare e con lui il cosmopolitismo imperiale e papale. Una tradizione incongrua con le principali correnti moderne si rivela carica di futuro nel momento in cui i segni del tempo alludono a un mondo ordinato non più secondo partizioni territoriali, ma secondo le potenzialità e le qualità degli uomini. Torna il tema del cosmopolitismo, ma un cosmopolitismo che si distingue sia dal cosmopolitismo medievale che dall’internazionalismo: dal primo, per l’ingresso del lavoro nel circuito della circolazione mondiale, un lavoro non più legato alla terra, “idiotizzato”, ma capace, al pari dei detentori del denaro e del sapere, di circolare liberamente; dal secondo, per il mantenimento, alla base del processo della nazione, di un nesso intellettuali-popolo che il moderno principe ha il compito di mettere in forma politica, oltre la chiusura territoriale dello Stato. Rispetto al cosmopolitismo medievale e illuminista, l’idea proposta da Gramsci si carica di una densità democratica, che deve trovare una figura politica che la esprima. Le note non vanno oltre, si fermano sulla soglia dell’evocazione simbolica consegnata alla figura di Cesare che, con Machiavelli, disegna i contorni di una meditazione politica che punta a dare nuova linfa alla democrazia, la cifra più autentica e profonda della modernità.

[1] Ricapitola i vari fenomeni, interni e internazionali, che producono indebolimento delle strutture nazionali, smarrimento del senso di appartenenza e spinte centrifughe, sollecitando un ripensamento della idea stessa di nazione, Franco De Felice in un denso saggio, La crisi della nazione italiana, apparso in “Passato e presente” 36/1995. Dall’esplosione del leghismo all’azzeramento di un’intera classe dirigente: «Nel giro di alcuni anni si ha la disintegrazione dell’organizzazione politica dei cattolici italiani, la scomparsa del PSI e l’autoscioglimento del PCI»; dalla fine del sistema bipolare delle relazioni internazionali al rilancio massiccio della globalizzazione dei mercati, l’insieme di questi processi rivela ed esaspera in Italia lo «scarso radicamento e sviluppo della cittadinanza intesa non solo come titolarità di un complesso di diritti (…) ma come comunità civica». Ivi, p. 6.

[2] Cfr. G. Haupt, M. Lowy, C. Weill, Les Marxistes et la question nationale (1848-1914), Maspero, Parigi 1974, p. 17.

[3] Cfr. F. Chabod, L’idea di nazione, Laterza, Roma-Bari 2002, e F. Meinecke, Nazione e cosmopolitismo, La Nuova Italia, Firenze 1930.

[4] Un giovane e valente studioso, purtroppo di recente scomparso, pubblicò nel 2002 un volume nel quale si affronta in modo assai ricco e persuasivo il difficile farsi della nazione italiana. Cfr. F. Ciarleglio, La piramide capovolta. Crisi dello Stato e filosofia tra Risorgimento e fascismo, Vivarium, Napoli 2002.

[5] B. Croce, Storia d’Italia dal 1871 al 1915, Laterza, Roma-Bari 1929.

[6] E. Renan, Che cos’è una nazione, Donzelli, Roma 1998.

[7] K. Renner, Staat und Nation, Vienna 1899, in R. Monteleone, Classe operaia e movimenti nazionali, Giappichelli, Torino 1981; B. Bauer, La questione delle nazionalità e la socialdemocrazia, in R. Monteleone, op. cit.

[8] V. A. Asor Rosa, Scrittori e popolo, Samonà e Savelli, Roma 1965, e in genere quegli autori che opponevano, come modello di letteratura critica, le avanguardie storiche al nazionale-popolare.

[9] A. Gramsci, Quaderni del carcere, Einaudi, Torino 1975, Q. 17, pp. 1935-6.

[10] Cfr. Meinecke, op. cit., e C. Schmitt, Terra e mare. Una riflessione sulla storia del mondo, Adelphi, Milano 2002 (ed. or. 1942) e Id., Il nomos della terra, Adelphi, Milano 1991.

[11] «Ogni volta che affiora, in un modo o nell’altro, la quistione della lingua, significa che si sta imponendo una serie di altri problemi: la formazione e l’allargamento della classe dirigente, la necessità di stabilire rapportii più intimi e sicuri tra i gruppi dirigenti e la massa popolare-nazionale, cioè di riorganizzare l’egemonia culturale». Gramsci, op. cit., Q. 29, p. 2346.

[12] Ivi, Q. 27, p. 2312.

[13] Ed è per questa ragione che egli ritiene anacronistiche e dilettantesche le tesi di chi, come Mario Missiroli, imputando le debolezze della nazione italiana alla mancanza di una riforma religiosa, si fa sostenitore di un’attualizzazione del protestantesimo (Ivi, Q. 14, pp.1682-4). Ormai l’obiettivo di saldare intellettuali e classi subalterne si sviluppa su un piano integralmente laico (filosofico) ed è divenuto compito del moderno principe bandire la riforma intellettuale e morale, mentre i propositi di riforme religiose risultano appannaggio di ristrette élite intellettuali.

[14] Ivi, Q. 10, p. 1305.

[15] Chabod, op.cit., pp. 61-2.

[16] Gramsci, op. cit., Q. 19, pp. 2028-9.

[17] Ivi, p. 2070.

[18] Cfr. L. von Mises, Stato, nazione ed economia, Bollati Boringhieri, Torino 1994, e lo stesso Otto Bauer.

[19] Gramsci, op. cit., Q. 9, pp. 1129-30.

[20] Ivi, Q. 13, p. 1559.

[21] Ivi, Q. 19, pp.1953-4.

[22] Ivi, Q. 17, p. 1924.

[23] M. Ciliberto, Cosmopolitismo e Stato nazionale nei “Quaderni del carcere”, in G. Vacca (a cura di), Gramsci e il Novecento, I, Carocci, Roma 1999, p. 159.

[24] «La classe borghese pone se stessa come un organismo in continuo movimento, capace di assorbire tutta la società, assimilandola al suo livello culturale ed economico (…). Come avvenga un arresto e si ritorni alla concezione dello Stato come pura forza ecc. La classe borghese è “saturata”: non solo non si diffonde, ma si disgrega». Gramsci, op. cit., Q. 8, p. 937.

[25] Ivi, Q. 19, p. 2033.

[26] Ivi, Q. 10, p. 1359.

[27] Ivi, Q. 14, p. 1729.

[28] Ivi, Q. 6, pp. 690-1.

[29] Ivi, Q. 15, pp. 1755-6.

[30] Ivi, Q. 19, p. 1980.

[31] Gramsci non pare dare nessun credito ai tentativi del fascismo, o almeno di alcune sue correnti, di proiettarsi al di là della nazione e di affermarsi come movimento egemonico in Europa. In carcere egli ha avuto tra le mani gli Atti del convegno internazionale organizzato dall’Accademia d’Italia nel 1932 dal titolo “L’Europa” (vedi FG).

[32] Gramsci, op. cit., Q. 14, p.1729.

[33] Ivi, Q. 19, p. 1988.