Il voto che si fa in quattro

Di Mauro Calise Giovedì 26 Giugno 2008 19:06 Stampa

I sondaggi sono fondamentali nell’analisi del voto, ma spesso se ne fa un uso limitato alle variabili socioanagrafiche e al cosiddetto voto d’opinione. Riprendendo una tipologia classica, si esaminano qui
diversi circuiti di mobilitazione del consenso, come lo scambio e l’appartenenza, tutt’altro che scomparsi
dalla scena politica italiana, e si richiama l’attenzione sul peso sempre maggiore del “voto al leader”,
una nuova forma di appartenenza, non più ai partiti ma ai loro capi.

 

Assorbito (si fa per dire) il trauma della sconfitta, si apre il tempo della riflessione sulle ragioni per cui l’elettorato ha scelto, di nuovo, il centrodestra. Le ragioni, ci preme sottolineare, e non i numeri. Quelli, ormai, li conosciamo bene. Dopo un secolo di ostracismo, metà marxiano e metà crociano, la sinistra è diventata una cultrice entusiasta dei dati che fotografano i processi elettorali, soprattutto se si tratta di sondaggi, che – con la solita avvertenza del più due o meno due di imprecisione – sembrerebbero offrirci lo spaccato di quella società che facciamo sempre più fatica a intercettare. I sondaggi, però, non bastano. Anzi, se usati male, portano fuori strada. Lungi da me l’antipositivismo: un quarto di secolo fa sono riuscito, con Renato Mannheimer, a pubblicare le prime tabelle su “Critica Marxista” e ad essere tra i giovani studiosi che partecipavano agli straordinari seminari organizzati da Aris Accornero al Cespe negli anni Ottanta che tanto contribuirono ad aprire gli occhi del movimento operaio nei confronti delle scienze sociali. Più di recente, ho avuto la fortuna di lavorare nella cabina di regia che, alle elezioni del 1996, scelse “scientificamente” i collegi in cui concentrare le risorse – di uomini e di comunicazione – per la controffensiva vittoriosa del primo Prodi contro Berlusconi. E, in quindici anni di battaglie sul fronte sud, ho utilizzato gli strumenti demoscopici in sei scontri, tutti con esito positivo, per la conquista – e la difesa – di Napoli. Nell’analisi del voto, però, i sondaggi – e i cosiddetti flussi – possono anche essere fuorvianti.

Il limite di molte tabelle che sono circolate in queste settimane – e, ancor più e peggio, in quelle precedenti al voto – è che rappresentano soltanto una fetta dell’elettorato, con la pretesa implicita, però, che sia tutto l’universo. Le analisi sono, invece, parziali, per almeno due caratteristiche. Innanzitutto, perché rilevano variabili socioanagrafiche che sono, ovviamente, le più semplici da indo- vinare e fanno, anche per questa ragione, da decenni la fortuna dei sondaggisti. Un po’ meno, però, quella dei politici. Una volta che il committente ha scoperto che sta perdendo uno o due punti tra i giovani, o le casalinghe, più o meno scolarizzate e/o occupate, non è chiaro, infatti, cosa faccia (o si supponga che debba fare) per tentare di correre ai ripari. Al più, può scegliere di mettere in lista qualche faccia con meno rughe e più sorrisi. O di aumentare le risorse offerte a quel target elettorale nel programma del proprio partito. In entrambi i casi, il presupposto è che l’elettorato intercetti e recepisca questi messaggi. E qui cominciano gli equivoci. Non ci soffermeremo (anche se sarebbe importante) su se e quanto sia legittimo cambiare (per carità, in modica quantità) il programma o le liste di un partito soltanto per compiacere i gusti (presunti) del cittadino-elettore. Il dubbio più importante da sciogliere resta quello che riguarda il circuito attraverso il quale quel giovane – o quella casalinga – forma il proprio orientamento di voto. Nello schema sondaggiocentrico, l’assunto è che tutto funzioni attraverso quello che nel gergo politologico e mediatico si chiama “circuito d’opinione”. Gli elettori scelgono di votare per A o per B perché si convincono dell’offerta che A o B gli propongono a mezzo stampa. Ma funziona davvero così?

L’idea del votante razionale è quella di gran lunga preferita da tutti gli attori in campo. Piace innanzitutto ai partiti, che possono così autorappresentarsi come attenti ai bisogni della gente, e capaci di tradurli in ponderose liste di interventi mirati a risolvere questo o quel problema. A chiudere il circolo virtuoso ci pensa il cittadino-elettore che, doverosamente informato, provvede a premiare (o a punire) il partito a seconda che abbia bene o male corrisposto alle proprie aspettative. Oltre ai partiti e ai cittadini, lo schema del votante razionale piace moltissimo anche ai media, che possono così rappresentare la competizione elettorale a propria immagine e somiglianza: come uno scontro (ordinato) di opinioni attraverso (ovviamente!) la stampa d’opinione. Infine, questo modello soddisfa le pulsioni dei politologi, che quando descrivono il mondo in ricerche ponderose e illegibili sanno essere rigorosi latori di verità molto scomode. Ma se devono, invece, inseguire i propri aneliti riformatori preferiscono adeguarsi al bon ton dell’etica pubblica. Si potrebbe parafrasare: tutti insieme, razionalmente.

La realtà, manco a dirlo, è diversa. Gli studi classici sul comportamento elettorale descrivono almeno altri due circuiti attraverso i quali i cittadini decidono per chi e come votare: oltre al voto d’opinione, ci sono quelli di appartenenza e di scambio. Il riferimento canonico per inquadrare questa tipologia resta un saggio di Parisi e Pasquino pubblicato trent’anni fa, sulla scia della tradizione americana, e che ha avuto grande influenza sul dibattito dei decenni successivi.1 In sintesi molto sommaria, il voto di appartenenza nasce da un attaccamento ai partiti spesso maturato attraverso processi di socializzazione primaria (il voto ereditato in famiglia) o di radicamento territoriale (come nel caso delle arcinote subculture bianche e rosse tanto in auge nella prima Repubblica)2 e fissato con un collante ideologico che funge da visione del mondo più o meno organica a supporto dell’appartenenza. Il voto di scambio alligna, invece, nelle reti e reticoli di interessi che si scambiano liberamente sul mercato, su base individualistica. In America lo chiamano patronage, e ha alimentato la machine politics che ha integrato milioni di immigranti nel melting pot democratico. In Italia – complici gli stessi studiosi statunitensi con il complesso della civic culture – viene chiamato clientelismo, e attribuito esclusivamente al Sud. Noi preferiamo invece la categoria avalutativa di voto micropersonale, per ragioni che verranno chiarite più avanti. Uno dei vantaggi di questa tipologia è che essa individua con estrema chiarezza e semplicità i principali blocchi in trasformazione del panorama politico italiano negli ultimi vent’anni,3 ed è stata, in larga misura, utilizzata a questo scopo negli schemi interpretativi egemoni, soprattutto nel centrosinistra. Per citare l’esempio più eclatante, la spinta verso l’adozione di un sistema maggioritario si è alimentata della seguente diagnosi: a) che erano in crisi le appartenenze partitiche (anche a causa del disgelo ideologico conseguente alla caduta del Muro); b) che erano in rotta le reti clientelari (anche grazie all’affossamento giudiziario dei vecchi partiti di governo); c) che l’elettorato italiano era pronto ad adeguarsi al trend dominante in tutte le altre democrazie mature, emancipandosi da appartenenze e clientele e scegliendosi razionalmente il partito più adatto a governarlo. Corollario e al tempo stesso postulato (la matematica è un’opinione…) di questo circolo virtuoso era il fatto che i partiti in campo si riducessero a due, per semplificare la scelta e renderla, al tempo stesso, più efficace.

Questa diagnosi è stata tanto accattivante quanto fuorviante, sia nel pesare le trasformazioni dei tre tipi di comportamento di voto, sia nel limitare ad essi l’analisi dei mutamenti in corso. Infatti, e contrariamente alle attese del paradigma razionalista: a) il voto di appartenenza ha resistito molto meglio (o peggio) del previsto, anzi, si dovrebbe dire, è risorto, anche se in enclave impreviste come il blocco nordista della Lega; b) il voto di scambio è ritornato in auge, dopo una breve parentesi che ne aveva fatto sperare l’estinzione, come dimostrano le percentuali dei voti di preferenza ai candi- dati consiglieri nelle elezioni locali (comunali, circoscrizionali, regionali) in tutto il Sud, ma anche in molte aree del Nord;4 c) il voto di opinione è cresciuto (se è cresciuto) molto meno che nelle previsioni, anche a causa della concorrenza subita da parte di un nuovo tipo di circuito per la mobilitazione del consenso esploso sulla scena mediatica. Oltre, cioè, a un diverso andamento dei tre comportamenti di voto, va registrata una novità importantissima, che amplia la tipologia tradizionale con l’innesto di un altro tipo di voto: il voto al leader. È stato questo il vero terremoto che ha scompaginato gli assetti dei partiti, a livello sia nazionale che locale. Dalla primavera dei sindaci all’ascesa di Berlusconi, il vero mattatore della seconda Repubblica è stato il voto macropersonale. Un voto, cioè, in cui contano moltissimo la personalità e il carisma del leader, in un rapporto però di uno-amolti, che lo distingue (abbastanza) nettamente dalle reti micropersonali faccia-a-faccia.

Nella Figura 1, i quattro tipi di voto sono inquadrati in una matrice che ne disegna con chiarezza i contorni, nonché i rapporti che intercorrono tra i diversi quadranti. Per ogni approfondimento si rimanda al bellissimo saggio di Luigi Di Gregorio, autore di questa geniale integrazione della tipologia originaria.5 Ci si limiterà in questa sede a riprenderne alcuni punti salienti.

Innanzitutto, i due assi che individuano gli attori della competizione elettorale: «Lungo l’asse verticale, si sono inseriti gli estremi del continuum che va dall’elettore individuale alla comunità degli elettori, definiti come ‘citizen’ e ‘people’ (…). Lungo l’asse orizzontale, invece, i due concetti prescelti sono ‘party’ e ‘leadership’, ossia l’attore collettivo e quello individuale che ricoprono ruoli rilevanti nella strutturazione della competizione e di conseguenza

 

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della scelta degli elettori in un sistema politico democratico».6 L’incrocio dei due assi dà luogo a quattro quadranti (in gergo metodologico si chiamano spazi degli attributi) che sono altrettanti tipi di comportamento di voto.7 Non ci soffermeremo sui tre quadranti già noti (in basso a destra, lo scambio; in basso a sinistra, l’opinione; in alto a sinistra, l’appartenenza), già illustrati sopra e che vengono puntualmente descritti nel testo da cui viene ripresa questa argomentazione. Guardiamo, invece, più in dettaglio, le caratteristiche del quadrante in alto a destra: «Qui il riferimento evidente è alla figura del ‘voto populistico’ o di quello ‘carismatico’, molto rilevanti in numerose democrazie occidentali contemporanee (…). La personalizzazione e la spettacolarizzazione della politica, prodotta da un uso frequente e strumentale della televisione e dei new media e conseguente alla crisi delle ideologie post guerra fredda, hanno comportato la crisi e il superamento del partito di massa, favorendo la nascita di ‘partiti personali’, incentrati sul ruolo del leader e sovente tendenti a cavalcare il malcontento popolare in maniera populistica».8 E, ancora più importante, seguiamo il ragionamento dell’autore nello spiegare le relazioni che – grazie all’inquadramento in matrice – diventano logicamente visibili tra i diversi tipi di voto: «Ad un livello maggiore di astrazione, sarebbe forse possibile ipotizzare l’accoppiamento dei due tipi ‘voto di appartenenza’ e ‘voto carismatico’ da una parte e ‘voto di opinione’ e ‘voto di scambio’ dall’altra, per suggerire la prevalenza, da un lato (quadranti in alto) di un agire razionale orientato al valore, un qualche sentimento di appartenenza non solo verso l’ideologia di un partito, ma anche nei confronti di un leader politico; e, dall’altro, la preponderanza di un agire razionale orientato allo scopo, che caratterizza il singolo elettore che struttura il proprio orientamento di voto sulla base di una sorta di calcolo, o quantomeno di valutazione razionale, poco o punto influenzata da questioni identitarie o relative all’universo dei valori. La nuova categoria di voto, pertanto, rappresenta in quest’ottica un nuovo tipo di voto di appartenenza, non più al partito, bensì al leader, e questo spiegherebbe, passando dalla teoria ai dati empirici, il perché della stabilità degli orientamenti di voto dell’elettorato italiano, che è passato da un voto ideologizzato (party oriented) a un voto carismatico (leader oriented), anziché muoversi verso il voto di opinione (issue oriented), come il sistema maggioritario e la meccanica bipolare prescriverebbero. Una delle ipotesi sull’assenza di volatilità inter-area può essere fatta risalire allora a questa anomalia della competizione elettorale, che spinge, tra l’altro, verso la frammentazione partitica, nonostante il maggioritario e nonostante la riduzione numerica e in termini di polarizzazione dei cleavages sociali, rispetto alla prima Repubblica. Il voto leader oriented spinge la classe politica italiana a creare nuovi partiti, per far nascere nuove figure di leader in grado di attrarre il consenso degli elettori».9

In queste poche righe è probabilmente contenuta una icastica – e impietosa – rappresentazione di cosa è veramente successo nel rapporto tra elettorato e partiti nella lunga (e ancora incompiuta) transizione italiana.10 Nonché un invito a concentrare l’analisi – e l’azione – su fronti che solo molto parzialmente coincidono con quelli che la sinistra ha scelto per combattere la sua sfida per il governo del paese. Alcune delle scelte recenti della leadership del PD sembrerebbero sintonizzate sui requisiti del nuovo quadrante, dando maggiore enfasi e spazio al ruolo del candidato premier nella competizione elettorale. E non v’è dubbio che, in una qualche misura, si sta prendendo finalmente atto che il processo di presidenzializzazione della scena politica italiana ricalca fenomeni da tempo in corso in tutto l’Occidente, e anche fuori dei suoi confini.11 Piaccia o meno, questo è il giardino in cui occorre riuscire a competere.

Attenzione, però, a prendere sul serio e fino in fondo le caratteristiche della nuova arena elettorale. Non si tratta di una evoluzione in chiave personalistica del (solito) voto di opinione. Una sorta di scelta razionale light, meno issue centered e più candidate oriented, ma comunque da giocarsi attraverso, e all’interno, della cerchia mediatica, con un po’ di lifting alle liste e un pressing buonista sull’immagine. Tutto questo può anche aiutare (un poco) a bucare lo schermo, però non basta per sfondare nei cuori e nello stomaco dell’elettorato. Come illustra bene Di Gregorio, quello che è in gioco nel voto populistico è un sentimento identitario, un richiamo capace di innestare e sedimentare un rapporto anche di tipo autoritario col leader: è ciò che ne spiega la durata e, al tempo stesso, la tenuta anche sul piano valoriale.

La sinistra, con questo tipo di leadership, tende a trovarsi a disagio, culturale e ideale, anche se non necessariamente sociale. Ci sono stati esempi recenti, soprattutto a livello locale, in cui questa miscela ha fun- zionato. Ma è certo che, nel dibattito pubblico e nel proprio carniere ideologico, la sinistra preferirebbe farne a meno. Solo che, di questo passo, è difficile che si riesca a intercettare – e, soprattutto, stabilizzare – il consenso di un elettorato che vota meno con la propria testa di quanto ci piacerebbe pensare. In conclusione, quattro suggerimenti per riaprire la discussione (tanto, per il momento, ci sono molti leader disoccupati): a) i sondaggi sono importantissimi ed è un bene che la cultura di sinistra, finalmente, li maneggi anche nei dettagli. Andrebbero, però, sempre inquadrati in uno schema interpretativo il più ampio e articolato possibile; b) il paradigma razionalista che punta tutto sul voto d’opinione riflette la cultura e il contesto angloamericano in cui nasce. Si adatta solo in parte all’Europa, e ancora poco al nostro paese; c) ogni strategia elettorale, per vincere, deve sapere investire in tutti i target elettorali, non sulla base delle proprietà sociologiche ma dei diversi circuiti del consenso cui fanno riferimento. Non serve parlare di “giovani” come fossero un unico universo: ci sono giovani che scambiano favori, giovani che leggono i giornali, giovani ancora radicati al territorio e giovani che cercano da un leader la sintesi dei loro bisogni; d) su questa strada, forse, non si troverebbe comunque la formula magica vincente, ma si riaprirebbe il discorso sul partito (un tempo si diceva: la sua forma) senza illudersi di semplificare tutto in una chiave palingenetica (come è stato con le primarie). Nel nuovo Partito Democratico dovrebbe esserci spazio legittimo per tutti e quattro i quadranti, perché ciascuno riflette un segmento, importante e irriducibile, dell’elettorato italiano. Quattro quadranti con implicazioni diverse sul piano dell’organizzazione, del personale politico, delle strategie e prassi di governo. Sarebbe anche una buona occasione per far funzionare il pluralismo: non come scontro di correnti o retaggio di ideologie, ma come modi diversi di intendere – e difendere – i diversi voti dei cittadini.

 

[1] A. Parisi, G. Pasquino, Relazioni partiti-elettori e tipi di voto, in A. Parisi, G. Pasquino (a cura di), Continuità e mutamento elettorale in Italia. Le elezioni del 20 giugno 1976 e il sistema politico italiano, Il Mulino, Bologna 1977, pp. 215-249.

[2] Per un riepilogo e un aggiornamento di una vastissima letteratura, il riferimento d’obbligo è a I. Diamanti, Bianco, rosso, verde... e azzurro. Mappe e colori dell’Italia politica, Il Mulino, Bologna 2003.

[3] Per un panorama più ampio degli studi sui comportamenti di voto cfr. M. Calise, La terza Repubblica. Partiti contro Presidenti, Laterza, Roma-Bari 2006, pp. 63-77.

[4] S. Bolgherini, F. Musella, Voto di preferenza e “politica personale”: la personalizzazione alla prova delle elezioni regionali, in “Quaderni di scienza politica”, 2/2007, pp. 275-305.

[5] L. Di Gregorio, Elezioni, in M. Calise, T. J. Lowi, Hyperpolitics. An Interactive Encyclopedia of Political Science, disponibile su www.hyperpolitics.net/new, 2005.

[6] Ivi.

[7] Per un inquadramento teorico e metodologico di questa e altre tipologie sviluppate con logica matriciale, si rimanda al capitolo introduttivo di M. Calise, T. J. Lowi, Hyperpolitics. An Interactive Encyclopedia of Political Science, University of Chicago Press, Chicago, in corso di pubblicazione.

[8] Di Gregorio, op. cit., p. 3.

[9] Ibidem.

[10] In una direzione simile – anche se con sottolineature e argomentazioni diverse – si muovono le belle ricerche di Paolo Natale sulla «fedeltà leggera». Cfr. P. Natale, La fedeltà leggera alla prova: i flussi elettorali del 2006, in R. Mannheimer, P. Natale (a cura di), L’Italia a metà. Dentro il voto del Paese diviso, Cairo Editore, Milano 2006, p. 55-67, e P. Natale, Mobilità elettorale e fedeltà leggera: i movimenti di voto, in P. Feltrin, P. Natale, L. Ricolfi (a cura di), Nel segreto dell’urna, Utet, Torino 2007.

[11] Cfr. T. Poguntke, P. D. Webb (a cura di), The Presidentialization of Politics: A Comparative Study of Modern Democracies, Oxford University Press, Oxford 2005.