Essere comunisti nel Novecento. Hobsbawm tra storia e memoria

Di Silvio Pons Mercoledì 01 Gennaio 2003 02:00 Stampa

È lo stesso Hobsbawm a fornirci una chiave di lettura della sua autobiografia: «in un certo senso, questo libro è l’altra faccia del Secolo breve: non una storia mondiale illustrata dall’esperienza dell’individuo, ma la storia mondiale che conforma l’esperienza o meglio che offre un insieme mutevole ma sempre limitato di scelte (…)». Questa chiave di lettura trova ampie conferme nelle pagine del volume.

 

Eric John Hobsbawm, Anni interessanti. Autobiografia di uno storico, Rizzoli, Milano 2002.

 

È lo stesso Hobsbawm a fornirci una chiave di lettura della sua autobiografia: «in un certo senso, questo libro è l’altra faccia del Secolo breve: non una storia mondiale illustrata dall’esperienza dell’individuo, ma la storia mondiale che conforma l’esperienza o meglio che offre un insieme mutevole ma sempre limitato di scelte (…)». Questa chiave di lettura trova ampie conferme nelle pagine del volume. Non si può prescindere dal fatto che il protagonista del libro è uno storico, uno dei maggiori storici marxisti del secolo trascorso, e non ci si può sottrarre alla tentazione di leggerne l’autobiografia in controluce con le tesi storiografiche esposte dall’autore nella sua ormai consacrata e diffusissima sintesi del XX secolo.1 Sin troppo magnetico è il fascino esercitato dall’intreccio tra la narrazione di una biografia intellettuale e la narrazione della grande politica, tra la riflessione generata dal vissuto personale e quella generata dal mestiere dello storico, tra la vita e l’epoca di una persona e «la sua personale osservazione di entrambe». Una simile ottica non è destinata a confinare il lettore in un orizzonte riservato ai soli iniziati. Al contrario, la lettura dell’autobiografia di Hobsbawm è un’occasione per ripensare questioni di orientamento decisivo sul nostro passato recente, e a ciò contribuiscono i tre livelli di articolazione del libro (la ricostruzione cronologica delle vicende personali e politiche; la rievocazione della carriera dello storico; la rielaborazione dei legami dell’autore con alcuni paesi e culture, oltre alla natia Mitteleuropa e alla Gran Bretagna).

La vicenda personale di Hobsbawm è anzitutto quella di un intellettuale che aderì molto presto al comunismo e che vi rimase legato per l’intera parabola della sua vita, giungendo soltanto dopo la fine dei regimi comunisti europei e dell’URSS a esprimere un distacco da quell’esperienza storica. La traccia lasciata è indelebile. Con notevole onestà intellettuale, Hobsbawm oggi riconosce che «il sogno della rivoluzione d’ottobre è ancora da qualche parte dentro di me, come i testi cancellati che attendono di essere recuperati da un esperto in qualche area dell’hard disk di un computer. L’ho abbandonato – anzi, l’ho rifiutato – ma non è stato obliterato». In questa luce, la sua biografia appare segnata da una forte continuità e coerenza politica e culturale, retrospettivamente sottoposta dal protagonista a uno sguardo critico e nello stesso tempo, per sua stessa ammissione, indulgente. Seguendo questo duplice registro, Hobsbawm ci offre una serie di considerazioni sul significato dell’appartenenza al comunismo, alternando l’intervento dello storico al flusso della memoria. Sotto questo profilo, la sua autobiografia è destinata ad aprire un fronte di riflessione largamente rimosso nella storiografia del nostro tempo (compreso il suo stesso lavoro) e a colmare una vistosa lacuna, quella costituita dalle motivazioni della scelta per il comunismo. Come l’autore osserva, «il motivo per cui il comunismo attirò tanti fra i migliori della mia generazione, assieme alla spiegazione di che cosa significasse per noi essere comunisti, dev’essere un argomento fondamentale della storia del Novecento». Hobsbawm divenne comunista nella Germania del 1932, all’età di quindici anni, pochi mesi prima dell’avvento di Hitler al potere. La sua famiglia si era trasferita a Berlino l’anno prima, proveniente da Vienna. La sua vicenda personale venne segnata da eventi traumatici: l’impoverimento causato dalla grande crisi economica, la repentina fuga dalla Germania, la tragedia della perdita di entrambi i genitori. Ma il suo accento cade sull’impatto e sull’invasività della politica, sull’impossibilità di sfuggire a una scelta nell’incandescente vita della capitale e nel ribollire della crisi di Weimar. Il suo ricordo è che «i mesi passati a Berlino fecero di me un comunista a vita, o almeno un uomo la cui vita perderebbe la sua stessa natura e il suo significato senza il progetto politico a cui si è dedicato sin da scolaro, anche se quel progetto è poi innegabilmente fallito e, come ora comprendo, era destinato a fallire». L’influenza delle circostanze storiche gli appare, in altre parole, così determinante e incancellabile sugli orientamenti soggettivi da rendere logiche le scelte estreme. «Eravamo sul Titanic e tutti sapevamo che si stava dirigendo contro un iceberg. L’unica incertezza riguardava quel che sarebbe successo quando lo avesse colpito», ricorda Hobsbawm: per questo egli ritiene impensabile, in quel momento, l’identificazione con le forze tradizionali della repubblica di Weimar, mentre la scelta nazionalista era nel suo caso esclusa dalla duplice identità britannica ed ebraica, e dalla vocazione cosmopolita. Le pagine dedicate alla «Berlino bruna e rossa» sono rivolte a sostanziare questa visione retrospettiva, sia pure con un eccesso di autodifesa. Persino tenendo conto della confusione regnante all’epoca e dello spirito di disciplina connaturato ai comunisti, resta difficile trovare spiegazioni alla cecità con la quale essi indicarono ostinatamente nella socialdemocrazia il «nemico principale», un atteggiamento che lo stesso autore (vestendo i panni dello storico) definisce «una follia», ma che nella memoria appare ridimensionato: in modo convincente egli respinge la tesi di una sostanziale affinità e osmosi tra gli «estremismi» di destra e di sinistra, ma preferisce glissare riguardo al contributo dato di fatto dai comunisti tedeschi all’ascesa di Hitler.

Un radicalismo di sinistra rivolto alla conquista del potere, dotato di una visione totalizzante della politica e alimentato dalla precarietà di una democrazia capitalistica che non era quella conosciuta dalle generazioni nate dopo la seconda guerra mondiale: questi, nel giudizio retrospettivo di Hobsbawm, i tratti essenziali del comunismo nell’Europa degli anni Trenta (e anche la differenza di fondo con la generazione dei romantici radicali del 1968). Un punto fermo delle sue memorie sembra essere la volontà di tracciare una netta linea di divisione tra la soggettività comunista e quella di altre esperienze che si sono rappresentate come rivoluzionarie e sovversive. Egli adotta l’espressione della «scelta di vita», coniata da Giorgio Amendola, per sottolineare il momento della scelta razionale di consacrare se stessi alla causa della rivoluzione e al partito. A suo parere, lo spazio del romanticismo nei partiti comunisti non era significativo («una vita dedita alla causa della rivoluzione non è la stessa cosa di una vita che cerca l’eccitazione nella guerriglia o nell’avventura»): lo era invece lo spazio dell’organizzazione, della routine, dell’antiretorica, gli autentici ingredienti per un’etica del sacrificio calata nella realtà quotidiana. Perry Anderson ha obbiettato che, in realtà, il comunismo non fu impermeabile a suggestioni romantiche, citando figure quali Trockij, Serge o Mariategui.2 Ma il discorso di Hobsbawm è inteso a restituirci un’autorappresentazione del nascente comunismo staliniano, la versione che doveva sostanzialmente identificarsi con il comunismo storico del Novecento. In questa autorappresentazione, il culto dell’operatività fu elemento portante di un ethos da setta religiosa (come seppe vedere Milovan Djilas) che raccoglieva il nocciolo duro dell’eredità leniniana. D’altro lato, come lo stesso Hobsbawm sottolinea, non fu questa l’unica componente dell’utopia comunista, né la sola a distinguerla da altre aspirazioni a fondare una nuova società. Giocarono un ruolo decisivo anche la fede nel carattere «scientifico» del marxismo, l’internazionalismo e, più ancora, la consapevolezza dei comunisti che «lungo la strada verso l’utopia millenaristica li aspettava la tragedia», come «combattenti in una guerra onnipresente». Così un ethos militaresco si sovrappose a quello settario, esprimendo l’ideologia della durezza imposta ai rivoluzionari, immortalata nelle parole di Bertolt Brecht («ahimè noi, che volevamo preparare il terreno per la benevolenza, non potevamo essere benevoli»). Qui interviene lo storico per rammentarci che la certezza di conoscere la direzione della storia è crollata da tempo; che le identità nazionali «erano molto più importanti di quanto immaginassimo»; e che l’etica della durezza comportò una colpevole cecità dinanzi ai crimini di Stalin, spiegabile ma non giustificabile con l’impressione che il liberalismo avesse storicamente fallito.

C’è però da chiedersi se la vigilanza dello storico non dovrebbe essere ancora più stringente. I ricordi di Hobsbawm si soffermano, come è comprensibile, sui comunisti «che rimasero fuori dalle stanze del potere», mentre ci dicono assai meno sui comunisti al potere. E tuttavia, sarebbe lecito attendersi una riflessione, tra memoria e storia, sul nesso che dovette esistere tra queste due realtà, sul piano della soggettività, della politica e della pedagogia. Questa è latitante, malgrado gli spunti al riguardo non manchino: l’autore stesso ricorda di aver letto «con entusiasmo» la parte filosofica del famigerato «Breve corso», il manuale di storia grossolanamente manipolato da Stalin; e di non aver nutrito sostanziali riserve circa la nuova linea anti-imperialista e disfattista imposta ai comunisti europei dopo il patto Molotov-Ribbentrop, salvo dubitarne più tardi, soltanto dopo la caduta di Parigi e dopo la battaglia d’Inghilterra. Hobsbawm ci presenta invece quelle due realtà come mondi separati, ed è evidente che, nello sguardo retrospettivo, il suo interesse per il secondo dei due è alquanto scarso e che la presenza dell’URSS resta ai margini della sua osservazione. È questo un forte limite del suo contributo alla ricostruzione dei caratteri del comunismo nell’«età della catastrofe», ma anche, e soprattutto, nell’epoca successiva. L’interrogativo principale che accompagna il lettore, giunti a questo punto, riguarda i motivi della durata dell’identità comunista dopo la seconda guerra mondiale. Rifugiatosi in Gran Bretagna (dove giungeva per la prima volta) nel 1933, Hobsbawm venne sottratto alla diretta attività politica e tre anni dopo si immerse negli studi nell’ovattato King’s College di Cambridge. Qui il pathos della sua vicenda giovanile si attenuò sensibilmente, anche se egli entrò in contatto con il peculiare mondo del comunismo britannico (iscrivendosi al PCGB nel 1936) e, senza sospettarne la vera attività, con alcune delle celebri «spie di Cambridge» (ma il suo resoconto in merito è destinato a deludere i curiosi). Visse gli anni dei Fronti popolari con viva partecipazione, ma prevalentemente da osservatore esterno, e poi gli anni della guerra in una posizione defilata («non feci nulla di significativo e nessuno mi chiese di farlo. Furono gli anni meno piacevoli della mia vita»). Nondimeno, l’esperienza dell’antifascismo fu cruciale nella sua formazione politica, come egli stesso afferma e come risulta, in particolare, dal capitolo dedicato alla Francia, ricordata quale «rifugio della civiltà», e «patria della speranza» all’epoca del Fronte popolare: anche se riconosce di aver digerito con qualche difficoltà non tanto lo scioglimento del Comintern nel 1943, quanto la linea di collaborazione seguita dall’URSS verso le potenze occidentali fino alla fine della guerra. Trasferitosi a Londra nel 1947 e poi nuovamente a Cambridge nel 1950, il suo ricordo della guerra fredda si intreccia con gli anni della maturità intellettuale e della tardiva ma ragguardevole affermazione come storico di fama internazionale (il suo celebre «The Age of Revolution», che doveva poi rivelarsi il primo volume di una trilogia sul XIX secolo, vide la luce nel 1962).3

I lettori interessati troveranno probabilmente più appassionante la ricostruzione del secondo aspetto: Hobsbawm fu tra i fondatori, nel 1952, di una rivista storica di orientamento marxista destinata a notevole fortuna, «Past&Present», che si guadagnò fama innovatrice per la sua inclinazione verso i primi studi di «storia sociale». Meriterebbero una considerazione a parte le pagine dedicate agli ambienti storiografici britannici e non (quasi per niente invece, purtroppo, alla sua stessa produzione, destinata a incentrarsi sugli studi di storia della rivoluzione industriale), dove ricorrono nomi quali Michael Postan, Lewis Namier, Christopher Hill, Edward Thompson, Fernand Braudel. I riferimenti al contesto politico dell’epoca sono invece più estemporanei, benché in qualche caso illuminanti. In particolare, l’autore osserva che la guerra fredda non interferì più di tanto nel lavoro degli storici, ma riconosce di aver operato una forma di autocensura evitando di affrontare la storia del Novecento, perché ciò lo avrebbe posto dinanzi a temi scomodi, a cominciare dalla storia dell’URSS (un’auto - censura destinata a durare a lungo, e liquidata soltanto dopo la fine dell’URSS). Hobsbawm si rapporta al clima anticomunista dominante negli anni Cinquanta, nel quale ogni comunista doveva essere per forza un «agente» di Mosca, senza calcare i toni e riconoscendo di non aver subito alcuna «caccia alle streghe» (diversamente da quanto sarebbe accaduto negli Stati Uniti del maccartismo), ma piuttosto una blanda discriminazione e un congelamento della carriera universitaria per alcuni anni. Più distratto appare riguardo al comunismo cominformista e ai processi della tarda età staliniana (Kostov, Rajk, Slansky): egli si limita ad affermare che ormai nessun intellettuale si faceva troppe illusioni sull’URSS e che nessuno tentò di avanzare giustificazioni paragonabili a quelle sui processi di Mosca degli anni Trenta, mentre il suo giudizio in qualità di storico è che «sottovalutammo chiaramente gli orrori di quello che era successo nell’Unione Sovietica sotto Stalin fin quando non venne denunciato da Chruscev nel 1956». Ma proprio quel procedimento di rimozione di un problema che andava al cuore dell’identità comunista («la nostra non era una vita facile» ricorda l’autore, e «l’Unione Sovietica, Dio ne è testimone, la rendeva sempre più dura») richiederebbe maggiore attenzione. La memoria riproduce soltanto un senso di estraniamento, contraddittorio con l’originario legame emotivo: l’autore afferma di essere tornato con un senso di depressione dal primo viaggio in URSS, nel 1954, compiuto insieme ad altri intellettuali comunisti inglesi, «perché non incontrammo quasi nessuno che fosse come noi».

In ogni caso, come per molti altri comunisti, anche per Hobsbawm i nodi vennero al pettine nel 1956, un anno vissuto «sull’orlo dell’equivalente politico di un esaurimento nervoso collettivo». Il trauma fu inevitabile, se non altro perché, come egli ricorda immedesimandosi nei sentimenti di allora, «non ci avevano detto la verità su qualcosa che riguardava la natura stessa delle convinzioni di un comunista». Tuttavia, né il «rapporto segreto» di Chruscev né l’invasione sovietica dell’Ungheria lo indussero ad abbandonare il partito, una scelta diversa da quella di altri intellettuali. Egli avanza due spiegazioni, una di carattere collettivo e una più aderente alla sua esperienza specifica. La prima rimanda alla storia del decennio post-bellico: «paradossalmente, quel che rese più facile o, per molti, possibile mantenere la vecchia fede fu, più di ogni altra cosa, la crociata mondiale dell’anticomunismo occidentale durante la guerra fredda». La seconda rimanda alla propria biografia: «politicamente, essendo entrato in un partito comunista nel 1936, appartengo all’era dell’unità antifascista e del fronte popolare (…) Ma dal punto di vista emotivo, come adolescente convertito nella Berlino del 1932, appartengo alla generazione unita da un cordone ombelicale quasi inscindibile alla speranza della rivoluzione mondiale e alla sua sede originale, la rivoluzione d’ottobre». A questa motivazione egli aggiunge l’orgoglio personale, la volontà di affermarsi senza le ovvie agevolazioni che la rinuncia all’appartenenza comunista avrebbe assicurato. Eppure, la natura di quel «cordone ombelicale» resta sfuggente: è davvero possibile sostenere che l’URSS fosse meno centrale per coloro che aderirono al comunismo nell’epoca dell’antifascismo, pur essendo in essi vaga e declinante l’idea della rivoluzione mondiale? In realtà, quando Hobsbawm si volge a definire il legame dei comunisti con l’URSS, le sue osservazioni si fanno generiche, e riproducono alcuni dei punti di vista più comuni: ad esempio, la convinzione che, con tutti i suoi difetti, l’URSS dovesse ancora esprimere un potenziale del socialismo; e quella che essa costituisse «una garanzia indispensabile», anche se «per noi era chiaro che l’Unione Sovietica non fosse in grado di conquistare il mondo per instaurarvi il comunismo». Forse dovremmo semplicemente prendere atto di come l’autobiografia di Hobsbawm rifletta meccanismi di rimozione dell’URSS che furono parte, in quanto tali, del vissuto dei comunisti europei e che, nel suo caso, sono posti in evidenza dalle scelte fatte nel mestiere di storico, volte a evitare il confronto con la storia del Novecento fino alla fine dell’URSS.

Secondo il giudizio dell’autore in veste di storico, «la rivoluzione d’ottobre creò il movimento comunista mondiale, il XX Congresso lo distrusse». E anche il filo della memoria non si misura oltre con le trasformazioni e la graduale dissoluzione dell’«essere comunisti», che pure ebbero una loro realtà ancora per ben tre decenni. Non è una lacuna facile da giustificare. Può essere comprensibile il suo disinteresse per la Cina e per le mitologie che la circondarono nella sinistra estrema degli anni Sessanta. Meno comprensibile il fatto che ci parli del rapporto con Cuba (dove si imbatté in una nuova leva di rivoluzionari romantici) e dell’identificazione con il Vietnam, ma non abbia niente da dirci sul carattere effimero di queste nuove simbologie rivoluzionarie. Ma Hobsbawm evita persino di soffermarsi sui momenti salienti delle speranze e delle disillusioni del comunismo europeo: la «Primavera di Praga», l’«Eurocomunismo», il declino dell’URSS, la perestroika di Gorbacev (a quest’ultimo sono dedicate poche scarne note per ricordare il «barlume di speranza» che si aprì e si richiuse nel giro di poco tempo). Tra l’altro, egli ci offre scarne annotazioni (assai meno di quanto ci si potrebbe aspettare) sui suoi rapporti con i comunisti italiani, probabilmente gli unici in grado di procurargli qualche gratificazione per la dimensione intellettuale nella quale si collocava la vita dell’unico partito comunista di massa europeo. L’ottica della memoria si rivolge invece a marcare tutta la differenza tra la sua generazione e quella protagonista del 1968. Allora egli vide con distacco, nei giovani del maggio francese, l’espressione di una confusa ribellione culturale di stampo individualistico (analoga alle forme primitive di rivolta sociale sulle quali Hosbawm aveva scritto un saggio fondamentale)4 piuttosto che un’autentica forza rivoluzionaria: né il suo legame affettivo con la musica jazz poteva aiutarlo a comprendere l’emergere delle culture alternative basate sul rock. Oggi si chiede se invece non si trattasse di «un’altra rivoluzione», che aboliva la politica tradizionale «e in ultima analisi la politica della sinistra tradizionale». Ma l’incomprensione di allora non costituisce, nella narrazione di Hobsbawm, un’occasione per porre interrogativi su come la cultura politica comunista e marxista (anche quella che aveva conosciuto maggiore vitalità in ragione della sua relativa distanza dall’URSS) si andò sclerotizzando e marginalizzando quando la rivoluzione socio-culturale degli anni Sessanta iniziò a lasciare il segno.

Assistiamo così a una curiosa inversione del fuoco rispetto al «Secolo breve». Questo privilegia la vicenda dell’URSS e finisce per presentare un’assai discutibile sottovalutazione del ruolo storico degli Stati Uniti: forse come reazione a una lunga autocensura, di certo conseguentemente alla controversa tesi della centralità del comunismo nel determinare la vita stessa del «secolo breve».5 Qui invece l’URSS non compare neppure tra i luoghi eletti, o almeno significativi, dell’autore, mentre la narrazione si chiude con un capitolo sulle frequentazioni negli Stati Uniti, iniziate negli anni Sessanta e divenute sempre più intense nel corso del tempo. Ma lo spirito catastrofista che aleggia nelle ultime pagine del «Secolo breve» non è mutato, né lo sono le sue coordinate: la percezione della fine dell’URSS non come un evento liberatorio ma come una componente decisiva della generale «frana» della civilizzazione («il mondo potrebbe pentirsi del fatto che, posto di fronte all’alternativa di Rosa Luxemburg fra socialismo o barbarie, abbia optato contro il socialismo»); e l’ostinato attaccamento a un antiamericanismo tradizionale, che sgorga direttamente dalla sua biografia politica. Pur sostenendo che gli Stati Uniti «per certi aspetti, sono stati il meglio del Novecento, la storia di maggior successo del secolo, ciò che resta e che dura dopo la sua fine» (un’affermazione che però non è contenuta nel «Secolo breve»),6 Hobsbawm mantiene un atteggiamento ipercritico verso la realtà americana, al punto di affermare il proprio sollievo per appartenere a «un’altra cultura». Forse questo atteggiamento è appesantito dalla preoccupazione per la mancanza di un senso del limite della potenza americana, che sembra delinearsi nella dottrina di sicurezza dell’amministrazione Bush dopo il trauma dell’11 settembre. Non è però compito dello storico abbandonarsi a profezie, e quella avanzata da Hobsbawm circa la fine del «secolo americano» può anche apparire plausibile a lungo termine, ma suona soprattutto polemica e inessenziale nel contesto di questo libro.

Resta invece la sua impareggiabile capacità di presentare la propria biografia politica e intellettuale con una dignità, uno spirito critico e un senso della misura sempre più rari ai nostri tempi, anche tra gli storici. Egli sa meglio di tanti altri, come gli capitò di affermare alcuni anni fa, che «ogni storico fa del proprio tempo il suo trespolo personale dal quale osservare il mondo. Forse condivide quel suo trespolo con altri in analoga situazione, ma fra i sei miliardi di esseri umani previsti per la fine del secolo, tale gruppo di pari e coetanei è statisticamente insignificante».7

 

 

 

Bibliografia

1 E. J. Hobsbawm, Il secolo breve, Rizzoli, Milano 1995

2 P. Anderson, The Age of EJH, in «London Review of Books», 24, 3 ottobre 2002.

3 E.J.Hobsbawm, Le rivoluzioni borghesi 1789-1848, Il Saggiatore, Milano 1963.

4 Hobsbawm, I ribelli. Forme primitive di rivolta sociale, Einaudi, Torino 1966.

5 S. Pons (a cura di), L’età degli estremi. Discutendo con Hobsbawm del Secolo breve, Carocci, Roma 1998.

6 Hobsbawm, Intervista sul nuovo secolo, a cura di A. Polito, Laterza, Bari-Roma 1999, p. 165.

7 E.J. Hobsbawm, De Historia, Rizzoli, Milano 1997, p. 267.