L'Unione europea deve agire in Medio Oriente

Di Steven Everts Mercoledì 01 Gennaio 2003 02:00 Stampa

Il processo di integrazione europea, nel corso dei primi tre decenni dal suo avvio, si è concentrato sugli aspetti economici. Il primo mutamento rispetto alla iniziale esclusione della politica estera dalle materie oggetto di decisioni comunitarie si è registrato, quasi paradossalmente, quando la Comunità economica europea (CEE) ha adottato una posizione comune sulla questione internazionale probabilmente più controversa e complicata: il conflitto arabo-israeliano.

 

Il processo di integrazione europea, nel corso dei primi tre decenni dal suo avvio, si è concentrato sugli aspetti economici. Il primo mutamento rispetto alla iniziale esclusione della politica estera dalle materie oggetto di decisioni comunitarie si è registrato, quasi paradossalmente, quando la Comunità economica europea (CEE) ha adottato una posizione comune sulla questione internazionale probabilmente più controversa e complicata: il conflitto arabo-israeliano.

La Dichiarazione di Venezia del 1980 è stato il primo importante tentativo della CEE di affermarsi nel campo della politica estera. Gli Stati membri, sulla base delle due fondamentali risoluzioni, 242 e 338, emanate dal Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, invocarono la necessità di un accordo negoziato sulla base della formula «terra in cambio di pace». Lo scopo dei negoziati era la creazione di due Stati separati, Israele e la Palestina. La Dichiarazione sottolineava il diritto di Israele di esistere entro «confini sicuri», «riconosciuti e garantiti secondo il diritto internazionale». Ma al tempo stesso raccomandava una «giusta soluzione» del problema palestinese, affermando il diritto dei palestinesi all’autodeterminazione. La CEE specificava inoltre che non «avrebbe accettato alcuna iniziativa unilaterale destinata a modificare lo status di Gerusalemme», e sosteneva che «insediamenti, così come interventi sulla composizione della popolazione e sulla proprietà nei territori arabi occupati sono considerati illegali dal diritto internazionale». La CEE dichiarava anche di ritenere necessario che l’OLP venisse coinvolto nella ricerca di una risoluzione duratura alla questione. Il governo israeliano denunciò tuttavia la Dichiarazione di Venezia poiché secondo Israele e gli Stati Uniti, l’OLP, indicata come controparte di Israele nei negoziati, non era che un’organizzazione terroristica. Tel Aviv e Washington si opposero alla Dichiarazione anche perché essa si presentava come una vera e propria formula per la soluzione del conflitto, invece di limitarsi ad esortare semplicemente le parti a risolvere fra loro la questione.

A distanza di più di venti anni, la posizione dell’Unione europea è di fatto ancora la stessa. Nelle sue ormai numerose prese di posizione sul tema, la UE ha continuato ad affermare la necessità di un accordo negoziato che renda giustizia al desiderio di sicurezza e dignità di entrambe le parti. In occasione del vertice di Siviglia del giugno 2002, i vertici della UE hanno ripetuto che: «un accordo può essere raggiunto attraverso i negoziati. L’obiettivo è la fine dell’occupazione e l’instaurazione in tempi brevi di uno Stato palestinese sovrano, democratico, autosufficiente e pacifico, sulla base dei confini del 1967, se necessario attraverso aggiustamenti di minore entità concordati tra le parti. Il risultato finale dovrebbe consentire la convivenza di due Stati all’interno di confini sicuri e riconosciuti dalla comunità internazionale, sulla base di normali relazioni di vicinato. In questo contesto, dovrebbe essere data una soluzione equa alla complessa situazione di Gerusalemme, e una soluzione altrettanto equa, fattibile e concordata al problema dei rifugiati palestinesi». I leader della UE hanno anche auspicato «la convocazione a breve scadenza di una conferenza internazionale (…) per trovare una soluzione politica e stabilire scadenze temporali realistiche e precise». L’Unione europea è da sempre convinta che l’aiuto esterno sia un elemento essenziale per promuovere gli accordi di pace e che la sicurezza non possa essere garantita in assenza di un processo politico.

Ma qualsiasi posizione presenta sempre il rischio di rinvigorire l’antagonismo degli estremisti sui due fronti. Molti israeliani, così come molti americani, ritengono che la posizione dell’Unione europea sia troppo a favore degli arabi. Ma la UE sta in realtà tentando di perseguire una linea di imparzialità. Ne è un esempio il fatto che essa abbia continuato negli anni a condannare «tutti gli attacchi terroristici contro i civili israeliani».

 

Le ultime tendenze politiche

Per tutto il corso del 2001 e 2002 la situazione della regione si è costantemente deteriorata. Per quanto riguarda i palestinesi, i gruppi islamici stanno prevalendo sulle forze moderate e laiche. Molti palestinesi sono diventati progressivamente sempre più critici verso l’Autorità nazionale palestinese guidata da Arafat (ANP). Garantendo servizi sociali e didattici, le organizzazioni islamiche sono infatti riuscite ad erodere in profondità il consenso della leadership laica palestinese, mentre i gruppi più violenti hanno adottato una strategia bieca e distruttiva. Con i continui attentati suicidi perpetrati in Israele, gruppi come la Jihad islamica o Hamas hanno fatto naufragare di volta in volta ogni possibilità residuale che i negoziati di pace potessero riprendere. Arafat, d’altro canto, non è stato abbastanza abile nel giocare le sue carte. Egli è perfettamente consapevole che gli israeliani non toglieranno l’assedio sulla Cisgiordania e Gaza finché gli attacchi suicidi non si fermeranno. E benché continui a condannare ogni nuovo attentato, promettendo un più deciso giro di vite, sta tuttavia diventando estremamente chiaro che egli ha ormai perso la propria influenza sui gruppi più estremisti, persino sulle stesse Brigate dei Martiri di al Aqsa legate all’organizzazione Fatah a lui vicina. È in questo senso che la profezia di Israele secondo cui Arafat sarebbe destinato a diventare «irrilevante» sembra essersi avverata.

Agli occhi dei palestinesi Arafat sta inoltre perdendo credibilità, poiché egli non è riuscito a creare uno Stato per il suo popolo, né ha saputo eliminare la corruzione e sanare gli errori di amministrazione nella ANP. Alcuni palestinesi lo accusano di agevolare il gioco di Israele attraverso la repressione del terrorismo. Repressione, tuttavia, che Israele paradossalmente giudica inefficace. Molti palestinesi si chiedono in che modo potrebbe essere ridimensionato il ruolo di Arafat nella vita politica palestinese. Uno dei possibili scenari potrebbe essere quello in cui Arafat coprirebbe un ruolo puramente «cerimoniale» lasciando che i poteri effettivi siano trasferiti a una nuova generazione di dirigenti.

Sul fronte israeliano, Sharon non ha fatto che distruggere ogni traccia del senso dello Stato e della dignità che i palestinesi cercavano di difendere. Tutte le politiche a cui i palestinesi si oppongono con più vigore, le continue incursioni armate, gli espropri delle terre, gli ostacoli agli spostamenti dei lavoratori, la preclusione da ogni contatto esterno di intere città, e la distruzione di case e di ulivi sono continuati con Sharon fino a raggiungere un’intensità senza precedenti. Egli non è riuscito però a porre fine agli attentati suicidi. In teoria la linea politica decisa da Sharon, che condiziona la ripresa dei negoziati a due settimane di tregua dalle violenze, potrebbe avrebbe senso. Chi vorrebbe che i negoziati si svolgessero in un tale clima di tensione? Sfortunatamente, tuttavia, questa politica ha fornito una sorta di facoltà di veto ai gruppi estremisti che – come ha fatto notare Javier Solana – non esitano a servirsene. Rapporti affidabili indicano che Israele avrebbe deciso di mettere in atto i cosiddetti «omicidi mirati» di militanti palestinesi in momenti cruciali pensati per sortire effetti devastanti. Un esempio di questa strategia si è avuto nell’estate 2002. Nello stesso momento in cui i colloqui coordinati dalla UE fra diverse fazioni palestinesi, inclusa Hamas, si stavano avvicinando al raggiungimento di un accordo generale di cessate il fuoco, Israele ha scelto di uccidere un leader storico di Hamas, Salah Shehada, insieme ad altri dodici palestinesi.1 L’alto ufficiale dei servizi britannici responsabile per l’intermediazione nei colloqui non ha esitato ad esprimere la sua indignazione verso Israele per avere lanciato un attacco proprio in quel momento. Del tutto prevedibilmente, la tregua non è mai stata messa in pratica.

 

Il ruolo della UE. Promuovere l’accordo di pace

Qual è dunque il ruolo dell’Unione europea nella regione? La UE ha negli ultimi anni conquistato un certo grado di influenza politica nel processo di pace medio-orientale, benché gli sforzi compiuti non ricevano ancora la copertura mediatica che meritano. Javier Solana, Chris Patten, e i ministri degli Esteri della UE hanno tenuto molteplici incontri con le parti principali coinvolte, non discostandosi mai dallo stesso messaggio. Tutti i leader europei chiedono che entrambe le parti pongano fine alle violenze, mettano in pratica gli accordi già esistenti e riprendano i colloqui per un accordo finale. Ciononostante, adottare una posizione comune non significa essere in grado di influenzare gli eventi. Vanno prese in considerazione le critiche che chiedono se esistano prove che l’azione della UE abbia spinto gli israeliani o i palestinesi a prendere qualsiasi decisione che essi non avessero già deciso autonomamente. Ma lo stesso interrogativo vale per gli Stati Uniti che contano altrettanti tentativi di spingere le parti ad adottare determinate misure, o ad astenersi dal prenderne altre. La UE sta comunque progredendo nel tentativo di diventare una parte attiva del gioco diplomatico.

Solana ha fatto del processo di pace in Medio Oriente, insieme alla questione dei Balcani, una priorità. Il suo ruolo a Taba e nella redazione del Rapporto Mitchell, che analizzava le ragioni legate all’inizio della seconda Intifada e indicava i passi necessari per riprendere i negoziati di pace, sono stati certamente determinanti per accrescere l’influenza della UE. In precedenza, infatti, gli israeliani si erano mostrati molto cauti, se non apertamente contrari, a qualsiasi coinvolgimento europeo nella sfera diplomatica, poiché giudicavano la UE troppo favorevole alle posizioni palestinesi. E benché non tutti gli israeliani siano convinti sostenitori di Solana, essi sono tuttavia consapevoli della sua influenza, di cui uno dei motivi principale è il valore e la fiducia attribuitagli dagli americani. Oltre ad avere un ruolo importante nella conduzione dei negoziati e a  farsi promotrice di Dichiarazioni fondamentali, la UE ha organizzato attraverso la sua Politica estera e di sicurezza comune alcune azioni congiunte fondamentali.2 Ha predisposto un programma di addestramento intensivo per i poliziotti palestinesi e le forze di sicurezza in sostegno dell’Autorità nazionale palestinese nella lotta al terrorismo. Nel novembre 1996, l’Unione ha nominato Miguel Moratinos inviato speciale per il Processo di pace. Moratinos lavora a stretto contato sia con Solana sia con i ministri degli Esteri dell’Unione e i leader palestinesi e israeliani. Egli ha contribuito a negoziare alcune delle più importanti tregue locali, ed ha intermediato accanto a Solana nelle trattative per il rilascio dei palestinesi imprigionati nella basilica della Natività a Betlemme nell’aprile 2002.

Anche la Commissione sta facendo la propria parte, cercando di salvaguardare il processo di pace e contribuendo a questo proposito con un consistente appoggio finanziario e tecnico a favore dei palestinesi. I vari programmi dell’Unione ammontano a circa 250 milioni di euro all’anno. La UE finanzia, insieme agli Stati membri, più del 50% degli aiuti totali che ricevono i palestinesi. La UE sostiene, a ragione, che tale assistenza contribuisce indubbiamente ad alleviare la grave crisi umanitaria: il 40% dei palestinesi è senza lavoro e l’80% vive con meno di 2 dollari al giorno. L’Unione si pone l’obiettivo di accrescere il sostegno a favore delle forze più moderate, impegnandosi a contrastare la povertà e l’alienazione della popolazione palestinese. La Commissione è inoltre intervenuta direttamente nel processo di riforma dell’Autorità nazionale palestinese, facendo pressione affinché si adottassero standard più equi relativi alla responsabilità finanziaria, e facendo in modo che tutti gli aiuti passassero attraverso un solo conto sotto la supervisione del FMI. La Commissione si è anche incaricata dei preparativi per le elezioni palestinesi che potrebbero tenersi quest’anno. Ma la UE ha ormai un ruolo determinante anche per Israele. L’Europa rappresenta in assoluto il principale mercato per le esportazioni del paese, nel quale è confluito durante il 2001 il 43% delle esportazioni israeliane. La UE ha instaurato un dialogo politico ad alto livello con Israele e promuove programmi specifici di cooperazione in molti campi, dal commercio elettronico ai servizi finanziari al turismo. Israele può inoltre prendere parte a diversi programmi di ricerca scientifica dell’Unione europea, pur non essendo questo un privilegio diffuso tra i paesi non europei. La UE ha negoziato accordi di associazione sia con Israele che con i palestinesi che prevedono condizioni privilegiate per l’accesso al mercato unico. La UE è riuscita, dunque, ad affermarsi con una presenza economica e diplomatica relativamente forte nella regione. Il passo successivo deve essere quello di capitalizzare le fonti ancora latenti di influenza per consolidare gli sforzi diplomatici.

 

La via diplomatica: spingere il «Quartetto» ad avviare i negoziati politici

Nel 2002 la UE è diventata parte del cosiddetto «Quartetto», insieme a Stati Uniti, ONU e Russia, il cui scopo è quello di far riprendere il processo di pace, da troppo tempo ormai insabbiato. Non è un’esagerazione affermare che la UE è il membro più attivo del Quartetto. Benché desiderabile, la ripresa dei negoziati fra Israele e Palestina non è per gli Stati Uniti una priorità. L’amministrazione è divisa tra diverse posizioni; infatti se il Dipartimento di Stato è a favore del processo di pace e più allineato sulle posizioni europee, il Pentagono e la Casa Bianca sostengono che sia necessaria, prima della ripresa dei negoziati, una nuova riforma dell’Autorità nazionale palestinese e che sia stretta la morsa sui gruppi estremisti islamici. Alcuni alti ufficiali statunitensi hanno ammesso off-the-record che l’amministrazione ritiene di poter «parcheggiare» la questione Israele-Palestina mentre prepara, e molto probabilmente, inizia una guerra contro l’Iraq. Ed aggiungono che un accordo di pace fra Israele e la Palestina, è piuttosto una sfida con caratteristiche tipiche da «secondo mandato».

Gli europei attribuiscono invece alla questione maggiore urgenza. Sostengono che la riforma della ANP e i negoziati politici dovrebbero aver luogo contemporaneamente per massimizzare le possibilità di successo di entrambe le parti, cercando di smentire quei sentimenti che attraversano il Medio Oriente e che accusano l’occidente di non essere obiettivo e di adottare un «doppio metro di giudizio». Un impulso deciso alla questione israelo-palestinese sarebbe dunque necessario, soprattutto se gli USA dovessero iniziare una nuova guerra contro l’Iraq. Lo stesso presidente Bush ha affermato nel suo appello alle Nazioni Unite il 12 settembre 2002 che tutte le risoluzioni del Consiglio di Sicurezza devono essere messe in forza. Tuttavia, i sostenitori dei palestinesi si domandano perché l’occidente adotti un atteggiamento severo se gli iracheni non rispettano le risoluzioni, mentre dimostri una certa indulgenza verso le inosservanze israeliane. Non bisogna dimenticare che il Consiglio di Sicurezza ha approvato le risoluzioni relative all’Iraq sotto il capitolo 7 della Carta delle Nazioni Unite, relativo ai casi «di minacce alla pace e atti di aggressione», mentre le risoluzioni relative al conflitto arabo-israeliano rientrano nel capitolo sesto che si riferisce alla «composizione pacifica delle controversie». Ma ciò non significa tuttavia che le risoluzioni 242 e 338 siano meno vincolanti, legalmente o politicamente, rispetto alle risoluzioni 687 o 1441.

L’opinione pubblica europea, sensibile alla condizione dei palestinesi, è sicuramente un altro fattore determinante che contribuisce a giustificare l’urgenza attribuita dagli europei alla questione. Nel discorso di Tony Blair alla Conferenza del Labour nel 2002, il passaggio che ha ricevuto di gran lunga il maggior numero di applausi è stato quello in cui egli ammetteva l’esistenza di un collegamento politico fra l’Iraq e la questione israelo-palestinese: «Certamente quello che sta accadendo oggi in Medio Oriente è terribile e ingiusto. I palestinesi vivono in condizioni sempre più degradate, umiliati e senza speranza; i civili israeliani vengono brutalmente assassinati. Concordo che le risoluzioni dell’ONU dovrebbero essere applicate in questo caso esattamente come all’Iraq… Esiste un’unica risposta. Entro la fine di questo anno dobbiamo avere riavviato i negoziati per la definizione di uno status finale e avere chiarito esplicitamente gli obiettivi: uno Stato di Israele finalmente senza terrorismo, riconosciuto dal mondo arabo, e uno Stato palestinese autosufficiente fondato sui confini del 1967.»3

Nel giugno del 2002 il presidente Bush ha confermato il suo sostegno di principio per uno Stato palestinese.4 Tuttavia, egli ha enfatizzato la necessità di interrompere le violenze e di riformare la ANP prima che i colloqui possano riprendere. In altri termini, Bush è stato molto preciso nell’indicare cosa i palestinesi dovrebbero fare, ma piuttosto vago in relazione a quando e a cosa essi potranno avere come contropartita. Gli europei che hanno ascoltato questo discorso hanno rilevato l’assenza di un elemento essenziale: un percorso dettagliato dei passi successivi che dovranno compiere le due parti. Dalla risoluzione dei conflitti in Irlanda del Nord o in Sri Lanka, come hanno fatto notare gli europei, si è appresa la necessità di mediare tra programmi a lungo termine e azioni a breve e medio termine che servano a metterli in pratica. Durante l’estate del 2002, sia gli esperti che collaborano con Solana sia gli esperti all’opera in varie capitali europee, in particolare Berlino e Copenhagen, hanno lavorato intensamente per definire il percorso attraverso tappe successive prestabilite che dovrebbero indicare come le parti potranno arrivare dalla situazione attuale ai colloqui sullo status finale. Javier Solana ha sottolineato che nel processo di pace medio-orientale tutti sanno cosa corrisponde alla «A» e alla «Z», ovvero la maggior parte degli osservatori esterni concorda sia sul problema esistente che sulle caratteristiche dell’accordo finale, ma nessuno sarebbe capace di dire come passare dalla «A» alla «B».

Nel settembre 2002, i partner del Quartetto hanno accettato il percorso proposto dalla UE, apportando solo alcune modifiche minori. Si tratta essenzialmente di un piano in tre fasi per la costituzione di uno Stato palestinese entro il 2005 con la previsione di forti garanzie per la sicurezza di Israele. Il Quartetto ha stabilito che il passaggio alle fasi successive sarà strettamente collegato al rispetto delle parti di parametri specifici. Israele e Stati Uniti esigevano la garanzia che le riforme promesse della ANP, soprattutto quelle relative al suo apparato di sicurezza, fossero messe in atto. Ed è questa la ragione per cui il Quartetto ha dato vita ad una Task Force internazionale destinata al monitoraggio e alla realizzazione delle riforme civili palestinesi. La Task Force si è riunita tre volte nel corso dell’autunno 2002, dichiarandosi soddisfatta dei progressi compiuti dal processo di riforme palestinesi considerate le difficili situazioni umanitarie e di sicurezza.5

La prima fase del piano del Quartetto, che dovrebbe estendersi fino alla prima metà del 2003, comprende una riforma della sicurezza nella ANP, il ritiro israeliano dalle posizioni del 28 settembre 2000, e il sostegno ad elezioni libere e imparziali in Palestina nel 2003. Nella seconda fase del piano, prevista a partire dalla seconda metà del 2003, gli sforzi dovranno invece essere concentrati sulla creazione di uno Stato palestinese con confini provvisori basati su una nuova Costituzione. Nella fase finale, fra il 2004 e il 2005, il piano prevede negoziati israelo-palestinesi per una soluzione definitiva sullo status della regione da raggiungere entro il 2005.

La UE dovrebbe esercitare in questo momento la massima pressione sugli altri partner, e in particolare sul governo americano, per procedere secondo questo schema. La decisione degli Stati Uniti del dicembre 2002 di assecondare la richiesta israeliana a ritardare nuovamente la pubblicazione del piano, non è stata ben accolta. Soprattutto poiché accompagnata dalla pressione americana per rendere il piano più favorevole agli israeliani. Ma non tutto è perduto. In termini concreti, la UE dovrebbe continuare a cercare di convincere gli americani affinché essi accettino di pubblicare il piano immediatamente dopo le elezioni israeliane. La UE dovrebbe anche richiedere la convocazione di una conferenza internazionale entro l’aprile 2003, a cui dovrebbero partecipare ministri e leader israeliani e palestinesi insieme agli alti rappresentanti del Quartetto. Per quella data un nuovo governo israeliano si sarà insediato, e un eventuale intervento militare in Iraq potrebbe essersi già concluso. E questa potrebbe essere per le dirigenze l’occasione per compiere progressi decisivi nel processo di pace medio-orientale.

Nel dialogo con gli americani, gli europei non dovrebbero temere di rendere esplicito il collegamento politico tra il loro sostegno a un intervento in Iraq e l’impegno degli Stati Uniti ad assumere un ruolo attivo e imparziale nella questione israelo-palestinese. La UE ha giustamente appoggiato la risoluzione 1441 contro l’Iraq sottoscrivendone le scadenze e il severo regime di ispezioni. Nella stessa logica gli Stati Uniti dovrebbero usare tutta la loro influenza per promuovere un accordo negoziato in Medio Oriente come richiesto dalle risoluzioni, ugualmente vincolanti, 242 e 338 del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite.

 

Il ruolo dell’Unione europea: visione unitaria e appoggio per i moderati

I policy-maker europei sono convinti che gli Stati Uniti debbano impegnarsi per assicurare progressi effettivi nella risoluzione della questione israelo-palestinese. Tuttavia, gli Stati membri sono tuttora divisi su come l’Unione dovrebbe procedere e se essa debba perseguire una strategia autonoma dagli americani, vista la riluttanza degli Stati Uniti a convincere le parti a riprendere i negoziati. Nel Consiglio dei ministri si ripetono gli inviti di alcuni degli Stati membri, guidati di solito dalla Francia e appoggiati dalla Spagna, dalla Grecia e da altri paesi, affinché la UE segua la propria linea indipendentemente dalla posizione americana sulla questione. E sono questi paesi che si dichiarano a favore di un approccio più audace e chiaramente «europeo».

Ad esempio l’ex ministro degli Esteri Hubert Védrine ha promosso l’idea di organizzare nella prima metà del 2003 elezioni in Palestina sotto la supervisione internazionale. Védrine auspicava che ciò risultasse in una pressione su Israele tale da far terminare la rioccupazione delle città palestinesi, e contemporaneamente convincesse i palestinesi che il processo per la creazione di un loro Stato poteva effettivamente essere resuscitato. Védrine sostenne allora che in ogni caso ai palestinesi avrebbe dovuto essere data la possibilità di esprimere il loro punto di vista in altro modo, piuttosto che facendosi saltare in aria. Tuttavia, una coalizione di Stati più favorevoli ad Israele (e agli USA), come l’Olanda, la Danimarca, il Regno Unito e la Germania, si dimostrarono contrari ai piani di Védrine. Con la giustificazione che qualsiasi iniziativa diplomatica che non contasse sull’esplicito sostegno degli Stati Uniti sarebbe fallita sul nascere, poiché gli Israeliani l’avrebbero rifiutata, e avrebbero potuto farlo considerando che non sarebbero comunque incorsi in conseguenze di particolare gravità. Questi paesi difesero la stessa posizione quando nel dicembre 2002 gli USA decisero di posticipare nuovamente la pubblicazione del piano elaborato dal Quartetto. Altri paesi, al contrario, reagirono alla decisione americana sostenendo apertamente la necessità di un piano di pace «europeo».

Il desiderio di alcuni paesi europei di emanciparsi dagli Stati Uniti è perfettamente comprensibile. Ma una tale decisione difficilmente potrebbe risultare in un successo diplomatico, poiché dividerebbe la UE al suo interno, alienerebbe gli USA e, di conseguenza, Israele. Finché i governi europei non saranno pronti a riconoscere uno Stato palestinese prima che lo facciano gli USA – e non è questo il caso al momento – l’obiettivo principale della UE sarà l’unità al suo interno, e quello immediatamente successivo sarà di fare pressione insieme agli USA per ottenere un accordo di pace. Allo stesso tempo, la UE e gli Stati membri dovrebbero utilizzare più attivamente tutti gli strumenti a loro disposizione per riavviare il processo di pace. Se gli USA sono infatti essenziali in ogni colloquio di pace, la UE non ha comunque bisogno di aspettare che sia Washington a decidere come intende investire il proprio denaro.

Le politiche della UE possono avere successo solo se i suoi sforzi saranno equilibrati verso due direzioni, tra israeliani e palestinesi, e tra incentivi e misure coercitive. Rispetto a Israele, la UE ha tutte le ragioni di chiedere che gli omicidi mirati di palestinesi e gli insediamenti dei coloni vengano interrotti. Il commissario Patten ha giustamente osservato che usare gli F16 e gli elicotteri armati nei territori occupati non andrà certamente a favore della sicurezza che Israele reclama. La UE dovrebbe dare maggiore sostegno finanziario alle voci, come quella di Shalom Ahsav e di altri gruppi umanitari, che difendono la stessa posizione. Una delle tendenze più preoccupanti degli ultimi due anni è stato il declino del campo liberale e laico in Israele. La UE deve sostenere quei gruppi israeliani che, anche in circostanze difficili, continuano a chiedere un accordo negoziato. Ma l’Unione dovrebbe anche riflettere sulle ragioni per cui sono ancora molti gli israeliani moderati che dimostrano una certa sfiducia verso le iniziative e le motivazioni europee. Anche molti israeliani che riconoscono la necessità di uno Stato palestinese continuano tuttavia ad essere sospettosi verso gli appelli europei e lamentano spesso una certa insensibilità da parte europea verso la loro condizione. Ari Shavit, uno dei più famosi editorialisti del quotidiano Ha’aretz, ha descritto la sensazione di «solitudine strategica» che molti israeliani avvertono.6 Shavit ha aggiunto inoltre che se tra gli israeliani prevale l’impressione che solo gli Stati Uniti prendano sul serio le loro preoccupazioni relative alla sicurezza del paese, è altrettanto vero che in termini politici e culturali essi si sentono molto più vicini all’Europa che agli Stati Uniti.

La UE deve necessariamente migliorare la propria immagine davanti a quella parte degli elettori israeliani che ne condividono le posizioni. L’Unione potrebbe perseguire questo obiettivo chiarendo come intende migliorare la propria relazione con Israele dopo che Tel Aviv avrà raggiunto un accordo con i palestinesi. Israele può già contare su significativi privilegi commerciali. Tuttavia, il margine per approfondire i legami, politici e di altro tipo, è ancora ampio; la cooperazione potrebbe essere estesa ai trasporti o alle politiche di concorrenza, oppure alla lotta al crimine organizzato. L’idea di base che sta dietro a proposte apparentemente «tecniche» è quella di dare agli israeliani la sensazione di poter partecipare al processo di integrazione europeo. La UE può contribuire a rinvigorire quelle sezioni dell’opinione pubblica israeliana favorevole alla pace, ma che si sentono demoralizzate ed emarginate, accrescendo le prospettive di legami più forti con l’Europa. In politica estera, così come nelle relazioni personali, gli incentivi e le gratifiche tendono ad essere più efficaci delle punizioni e della coercizione; e certamente lo sono sul lungo periodo. Ciononostante, la UE dovrebbe anche essere preparata a mostrarsi decisa con Israele. L’obiettivo principale dovrebbe essere quello di chiarire che alcuni aspetti del comportamento israeliano avranno dei costi. Ad esempio, se gli europei ritengono veramente che gli insediamenti israeliani nei territori occupati, in Cisgiordania, Gaza, nelle alture del Golan e a Gerusalemme Est, siano illegali e costituiscano un ostacolo alla pace, dovrebbero comportarsi in maniera coerente con le loro convinzioni. E ciò significa che le esportazioni provenienti da questi luoghi non dovrebbero avere l’etichetta made in Israel e non dovrebbero poter accedere al mercato europeo alle condizioni preferenziali accordate a Israele nel quadro dell’accordo di associazione. Chris Patten merita pieno sostegno nel suo tentativo di chiarire questo aspetto a Israele. Si tratta senza dubbio di un volume commerciale limitato. Ma poiché gli insediamenti sono un tasto delicato, la UE deve assumere una posizione ferma. Dovrebbe inoltre mostrarsi risoluta nell’affermare che la continua chiusura delle città palestinesi e le limitazioni delle esportazioni palestinesi verso la UE sono inaccettabili. Lo stesso vale per il rifiuto di Israele di trasferire le tasse sulle importazioni e i ricavi delle imposte che raccoglie per conto della ANP. Comportamenti di questo tipo non fanno che acuire la sensazione di alienazione fra i palestinesi e accrescono di conseguenza il consenso dei gruppi violenti. Non è un caso che alcuni finanziatori internazionali, inclusi gli europei, stiano iniziando a lamentarsi di sponsorizzare di fatto l’occupazione di Israele.7

La UE dovrebbe adottare la stessa combinazione di incentivi e misure coercitive con i palestinesi. Continuando ad esempio a sostenere leader palestinesi, come Hanan Ashrawi e Sari Nuseibeh, che hanno condannato gli attentati suicidi come moralmente inaccettabili e controproducenti. Allo stesso modo, gli europei dovrebbero offrire finanziamenti per la costruzione delle strade – ad esempio per collegare Gerusalemme Est con la Cisgiordania. Negli ultimi anni Israele ha costruito numerose «strade dei coloni» nei territori occupati che i palestinesi non hanno il diritto di utilizzare. Queste strade rendono difficile per i palestinesi raggiungere altri villaggi o accedere alle loro fattorie. Tuttavia, l’aiuto finanziario europeo ai palestinesi troppo spesso è stato elargito senza alcuna condizione. Può essere vero che le condizioni richieste da Bush nel giugno 2002 siano state eccessive. Ma le riforme palestinesi sono difficili da mettere in pratica nel contesto dell’attuale occupazione. In particolare, resta difficile per gli Stati Uniti e Israele insistere su una cessazione totale di tutti gli attacchi dopo che Israele ha distrutto larga parte dell’apparato di sicurezza palestinese.

Ciononostante, ulteriori riforme della ANP sono indispensabili. Una ANP corrotta e autoritaria non è ciò che i palestinesi vogliono o meritano, né può essere un partner credibile per la pace con Israele. Pertanto la UE non dovrebbe esitare a fare leva sul consistente aiuto finanziario che offre alla ANP per chiedere che siano fatti progressi effettivi verso migliori standard democratici. Ad oggi, Yasser Arafat ha esercitato un controllo pericoloso sulla ANP. È indubbiamente giusta la decisione della UE di collaborare con il nuovo ministro delle Finanze, Salaam Fayad, grazie al quale la situazione finanziaria della ANP gode di maggiore trasparenza. Inoltre, la UE potrebbe rafforzare i poteri del Consiglio legislativo palestinese nominandolo unico organo con competenze esclusive a distribuire i finanziamenti europei. La UE dovrebbe anche accrescere il sostegno a quei palestinesi che si battono per una Costituzione formale.

Una parte troppo ampia dei fondi comunitari viene destinata ai programmi di supporto generale al bilancio della ANP. Per questo la UE dovrebbe orientare con maggiore flessibilità la propria assistenza finanziaria. E ciò significa privilegiare i programmi di formazione, per migliorare gli standard delle forze di sicurezza palestinesi, di cui beneficerebbero sia gli israeliani che i palestinesi. La UE dovrebbe anche destinare maggiori risorse a favore dei legali che si occupano in particolare della difesa dei diritti umani, e potrebbe fornire un aiuto più consistente per promuovere i progetti culturali e i mezzi di comunicazione indipendenti. La UE finanzia già molte ONG, ma le risorse al momento utilizzate sono relativamente limitate. Tra il 1993 e il 1999, sono stati spesi più di 250 milioni di euro in diversi progetti di infrastrutture (raccolta dei rifiuti, fognature, costruzione dell’aeroporto di Gaza e cosi via) mentre solo 7,3 milioni di euro sono stati investiti in progetti a favore della società civile e del consolidamento della democrazia.8

Gli sforzi per promuovere un accordo di pace tra gli israeliani e i palestinesi sono ancora ostacolati da numerose difficoltà. Gli USA hanno più volte avuto modo di rendersi conto che l’intermediazione fra le parti spesso non ripaga degli sforzi compiuti. E tuttavia, si tratta di un compito urgente visto il crescendo di tensioni che attraversano la regione e la prospettiva di un conflitto militare con l’Iraq.

Se le ragioni per essere pessimisti riguardo alla prospettiva di un accordo di pace sono molte, esiste un margine – per quanto limitato – che lascia spazio a un certo ottimismo. Dopo due anni di Intifada che non ha affatto avvicinato la prospettiva di uno Stato palestinese, i palestinesi potrebbero essere pronti a fare le concessioni necessarie. E lo stesso potrebbe valere per gli israeliani. Due anni di «pugno di ferro» di Sharon non hanno dato agli israeliani la sicurezza a cui aspirano. Sul piano internazionale, lo scenario successivo a un’eventuale guerra con l’Iraq potrebbe creare un’opportunità unica per raggiungere un accordo di pace definitivo. Se i negoziati riprendessero, la UE dovrebbe tenersi pronta a svolgere un ruolo di rilievo. Nel frattempo la UE può fare molto. Lo scopo di tutte le misure a cui è stato fatto riferimento è quello di sostenere la strategia diplomatica della UE. Sia gli israeliani che i palestinesi avrebbero indubbiamente da obiettare su alcuni di questi punti. Ma la UE deve avere il coraggio delle proprie convinzioni, poiché i principi che dettano la sua posizione verso la questione medio-orientale sono inequivocabilmente giusti, e la prossima sfida è di metterli in pratica.

 

 

Bibliografia

1 Cfr. «The Guardian», 3 settembre 2002. Si veda anche «International Herald Tribune», 24 luglio 2002.

2 Le azioni congiunte sono decisioni legalmente vincolanti con un obiettivo di politica estera concreto e conseguenze operative, finanziate da fondi comunitari e gestite dalla Commissione europea.

3 Cfr. discorso di Tony Blair, Conferenza del partito laburista, Blackpool, 1 ottobre 2002.

4 Cfr. discorso del presidente Bush, Rose Garden, 24 giugno 2002.

5 Cfr. Dichiarazione della Task Force sulle riforme palestinesi, 15 novembre 2002.

6 Ari Shavit ha descritto questa posizione nel corso di una conferenza organizzata dalla Fondazione Bertelsmann a Bruxelles nel settembre 2002.

7 Cfr. «Financial Times», 12 dicembre 2002.

8 www.delbg.cec.eu.int/en/partnership/projectlist.html .