Un'agenda comune per laici e credenti

Di Amos Luzzato Lunedì 01 Aprile 2002 02:00 Stampa

Quando si invitano i rappresentanti di diverse fedi religiose ad incontrarsi con i portatori di un pensiero laico, si intende evidentemente trovare obiettivi di lavoro comuni e strumenti per realizzarli. Nel mondo presente, l’obiettivo sembrerebbe sostanzialmente identificarsi con il recupero – piuttosto che con la salvaguardia – della pace, perché temo che mai, neppure nei peggiori momenti della guerra fredda e della divisione del mondo in due blocchi contrapposti, ci siamo trovati a questi livelli di negazione della pace, a questa diffusione degli armamenti, al rischio di una conflittualità generalizzata e irrefrenabile.

 

Quando si invitano i rappresentanti di diverse fedi religiose ad incontrarsi con i portatori di un pensiero laico, si intende evidentemente trovare obiettivi di lavoro comuni e strumenti per realizzarli. Nel mondo presente, l’obiettivo sembrerebbe sostanzialmente identificarsi con il recupero – piuttosto che con la salvaguardia – della pace, perché temo che mai, neppure nei peggiori momenti della guerra fredda e della divisione del mondo in due blocchi contrapposti, ci siamo trovati a questi livelli di negazione della pace, a questa diffusione degli armamenti, al rischio di una conflittualità generalizzata e irrefrenabile.

Il 24 gennaio si è tenuto ad Assisi un solenne e grandioso raduno di tutte le principali organizzazioni delle religioni, alla presenza di Giovanni Paolo II. Averle portate assieme in questa sede è stato indubbiamente un grande successo. Personalmente, sono stato però molto meno entusiasta delle dichiarazioni finali di impegno, espresse in numerose lingue e con una certa solennità al termine della manifestazione. Se il Papa, nelle sue conclusioni, si è pronunciato esplicitamente contro il terrorismo e la violenza, altrettanto non si può dire per tutti gli altri; accanto a coloro che hanno condannato il terrorismo, altri non lo hanno neppure menzionato; e alcuni, pur invocando correttamente la giustizia per i paesi poveri ed oppressi, non hanno tuttavia precisato i contenuti né gli strumenti politici (e forse anche bellici?) per raggiungere lo scopo. Parlando di religioni non possiamo trattarle in astratto, enunciandone soltanto i principi ideali, i testi sacri o le forme di ritualità e di preghiera. Quando parliamo di religioni, ci riferiamo in realtà a tre cose: 1) un complesso di idee e di credenze che derivano da una Rivelazione e che riguardano la posizione dell’uomo nel Creato, a fronte di Dio e degli altri uomini, comunicate mediante tradizioni che passano di generazione in generazione e che sono espresse nel linguaggio comprensibile a ciascuna generazione; 2) determinate strutture organizzative, più o meno centralizzate o gerarchizzate, che possono avere influenza e/o responsabilità dirette di vari gradi all’interno delle società o degli Stati; 3) singole persone o gruppi di persone che, in qualche modo, si riconoscono nelle prime e/o nelle seconde in maniera totale o parziale, spesso con dubbi e con angosce, affrontando momenti di crisi e di sconforto ma senza rinunciare a questa loro «appartenenza».

Se prescindiamo da queste tre caratteristiche (quanto piacerebbe anche a me parlare solo delle idee!), descriviamo entità che possono anche apparire molto belle, ma che sono astratte e forse del tutto inesistenti. E tuttavia mi pare che sia comune a tutti gli uomini di fede, di qualsiasi fede, ritenere che la causa ultima degli eventi terreni sia collocata all’esterno degli eventi stessi; per alcuni con uno spietato e assoluto determinismo, per altri invece lasciando all’uomo la possibilità di scelta e dunque di assunzione delle proprie responsabilità. È propria dell’Ebraismo l’idea che le azioni corrette degli uomini possano mitigare o annullare la severità dei decreti divini (li-dchot et roa’ ha-gezerah). Questo piano di analisi e di invito ad agire va coltivato, perché, mentre sui principi assoluti è ben difficile e forse del tutto inutile trovare compromessi, sul terreno dell’azione ciò dovrebbe essere possibile.

I laici da parte loro tendono a rivolgere la loro attenzione non al solo presente, ma a un arco di tempo raggiungibile con gli strumenti della mente. Ma anche loro, in linea di massima, cercano risultati tangibili ed hanno per questo molta attenzione per le strutture della società nella quale si riconoscono. La differenza fra i laici e gli uomini di fede consisterebbe nel fatto che i laici stessi deriverebbero le loro idee e i loro principi dalla mente umana e dalle sue facoltà; e sarebbe proprio questo a dare il loro valore a queste idee e a questi principi. Invece i religiosi farebbero l’inverso, dato che per loro i valori e i principi non derivano dagli uomini ma in ultima analisi da Dio. Ma anche questa distinzione non è vera in assoluto. I secoli delle ideologie ci hanno insegnato che si può morire e uccidere per la patria, per «la causa», per «l’ideale». E, nel contempo, l’azione di uomini di fede che hanno scelto la via missionaria ha anteposto l’aiuto agli esseri umani a qualsiasi altro principio.

A me pare che vi sia qualche altra cosa che caratterizza il laico autentico. Ed è il suo rifiuto di considerarsi depositario della verità, la sua disponibilità a mettersi in discussione, a dialogare, a misurare la propria identità anche attingendo alle categorie di identità di un altro. Ma chi dialoga sono sempre e comunque le persone, le persone concrete che abbiamo descritto e dunque anche gli «uomini di fede». Ne deriva che anche gli uomini di fede possono essere laici. Se così è, si pone inevitabilmente il quesito: esiste già o può esistere una fascia di sentire comune e quindi una possibilità di agire comune fra uomini di fede e laici? E, in caso affermativo, quale? Se essa esiste, è nostro compito fare in modo che questa «fascia» possa allargarsi, anche perché gli eventi del presente parrebbero indicare esattamente la tendenza opposta, quella di divisione e di contrapposizione. Giungo pertanto ad alcune proposte concrete, che potrebbero configurare una «agenda» vera e propria. Occorre porre immediatamente tre obiettivi sui quali arruolare l’opinione pubblica e impegnare i governi e le organizzazioni europee nelle quali siamo rappresentati. A me pare che questi siano: 1) avviare grandi programmi alimentari per il mondo degli affamati e degli assetati; 2) promuovere una campagna educativa, volta non a una omologazione delle culture o all’imposizione di un modello culturale dei popoli ricchi ma ad aiutare tutti a disporre degli strumenti per autogovernarsi ed autopromuoversi; 3) avviare una grande campagna sanitaria per identificare e sradicare le malattie endemiche ed epidemiche che minano le società. La parola d’ordine dovrebbe essere di giungere a robusti investimenti finanziari in questa direzione, riducendo nel contempo i corrispondenti oneri di spesa per gli armamenti. Non mi illudo che tale programma possa avere da subito risultati tangibili. Ma già lanciarlo sarebbe un’indicazione per porre una chiara scala di valori al centro di quello che abbiamo pensato come l’obiettivo di sentire e di agire comune.