Di nessuna importanza

Di Diego De Silva Lunedì 01 Aprile 2002 02:00 Stampa

La scena è un’opera pubblica salernitana iniziata da poco. Una delle prime che hanno avviato il rinnovamento urbano. Il tabellone con il costo dell’opera e le referenze di chi risponde della sua esecuzione, fa da quinta. Protagonisti, due ragazzi. Una coppia. Sedici-diciotto anni è un’approssimazione valida. Stanno discutendo animatamente, ma sottovoce. Dal modo in cui si rannicchiano l’uno contro l’altro quando le recriminazioni s’infittiscono, si coglie immediatamente il loro senso della dignità. Non capita facilmente di vedere gente che litiga con stile, specie per strada.

 

La scena è un’opera pubblica salernitana iniziata da poco. Una delle prime che hanno avviato il rinnovamento urbano. Il tabellone con il costo dell’opera e le referenze di chi risponde della sua esecuzione, fa da quinta. Protagonisti, due ragazzi. Una coppia. Sedici-diciotto anni è un’approssimazione valida. Stanno discutendo animatamente, ma sottovoce. Dal modo in cui si rannicchiano l’uno contro l’altro quando le recriminazioni s’infittiscono, si coglie immediatamente il loro senso della dignità. Non capita facilmente di vedere gente che litiga con stile, specie per strada.

Soprattutto la ragazza si accalora. Lo incalza, si tende su di lui con una determinazione così precisa nella progressione dei gesti da mostrare inequivocabilmente una volontà caparbia di tirargli fuori la verità.

Lui resiste come può. È evidente che ha torto. Muove piccoli passi all’indietro, cerca di opporle dello spazio, e lei, che riconosce in quella sottrazione la ricerca di una scusa, aumenta la pressione. Lo assedia, lo sfianca, lo lavora alla faccia, agli occhi, rivendica con tutta la purezza dei suoi sentimenti delusi il diritto a una risposta leale, intuendo istintivamente che soltanto tenendo il conflitto nella distanza ravvicinata riuscirà a sapere.

Il ragazzo è nell’angolo. Finalmente parla. Dice una semplice parola, in punta di labbra: sì.

La ragazza chiude gli occhi, poi accartoccia le labbra in una smorfia di dolore. Ingoia. Lo fa fisicamente. Manda giù il boccone tutto intero, per quanto enorme lo senta, per quanto male le faccia. Sa che le tocca. Ha preferito così.

È incredibile quanta responsabilità abiti in questa donna giovanissima. Quanta sapienza istintiva delle proprie emozioni. Controlla il dolore, lo sopporta e lo veste come ne avesse esperienza.

Il ragazzo non parla. Rimane alle corde, dove l’ha lasciato lei. Tiene la testa bassa e le braccia inutili lungo il corpo. Ha gli occhiali scuri.

La ragazza ha un sussulto. Alza insieme le braccia, stringe i pugni, glieli scaraventa contro, e finalmente urla.

«Bugiardo», dice. Con una bellissima voce ferita.

Lui si volta. Le offre la schiena e si lascia colpire. Due volte quei poveri pugni gli cadono addosso, poi la ragazza si copre la faccia con le mani e piange soffocando i singhiozzi.

Fine della scena.

Io mi trovavo a passare di là.

La ragazza mi ha visto, mentre si asciugava le lacrime. Con un’espressione teneramente attonita, un minuscolo movimento di qualche angolo del viso che non saprò mai descrivere, si è come scusata. E io, con uno stesso moto che non saprei mai ripetere, le ho come detto che non importava.

Poi ho guardato lui. Si era cinto in corpo con le braccia. Camminava un po’. Si mordeva le labbra. Sembrava addolorato.

Questo succedeva più di dieci anni fa.

Nel frattempo quell’opera l’hanno finita. E ha conosciuto vicende ben più gravi di questa. È stata materia processuale di un’inchiesta giudiziaria vischiosa e lentissima, una Mani Pulite di provincia che perfino nel reato ci ha assimilato alla metropoli. Chissà pure se intanto s’è conclusa. Qualche imputato nel frattempo è morto. Lì dove quella volta i due ragazzi si lasciavano, adesso c’è un parcheggio a pagamento, una scultura che non è che c’entri molto, una fontana a gradini di cemento che è già scenario abituale di certi servizi fotografici matrimoniali.

Da quell’opera in poi si è avviata una riorganizzazione urbana che per la prima volta ha riguardato la città intera, anche le periferie storicamente abbandonate a loro stesse. Siamo tutti contenti, in fondo. Anche i detrattori più accaniti, devono ammettere che la città è stata rifatta. Quante volte, da persone che vivono altrove e vengono a trovarci, sentiamo dire che quasi non la riconoscono, che è così bella, così nuova, così ben tenuta. E noi ci scopriamo a dire che è vero, e ci sentiamo orgogliosi, come se fosse un po’ anche merito nostro.

Sono passati dieci anni da allora. Per me, quell’opera pubblica significa ancora quei due ragazzi sotto il cartellone dell’appalto.

Una scena qualsiasi, di nessuna importanza, davanti a quel cemento, a quella ruggine, a quel monumento all’orgoglio della piccola città che voleva diventare grande, a quella fortuna in allestimento che, come le promesse di un ministro, a tutti si offriva e a tutti garantiva un’occasione.

Ancora oggi, quando mi fermo con la macchina in quel parcheggio e poi m’affretto a comprare il gratta e sosta dal giornalaio, mi chiedo dov’è quella ragazza e come sta, se anche lei oggi, quando passa da quelle parti, magari con un bambino per mano, si ricorda di quella volta, e avverte come un piccolo tonfo nella pancia e poi, come non avesse sentito nulla, riprende il suo solito percorso fino a casa.