Tre tesi sul riformismo del nuovo secolo

Di Giulio Sapelli Giovedì 01 Novembre 2001 02:00 Stampa

Se rileggessimo lo splendido saggio che Antonio Labriola scrisse alla fine dell’Ottocento su quel secolo che moriva, vi troveremmo tutto il contrario di quello che scorre sotto i nostri occhi ora che il Novecento ci ha appena abbandonato. Se il Novecento appariva all’unico marxista italiano di quel tempo l’inveramento del principio di solidarietà inscritto nel farsi della storia, oggi il secolo che si chiude è l’apparire dirompente di tutto l’inverso rispetto a quanto rilevava Labriola. Vediamo di comprendere il perché. Senza questa comprensione nessuna rifondazione di una politica riformistica su un piano mondiale appare possibile. Il secolo che viene è quello in cui si esaurisce il principio di nazione saldato con quello di cittadinanza, e quindi saldato anche con le politiche di inclusione sociale, civile e politica che questo principio definivano.

 

Sul nuovo capitalismo

Se rileggessimo lo splendido saggio che Antonio Labriola scrisse alla fine dell’Ottocento su quel secolo che moriva, vi troveremmo tutto il contrario di quello che scorre sotto i nostri occhi ora che il Novecento ci ha appena abbandonato. Se il Novecento appariva all’unico marxista italiano di quel tempo l’inveramento del principio di solidarietà inscritto nel farsi della storia, oggi il secolo che si chiude è l’apparire dirompente di tutto l’inverso rispetto a quanto rilevava Labriola. Vediamo di comprendere il perché. Senza questa comprensione nessuna rifondazione di una politica riformistica su un piano mondiale appare possibile. Il secolo che viene è quello in cui si esaurisce il principio di nazione saldato con quello di cittadinanza, e quindi saldato anche con le politiche di inclusione sociale, civile e politica che questo principio definivano. Il secolo che viene è la fine del principio di associazione economicamente fondato perché, al capitalismo della grande scala e dell’oligopolio fuso con la proliferante e piramidale statualizzazione si sostituisce un capitalismo molecolare della media e piccola scala. Lo Stato è ora reticolare e spongiforme. Esso, come l’impresa, volta a volta ridefinisce i suoi confini al di là del principio della nazionalità e abbandona le vesti dell’imprenditorialità proprietaria per assumerne di nuove: quelle della regolazione e del sostegno differenziato e variabile nel tempo e nello spazio della società civile. Oppure quelle del ritrarsi, lasciando alla società civile stessa il compito dell’autoregolazione e dell’autosostentamento. Ed è su questo solco che si dividerà il secolo appena cominciato da un lato quelli che pensano che il ruolo dello Stato sia ancora il presentarsi in veste di regolatore e di supplente; dall’altro quelli in affinità con il nuovo che avanza e che dispiega le forze produttive, quelli che lavorano istituzionalmente (ecco il nuovo ruolo dello Stato reticolare!) e culturalmente per l’autosostegno e l’autoregolazione. Tutto ciò passa sotto il nome di globalizzazione, e anche sotto quello di nuova economia quando a tali fenomeni si accompagnano le nuove tecnologie dell’informazione e dell’interconnessione spazio-temporale che innescano – grazie alle scienze della vita che si fondono oggi con quelle dei materiali – un nuovo lungo ciclo kondratieff: uno dei più lunghi mai apparsi nella storia dell’umanità.

Attenzione, tuttavia! Il nucleo scientifico di tali tecnologie è lungo e pervasivo, ma quello applicativo e imprenditivo è sempre incerto e breve, soggetto a cicli di mortalità altissimi e devastanti (si pensi a ciò che è successo nell’industria informatica che anticipava il terremoto che stava per giungere). Esso per affermarsi ha quindi bisogno di ricorrere continuamente a mercati dei capitali sempre meno imperfetti ma non per questo meno rischiosi, caratterizzati da incertezza continua, varianze amplissime dei cicli (di qui il senso comune della «flessibilità») e dalla continua distruzione creatrice che si fonda sull’instabilità strutturale di ogni forma di produzione e di riproduzione del sociale. Di qui il divario che si sta creando nel mondo tra vecchia e nuova economia, tra vecchia e nuova società. Divario, a differenza di quanto comunemente si pensa, che è alla fonte stessa dei legami tra questi mondi: anziché la loro somiglianza, è la loro diversità a fondare l’integrazione, non viceversa. È importante sottolineare questo processo per le conseguenze sociali che esso reca: il cambiamento delle forze produttive e riproduttive avviene ora nelle nuove forme tecnologiche del capitalismo molecolare. Esse si fondano su una società individualizzante anziché, come nel Novecento, aggregante. E questo in sede di discussione politica va ben tenuto a mente.

Il secolo appena cominciato è quello della spinta della soggettività dei mercati molecolari e non più aggregati e dipendenti dalle sole grandi forze oligopolistiche. È questa spinta che induce anche la classe politica, oltreché la classe imprenditoriale, a ridefinire continuamente i processi di valorizzazione del capitale su basi multiple. Ossia fondate tanto sulla valorizzazione produttiva degli input materiali quanto su quella della logica delle aspettative nella circolazione virtuale del mercato dei capitali. Di qui la tendenza irreversibile alla dimidiata globalizzazione: dimidiata, infatti, perché mondiale e quasi perfetta, da un lato, è quella finanziaria, mentre continentale e imperfetta in ampie parti dell’Eurasia, dall’altro lato, è quella dei beni e dei servizi. Il secolo che viene è quindi, da un lato, il secolo del capitalismo dell’alleanza sul fronte delle grandi concentrazioni di capitali per la fondazione e la gestione dei nuovi paradigmi tecnologici e per i cicli lunghi delle forze produttive. Il secolo che viene è, d’altro canto, contestualmente e senza contraddizioni con quanto or ora affermato, il secolo del capitalismo molecolare e delle aspettative crescenti verso un mondo a bassa intensità di regolazione e ad alta pervasività dell’autoregolazione e dell’autosostentamento. È questa spinta fondamentalmente che oggi determina nella realtà storica lo sviluppo delle forze produttive e riproduttive.

Sul fallimento storico dei vecchi riformismi

I riformismi che si sono affermati nell’Ottocento e nel Novecento hanno avuto successo e legittimazione quando hanno interpretato i processi di sviluppo delle forze produttive e hanno conferito loro una base consensuale di sostegno morale, oltreché strutturale, a partire dai cicli vitali della riproduzione capitalistica. Il Novecento non è affatto stato soltanto il secolo breve delle rivoluzioni comuniste e delle dittature staliniste e fasciste, ma anche, e ben più pervasivamente e significativamente, il secolo lungo dei riformismi. Religiosi, laburisti, socialdemocratici e finanche comunisti (laddove hanno potuto agire al riparo delle armate capitalistiche), i riformismi hanno creato istituzioni e mentalità collettive, hanno costituito la base di una statualità nazionale che pareva irreversibile e hanno plasmato politiche inclusive dei ceti sociali sulla base dell’estensione di diritti di cittadinanza e di sistemi di Welfare: sistemi diversi, ma tutti confluenti in pochi ed essenziali princìpi. Il nerbo di questi riformismi è stato il lento e poi via via più rapido prosciugarsi ed estinguersi della loro stessa tradizione di autorganizzazione e di autoreferenzialità mutualistica. Essi si sono sempre più serviti, infatti, dello Stato come agenzia redistributiva dell’imposta democraticamente oppure coattivamente estratta. Oppure hanno utilizzato lo Stato come dispensatore delle fonti del consenso politico nel caso dei partiti riformisti che si parlamentarizzavano e parlamentarizzandosi si statualizzavano, perdendo progressivamente le loro caratteristiche di macchine organizzative culturalmente dotate di sistemi autonomi di senso per i seguaci elettorali e non solo elettorali.

Del resto, questo riferirsi allo Stato come elemento costitutivo, oppure come elemento  supplettivo, ha funzionato e sempre funzionerà da elemento differenziatore nell’ambito di quella potente fronda dell’albero dei riformismi rappresentata dai sindacalismi mondiali (oltreché nell’ambito, decisivo, della distinzione tra sindacato come associazione e sindacato come rappresentante della classe operaia ideologicamente intesa come classe generale). Questo processo inizia mondialmente in forme molto diversificate, ma giunge alla sua acme nel secondo dopoguerra nell’ambito delle nazioni e degli stati euroasiatici. Mentre, invece, il nucleo solidaristico mutualistico autoregolato resiste nel solo Nord America e in ampi segmenti del subcontinente sudamericano. Qui i princìpi comunitari spesso si riattualizzano e convivono con forme individualistiche e mercantili sotto la forma delle imprese assicurative e concessionarie di servizi sociali gestiti in forma privatistica. In Eurasia essi sono stati, invece e in misura sempre più consistente, affidati allo Stato e quindi alle classi politiche che lo governano sino a balcanizzarlo e a trasformarlo da istituzione in organo di appropriazione del consenso per clan, o per singoli capi che si spartiscono il bottino che dalla redistribuzione dell’imposta sotto forma clientelare a essi deriva.

In effetti i riformismi del Novecento non sono stati soltanto il rifiutare l’ipotesi rivoluzionaria dell’abbattimento del capitalismo, mai realmente concreta se non nel senso di quelle rivoluzioni preventive che dopo l’Ottobre russo hanno anch’esse insanguinato il secolo. Essi hanno, piuttosto, conferito una morale di sostegno al mercato, che con tanta fatica andava dispiegandosi, e al suo principio costitutivo: lo scambio. Questa morale di sostegno è stata la mutualità solidale. Associativa e comunitaria prima, nella fase gloriosa e fondativa dei riformismi mondiali; statualistica e redistributiva tramite l’imposta nella fase (gonfia e proterva come un enfisema) dell’ultimo trentennio politicamente piramidale di questo secolo. E questo mentre tutto, al di là della politica, diveniva reticolare e instabile.

Qui risiede la ragione dei fallimenti dei riformismi polifonici del Novecento. Essi non riescono più a conferire una morale di sostegno al nuovo capitalismo molecolare e individualizzante; né a fornire una rete istituzionale che favorisca, anziché imbrigliarlo, il dispiegarsi delle nuove forze produttive e riproduttive. Va detto che neanche fuori dell’Eurasia, dove i riformismi mutualistici e solidali sono rimasti incardinati nella società civile, essi riescono più a corrispondere al dilagare dei mercati sempre meno imperfetti e alla logica delle aspettative crescenti. Le cause sono opposte a quelle del fallimento dei riformismi piramidali statualistici, derivano cioè dal fatto che la crescita economica impetuosa di quei sistemi richiede sempre nuovi livelli di ampliamento dell’inclusione sociale, cognitiva e morale, a cui la società civile da sola non riesce a far fronte. Di qui la necessità di ricorrere alla redistribuzione dell’imposta estratta in guisa assai più selettiva di quanto l’esperienza europea ci consegna. Tale selettività agirà in base ai livelli di reddito, di consumo e di opportunità definite dal capitale sociale di cui dispongono i soggetti che di quelle forme redistributive divengono via via i destinatari. L’importante sarà in ogni caso non cadere nella vertigine piramidal-statualistica e realizzare una giusta miscela tra le reti di inclusione e di sostegno universalistiche e i neo comunitarismi associativi e personali. Essi si segmentano e si costruiscono sulla base della stratificazione sociale e delle aspettative che si determinano storicamente in base ai cicli di vita personali e famigliari.

Tutto ciò riguarda anche quel colossale processo di incivilimento che è stato la costola sociale più importante del riformismo dell’Ottocento e del Novecento: il sindacato del lavoro dipendente. Tramite esso si è inverata la cittadinanza del lavoro con un salto di qualità nel vivere associato che si trasfonde nel passaggio dal liberalismo alla democrazia. Dai cartisti inglesi del primo Ottocento agli operai sudcoreani di questa fine secolo si dipana una lunga catena di dignità associativa e di cittadinanza sociale inclusiva e universalistica che il movimento sindacale mondiale ha rappresentato con una forza civilizzatrice dirompente, quale che fosse la fronda del grande albero dei riformismi sotto la quale esso si posava storicamente nei singoli paesi. E altrettanto fondamentale è stato, nel Novecento, il ruolo dei partiti che chiamerò pro-labour, per intendere  una famiglia di rappresentanza politica molto più vasta di quella socialdemocratica, che include anche le correnti sociali delle chiese cristiane e dei movimenti religiosi orientali che hanno grandemente contribuito alla democrazia politica fondata sull’estensione dei diritti sociali e non solo delle regole della democrazia rappresentativa fondata sul principio di maggioranza. Anche il fiume della cittadinanza del lavoro, tuttavia, si sta ora disgregando. Qui l’Eurasia, però, si divide. In Asia la disgregazione non è ancora iniziata, perché il capitalismo associativo è dilagante con il suo aggregare, invece, socialità e lavoro nella valorizzazione del capitale. In Europa la questione è del tutto differente, come nelle due Americhe, anche se in forme diverse (per quanto non divaricanti). L’ideologia classista è ora, qui, il più potente strumento di disgregazione. Unitamente, è ovvio, all’offensiva delle forze del capitalismo molecolare nascente, che sono protese verso una definizione della nuova economia priva di cittadinanza del lavoro e di sistemi di sostegno selettivi o, a seconda dei casi, universalistici, proprio quelli che invece debbono volere tutti i riformismi per definirsi tali. Saldandosi con la rigidità statualistica, quell’ideologia classista è il più formidabile ostacolo alla riformulazione della cittadinanza del lavoro e non può più connotare l’appartenenza, oggi, alla grande famiglia dei riformismi mondiali. La cittadinanza del lavoro, infatti, può inverarsi solo per via associativa e quindi organizzativamente congruente con le grandi trasformazioni in corso, così come sta accadendo in larga parte del sindacalismo mondiale, che si va rinnovando in forme e misure assai più adeguate al nuovo capitalismo di quanto provincialmente spesso si pensi.

La via del rinnovamento è quella della cittadinanza, dell’inclusione universalistica e della istituzionalizzazione, tramite la contrattazione e la negoziazione, dello stesso capitalismo molecolare.  Esso, ci insegna l’esperienza sindacale oggi prevalente su scala mondiale, non si esorcizza ma si cerca di permeare di diritti universalistici di sostegno dell’azione sociale delle persone, dei quasigruppi e dei gruppi, nell’instabilità medesima della prestazione lavorativa, che deve essere selettivamente contrattualizzata. L’orizzonte dei sindacalismi mondiali riformisti sono insomma le nuove forme di tutela contrattuale ed extracontrattuale protese alla creazione di redditi di cittadinanza e di forme universalistiche di redistribuzione statualistiche, laddove non giunge la mano della comunità sociale e privatistica nell’accordo tra le parti sociali. I riformismi del futuro avranno sempre, tra le loro basi rappresentative, i sindacalismi delle società e delle economie mondializzate.

Sui riformismi dei doveri

L’economia si è mondializzata: ora a farlo sono le società. Il primo compito dei riformismi del nuovo secolo è, dunque, quello di operare per la mondializzazione delle società nel superamento degli Stati nazionali. Perché è necessario che ciò avvenga? Perché gli Stati sono divenuti ormai un ostacolo alla ridefinizione di un sistema di diritti di cittadinanza espansivo e non escludente, inclusivo e non distruttore di capitali sociali di sostegno necessari per affrontare le sfide del nuovo capitalismo: capitali di sostegno che debbono avere nella conoscenza e nell’allargamento dei diritti di accesso alla conoscenza e nella capacità di apprendimento continuo il loro nerbo fondamentale. Il riformismo del nuovo  secolo è quello del cosmopolitismo delle fedi e delle etnie, così come del sostegno delle relazioni sociali continuamente rinnovate. Il capitalismo molecolare deve essere per i nuovi riformismi il capitalismo dell’alleanza e della comunità non statualistica ma civile e sociale. I riformismi del nuovo secolo fondano, quindi, nuove istituzioni reticolari che sostengono i diritti di inclusione e di dotazione dei capitali sociali che per quella inclusione sono necessari. La forma che queste istituzioni assumono deve essere decisa volta per volta dal grado di dotazioni di cui dispongono le società civili associate e le famiglie o gli individui nei vari momenti dei loro cicli di vita. I riformismi rifondano un sistema di cittadinanza universalistica che ha alla base non tanto e soltanto i diritti storicamente acquisiti, ma, in primo luogo, i doveri che le comunità e le persone sentono come obbligazione morale per garantire il miglioramento della riproduzione della società. I riformismi del futuro sostengono i legami sociali e li riformulano continuamente nel capitalismo molecolare e del mercato dispiegato, diffondendo una nuova morale di sostegno. La morale della responsabilità nei confronti delle generazioni, dei ceti e dei gruppi più poveri rispetto alle dotazioni di capitali sociali e rispetto alle istituzioni.

L’«individuo» è trasformato dai moderni riformismi in «persona» quando si configura come attore di un sistema di doveri: dovere di sostenere la comunità garantendo ampie forme di inclusione sociale e quindi in primo luogo contribuendo con lo Stato, né contro lo Stato né senza lo Stato né solo con lo Stato, alla diffusione dell’istruzione così come delle cure per la salute e per il godimento del frutto della contribuzione solidariamente apportata ai sistemi di previdenza. I riformismi hanno altresì il dovere di richiedere l’intervento della mano visibile pubblica quando la società civile e le persone, associate o non, non hanno in sé le risorse per sostenere coloro che non possono affrontare le sfide del capitalismo molecolare: per mancanza di capitale sociale, per handicap psicofisici, per inadattabilità al disagio della civiltà, a patto che tale inadattabilità non sia mero opportunismo. I riformismi del nuovo secolo saranno tanto più in grado di risolvere questi problemi quanto più sapranno costruire delle forti e trasparenti società civili (è questa la sfida che pesa sull’Asia, dove il potere statuale ha finora annichilito ogni società primaria e secondaria che non fosse la famiglia patriarcale) e delle istituzioni sempre più leggere e trasparenti, che conserveranno il monopolio della forza e della legge ridefinendo lo stesso concetto di Stato. Perché i riformismi del nuovo secolo si battono per uno Stato che diffonda la dignità della legge nella società, e così facendo non si opponga a essa, ma si autonomizzi virtuosamente dalle sue malattie attraverso meritocrazie che contemperino con il principio di competenza quello democratico di maggioranza. Perché i riformismi del nuovo secolo si battono per una società fondata sui doveri di superare le esclusioni grazie alle conoscenze diffuse e alla trasparenza informativa, per cui il merito deve divenire l’elemento essenziale di selezione dei nuovi public servants, senza i quali nessun sistema dei diritti può sopravvivere. È nel difficile e rinnovato nuovo equilibrio tra Stato rifondato e società civile, tra politica democratica e competenza tecnocratica, tra diritti di cittadinanza e doveri di comunità, che vedremo crescere gli alberi del riformismo del nuovo secolo. I riformismi mondiali dei diritti e delle persone che diffondono il principio di comunità, nel nuovo capitalismo molecolare e dell’alleanza.