Una nuova fiscalità ambientale per l’innovazione e il lavoro

Di Edoardo Zanchini Mercoledì 13 Maggio 2015 15:33 Stampa

Intervenire sulla questione della fiscalità, rivoluzionandone l’approccio e modificando le priorità della tassazione ambientale, può essere l’occasione giusta per disegnare una traiettoria di sviluppo del paese alternativa, lineare e consapevole. Scegliere una chiave di innovazione ambientale per agire sul sistema fiscale italiano non è solo importante per la prospettiva che può aprire in termini di qualità dei processi e dei prodotti e di creazione di lavoro. È anche una strada realmente praticabile per individuare le risorse necessarie a rilanciare gli investimenti e promuovere la crescita.

Attenzione a trattare la questione della fiscalità con uno sguardo sul mondo che utilizzi una mappa ferma al secolo scorso. I cambiamenti nell’economia e nella società, nelle dimensioni stesse degli scambi globali, sono stati tali da aver modificato larga parte dei riferimenti in campo e ridimensionato i margini di azione degli Stati. Se si vuole oggi tracciare una rotta di crescita economica per l’Italia occorre tenere assieme le questioni al centro del dibattito internazionale (credito per la crescita, lotta ai paradisi fiscali e alla speculazione finanziaria) con i problemi e i ritardi italiani (costo del lavoro, debito pubblico, investimenti). Una prospettiva di questo tipo aiuta a dare il giusto peso alle questioni su cui da anni si concentra, con risultati mediocri, il dibattito politico e a capire anche lo spazio che il nostro paese può ambire a ritagliarsi dentro un’economia sempre più globalizzata.

Una volta assunto questo distacco, ci si accorge che esiste oggi una chiave che permette di tenere assieme queste sfide, ed è quella del clima. Qui non parliamo delle ragioni ambientali della questione, che pure sono da anni al centro del confronto scientifico e dell’agenda politica internazionale e che avranno un passaggio importante alla fine del 2015 nella Conferenza delle Nazioni Unite di Parigi. Parliamo dello specifico interesse delle imprese e dei cittadini a intervenire con obiettivi radicali nel sistema energetico per ridurre la spesa e le importazioni di fonti fossili, che pesano in maniera trasversale, dall’industria all’edilizia, dai trasporti ai servizi. È importante evidenziare come la transizione sia già in corso: in dieci anni la crisi economica e l’innovazione nelle tecnologie hanno portato dal 15% al 38% il contributo delle fonti rinnovabili rispetto ai consumi italiani, producendo una riduzione dei prezzi dell’energia e delle emissioni di CO2, che sempre di più prescindono dall’andamento del PIL.

Purtroppo, fino a oggi questo è stato un percorso inconsapevole e contraddittorio, privo di una bussola o della capacità di guardare a come promuovere una innovazione nei diversi settori produttivi che potesse aiutare le imprese italiane a competere. Eppure sono i marchi italiani che hanno saputo ripensarsi puntando su ricerca, brevetti e formazione quelli che meglio si posizionano nei ranking di competitività.1 Inoltre, nella crisi si è accentuata la distanza tra un sistema imprenditoriale che è stato capace di mantenere quote significative di export e un mercato interno in continua lenta contrazione.

È giunto il momento di compiere come sistema paese lo stesso tipo di rivoluzione nella scelta delle priorità, consapevoli di tutte le ragioni che spingono a muoversi nella direzione di un cambiamento all’interno e di un maggiore protagonismo sullo scenario globale. Sia perché solo in questa prospettiva i problemi storici italiani possono essere affrontati, sia perché si rafforzerebbe così il sistema delle imprese attraverso quello che è il marchio del made in Italy nel mondo, fatto da un lato di qualità, competenza e creatività e dall’altro del legame con i territori e il tessuto ambientale, sociale e culturale.

 

Cambiare la fiscalità sull’energia e i beni ambientali

Cosa c’entra il clima con le scelte che riguardano la fiscalità o con la questione del costo del lavoro? Se vogliamo sul serio cambiare la situazione italiana, è anche qui che dobbiamo guardare, e con uno sguardo nuovo. Per essere chiari, non nel modo con cui si vorrebbe affrontare il problema nella delega fiscale, come se la componente ambientale fosse un tassello di un disegno che ha altre priorità.2 L’obiettivo ruota intorno ad alcune scelte chiave: aumentare la fiscalità sulle risorse energetiche per ridurla sul lavoro; ridefinire regole e canoni per lo sfruttamento delle risorse naturali per tassare le rendite e al contempo spingere le produzioni di qualità e la green economy. È possibile intraprendere un percorso di questo tipo se si guarda con attenzione dentro la fiscalità, nelle regole di sfruttamento di molte risorse naturali, nelle bollette dell’energia, dove si annidano costosi sussidi diretti e indiretti al consumo dell’ambiente, con meccanismi che avvantaggiano l’uso di risorse ambientali non rinnovabili e l’inquinamento, nella fiscalità sui prodotti. La sfida sta nel modificare questa situazione per individuare le risorse indispensabili a ridurre la tassazione sul lavoro, che pesa nel nostro paese molto più della media UE, e per promuovere interventi nella direzione dell’efficienza energetica e dell’innovazione ambientale capaci di creare nuova occupazione. Di sicuro è una direzione di cambiamento su cui c’è ampio consenso teorico a livello internazionale e che può contribuire a spingere l’innovazione in settori industriali promettenti. È altrettanto certo che scelte di questo tipo incontrano forti resistenze, perché intervengono nei confronti di rendite e interessi radicati nei territori come nei centri di potere. Ma anche in questo caso si tratta di una questione di volontà politica, perché è ampiamente condivisa tra i cittadini l’idea per cui regole di tutela, utilizzo e consumo delle risorse naturali e dei beni ambientali demaniali debbano essere il più possibile trasparenti, semplici, comprensibili. Allo stesso modo, nella normativa europea è sancito con chiarezza che gli interventi pubblici debbano aiutare l’innovazione e non proteggere rendite, garantendo concorrenza e legalità. Proviamo ad analizzare come dovrebbe essere ripensata la fiscalità per perseguire questi obiettivi.3

Il primo campo di intervento dovrebbe interessare la fiscalità sul consumo delle risorse energetiche. Non è certamente un tema nuovo; del resto l’accisa e le tasse sui combustibili e sull’elettricità sono una voce rilevante delle entrate pubbliche. Si tratta di un sistema fiscale che con il tempo è diventato sempre più complesso, incoerente e costoso e che ha introdotto sconti, esoneri da accise e altre imposte ambientali senza una verifica dei risultati e dei costi. Complessivamente sono individuabili esenzioni alle accise sui consumi energetici pari ad almeno 5,7 miliardi di euro annui nel 2014,4 quasi tutte a vantaggio del consumo di fonti fossili, in gran parte nei trasporti. Inoltre, nelle bollette dell’energia pesano sussidi alle fonti fossili5 pari a oltre 2 miliardi di euro e negli oneri generali di sistema sono individuabili sussidi ai grandi consumatori.6 È evidente la necessità di intervenire per ridare coerenza e trasparenza. Eliminare il groviglio di esenzioni e sussidi è possibile attraverso una tassazione trasparente legata alle emissioni di CO2, capace dunque di premiare l’efficienza e spingere gli investimenti in questa direzione. Sono diverse le esperienze internazionali a cui guardare oggi con interesse.7 Il risultato conseguito è stato duplice: si sono generate risorse per le casse pubbliche e attirati investimenti e attenzione da parte di famiglie e imprese nei confronti dell’efficienza energetica che hanno permesso di ridurre le emissioni di CO2 in maniera significativa.

Il secondo grande cambiamento che va impresso al sistema fiscale italiano riguarda il consumo e lo sfruttamento dei beni ambientali. La situazione di partenza è scandalosa: spiagge di fatto privatizzate e canoni irrisori a fronte di guadagni miliardari; cave che divorano colline gestite spesso senza leggi o piani e con canoni concessori bassi o addirittura assenti; sorgenti di acque minerali in concessione per pochi euro; un consumo di suolo che ha viaggiato al ritmo di 500 km2 all’anno spinto dai guadagni dei Comuni sugli oneri di urbanizzazione. Una situazione che rischia di sfuggire perfino alla comprensione pubblica, perché resa complessa dal trasferimento dei poteri alle Regioni, che in larga parte d’Italia non ha funzionato. Un intervento normativo in questo campo è possibile nell’ambito dei poteri dello Stato rispetto ai principi e alle regole di riferimento per gli usi dei beni ambientali e per la fiscalità. Per cambiare questa situazione si devono tenere assieme obiettivi economici e di trasparenza (adeguamento dei canoni in tutto il territorio nazionale e assegnazione tramite gara),8 con chiari obiettivi di tutela. Perché, a seconda delle categorie dei beni, si deve garantire la salvaguardia della costa e la fruizione pubblica da parte dei cittadini della spiaggia o il recupero ambientale, ad esempio delle cave, che ancora in larga parte del paese rimane un diritto negato. Ripensare la fiscalità non è un tema solo tecnico, determina lo spostamento di interessi e vantaggi, può favorire rendite o eliminarle, può spingere l’innovazione all’interno dei diversi settori. Ad esempio nel campo delle attività estrattive un intervento di questo tipo aprirebbe le porte, come negli altri paesi europei, al riutilizzo di inerti provenienti dalle demolizioni edilizie, creando più lavoro. Oppure, come dimostra l’esperienza tedesca, aumentando la fiscalità sulle aree agricole e cancellandola sulla riqualificazione urbana si determina uno spostamento di interessi indispensabile per fermare il consumo di suolo. Ancora, come dimostra l’esperienza virtuosa di tanti Comuni italiani che hanno raggiunto risultati impressionanti nella raccolta differenziata, è proprio aumentando il costo dello smaltimento in discarica che si spinge a una corretta gestione del ciclo dei rifiuti che valorizza raccolta differenziata, recupero e riciclo generando valore aggiunto locale e lavoro.

Una terza leva da mettere in moto per muovere risorse e innovazione riguarda la fiscalità sui beni di consumo. Dall’IVA alle accise, fino agli oneri di urbanizzazione, nel nostro paese la tassazione non distingue (o lo fa solo in minima parte e senza alcuna trasparenza) tra comportamenti virtuosi e meno virtuosi, tra la vendita di una pistola o di un pannello solare, di un SUV, di un libro o dell’abbonamento al trasporto pubblico. A questa complessa realtà si può guardare in due modi. Il primo è quello proposto recentemente dai due commissari del governo Renzi alla spending review, Yoram Gutgeld e Roberto Perotti, che ha individuato 52 agevolazioni fiscali, dall’agricoltura alla sanità, dall’edilizia all’industria, e proposto di tagliarli per recuperare 1,5 miliardi di euro. Una seconda modalità di intervento mette al centro la trasparenza della fiscalità e gli obiettivi che si vogliono perseguire attraverso una differenziazione delle aliquote. Questa prospettiva appare più convincente, in particolare se si vogliono spingere processi di innovazione virtuosa e si vuole distinguere dentro il complicato mondo delle detrazioni e degli esoneri dalle accise stratificato in questi decenni. Un esempio sono le detrazioni fiscali per gli interventi di manutenzione del patrimonio edilizio italiano e per gli interventi di efficienza energetica, che in questi anni hanno permesso di conseguire obiettivi di interesse generale, di sicurezza e ambientali, creato lavoro e dunque vantaggi anche in termini di bilancio dello Stato. Ha molto più senso verificare i risultati prodotti e rivedere le detrazioni sulla base di una analisi costi-benefici delle diverse tipologie di intervento piuttosto che azzerare il provvedimento per recuperare risorse nel bilancio dello Stato. Anche questo esempio dimostra come la strada più lungimirante sia quella di differenziare la tassazione, come minimo a parità di gettito per lo Stato, sulla base di espliciti obiettivi e di analisi economiche. In questo modo si rende trasparente il processo e si esplicitano gli obiettivi che si vogliono conseguire nei diversi settori in termini di innovazione ambientale, efficienza energetica e riduzione delle emissioni di CO2 (e dunque indirettamente spingendo investimenti in produzioni di qualità e nella green economy). È evidente che una prospettiva di questo tipo ha bisogno di una attenta regia e di verifiche dell’efficacia dei provvedimenti, ma proprio perché punta sulla trasparenza permette alle imprese di programmare gli investimenti e favorisce una maggiore consapevolezza da parte dei consumatori rispetto all’impatto ambientale dei beni e dei prodotti.

 

Mettere in moto risorse per uscire dalla crisi

Scegliere una chiave di innovazione ambientale per intervenire nel sistema fiscale italiano non è solo importante per la prospettiva che può aprire in termini di qualità dei processi e dei prodotti e di creazione di lavoro. È anche una strada realmente praticabile per individuare le risorse per rilanciare gli investimenti e promuovere l’innovazione. Per capirne le dimensioni, un cambiamento come quello proposto permetterebbe di generare complessivamente risorse fiscali per diversi miliardi di euro all’anno. Qualcuno potrebbe obiettare rispetto all’impatto sulle imprese dell’adeguamento dei canoni? Proviamo a fare degli esempi: per l’acqua in bottiglia oggi si pagano canoni in media pari a 0,1 centesimi per litro, quando il prezzo medio di vendita è 26 centesimi! Per le cave l’esempio migliore è la Gran Bretagna, dove si paga il 20% del prezzo di vendita finale, mentre in Italia siamo al 3,5% e in alcune Regioni semplicemente non si paga nulla. Negli stabilimenti balneari allo stesso modo si potrebbero applicare criteri minimi legati ai guadagni.

La questione politica riguarda semmai chi guadagnerebbe e chi perderebbe da un cambiamento di questo tipo: le proposte individuate spostano il campo degli interessi, eliminano sussidi e cancellano rendite di cui beneficiano alcune categorie, oggi a danno di risorse ambientali, mentre si mettono in moto risorse per ridurre la pressione fiscale sui redditi da lavoro e per investimenti in efficienza energetica nei settori interessati alla eliminazione delle esenzioni dalle imposte ambientali. Non solo, in questa prospettiva si avvia il recupero ambientale negli ambiti coinvolti dalle attività interessate dall’aumento dei canoni e la rigenerazione urbana con bonifica di suoli inquinati, riutilizzo di aree dismesse, messa in sicurezza del territorio.

Il nostro paese ha in mano molte delle leve necessarie a uscire dalla crisi economica e questi esempi dimostrano come sia possibile definire una prospettiva di sviluppo che permetta di creare lavoro e di premiare chi investe in ricerca e qualità. Per chiarezza, non esistono vincoli internazionali che impediscano interventi come quelli proposti; al contrario, la stessa OCSE, nelle raccomandazioni nei confronti dell’Italia, metteva in luce proprio la centralità di una riforma della fiscalità ambientale che riguardasse le imposte sull’energia e sull’uso delle risorse ambientali nella direzione di una crescita verde.

Le opportunità sono davvero rilevanti; pensiamo al settore energetico, dove in dieci anni si è più che raddoppiato il contributo delle fonti rinnovabili rispetto ai consumi elettrici. Se in questi anni la spinta è venuta dagli incentivi, oggi è possibile continuare in questa prospettiva attraverso un sistema energetico distribuito che premia chi risparmia energia, chi la autoproduce da impianti puliti, chi investe nella gestione delle reti energetiche e nell’accumulo. È possibile farlo senza incentivi, ma bisogna decidere di cambiare le regole in modo da permettere di scambiare sempre di più energia con la rete elettrica (tanto produco con il mio impianto sul tetto, tanto prendo dalla rete, il sistema di scambio sul posto), di ridurre la domanda di energia dalla rete attraverso autoproduzione, efficienza e sistemi di accumulo con batterie, ma anche attraverso una nuova gestione delle reti di distribuzione elettrica e termica. È una prospettiva che aiuta famiglie e imprese a risparmiare e prodursi da soli l’elettricità e il calore di cui hanno bisogno, che riduce inquinamento ed emissioni di gas serra, che crea più lavoro. Perché in un modello distribuito si sposta il baricentro verso la gestione e manutenzione con vantaggi per i territori. Ma non è a somma zero per quanto riguarda gli interessi che si rimettono in gioco, in quanto riduce il peso delle grandi aziende dell’energia. È una questione di scelte, ma nessuno può sostenere che vi siano impedimenti formali o sostanziali a procedere in questa direzione. Non diverse sono le scelte che riguardano il turismo, dove è condivisa la tesi che l’Italia abbia una grande carta da giocare nei prossimi anni. Anche qui è alla qualità dell’offerta che bisognerà guardare se si vogliono attrarre flussi in un settore in forte sviluppo e con potenzialità enormi nel nostro paese. Risulta interessante incrociare i numeri di crescita nel mondo – negli ultimi cinque anni i flussi sono cresciuti di circa il 20%, con un peso sempre più rilevante dei paesi asiatici – con i dati che riguardano l’Italia. La componente più forte di presenze turistiche si concentra nelle città d’arte e in tutte le indagini sul turismo e sulla predisposizione a venire in Italia9 sono il patrimonio artistico, la bellezza dei luoghi e la bontà del cibo ad attrarre i viaggiatori. Interessante è anche andare a vedere i dati divisi per Regione in merito alle presenze turistiche, dove si evidenzia come in territori che possono godere di un patrimonio storico e culturale straordinario ma anche di spiagge e parchi, i numeri siano estremamente bassi. Se vogliamo rilanciare il turismo e farne un asse portante per creare opportunità e occupazione nei territori, si aprono delle questioni ineludibili. La prima riguarda l’accessibilità, perché non esiste in larga parte del paese alcuna idea o proposta su come favorire la diversificazione dell’offerta turistica attraverso progetti capaci di mettere a sistema luoghi, percorsi, servizi, porti, aeroporti, stazioni. La seconda riguarda la tutela del territorio italiano, di coste e colline, paesaggi agricoli che continuiamo a trasformare senza sosta. Anche in questo caso il paese si trova di fronte a delle scelte di campo, continuare con il consumo di suolo e le cave o cambiare direzione. Perché non è vero che nella globalizzazione i luoghi e le differenze scompaiono, al contrario la geografia conterà sempre di più nel definire la capacità di attrarre e competere.10 Ed è una chiave che permette di capire quanta potenzialità abbia oggi un’agricoltura che punti sulla qualità, sul legame con il territorio e la crescita del biologico come prospettiva capace di rafforzare il valore dei prodotti e quindi le competenze nel lavoro, ma anche la sicurezza alimentare e la manutenzione del territorio. Meglio questa prospettiva o quella proposta dai paladini dell’economia globalizzata di mercato, per cui dovremmo competere con i pomodori, le arance e l’uva del Nord Africa aumentando la quantità e riducendo il costo del lavoro? È curioso che nel dibattito tra gli economisti sul rilancio della domanda interna – in contrazione da troppo tempo, mentre l’export ha tenuto – questi temi non vengano mai fuori. Eppure oggi è possibile trovare una rotta per l’Italia oltre la lunga crisi proprio utilizzando la chiave del clima per rafforzare una economia circolare che recupera materie prime ed energia, che consente di creare valore aggiunto per tutta la filiera della produzione italiana attraverso innovazione, creatività, valorizzazione del patrimonio culturale e paesaggistico.


[1] Si veda CNA-Symbola, Le PMI e la sfida della qualità. Un’economia a misura d’Italia, disponibile su www.symbola.net/assets/files/CNA%20Qualit%C3%A0_DEF_ ONLINE_080415_1428659210.pdf

[2] La delega al governo in materia di fiscalità (legge 23/2014, articolo 15) prevede unicamente di rivedere la disciplina delle accise sui prodotti energetici e sull’energia elettrica, anche in funzione del contenuto di carbonio e delle emissioni di ossido di azoto e di zolfo, in conformità con i principi che verranno adottati con l’approvazione della proposta di modifica della direttiva 2003/96/CE, ma rinvia la decorrenza degli effetti delle disposizioni alla data di recepimento della disciplina armonizzata stabilita dalla direttiva negli Stati membri dell’Unione europea.

[3] Si vedano le proposte di Legambiente e dei Radicali per una riforma della fiscalità ambientale, disponibili su www.legambiente.it/sites/default/files/docs/propostalegge_fiscalitaambientale_ legambienteradicaliitaliani.pdf.

[4] Di circa 5,7 miliardi di euro di esenzioni di accise sul consumo di combustibili previsto per il 2014 dalla Ragioneria dello Stato i trasporti pesano per 4. Il trasporto aereo commerciale ha sconti per 1,6, poco più di quello a TIR e autolinee passeggeri (a queste ultime molto meno che ai TIR); 640 milioni a trasporto marittimo e pesca. Il totale di 5,7 miliardi è una stima per difetto, perché i dati non includono alcune forme di esenzione, bensì di non assoggettabilità alle accise. Si veda Ragioneria dello Stato, Stato di previsione dell’entrata 2014-2016. Effetti finanziari delle disposizioni vigenti recanti esenzioni o riduzioni del prelievo obbligatorio. Allegato A, disponibile su www.rgs.mef.gov.it/_Documenti/ VERSIONE-I/Attivit--i/Bilancio_di_previsione/Bilancio_finanziario/2014/ DisegnodiBilancio/AllegatoaldisegnodiBilancio/01-Allegato_tecnico-Entrata.pdf

[5] All’interno della componente A3 degli oneri generali di sistema, secondo i dati del GSE, i sussidi per centrali da fonti fossili attraverso il meccanismo delle “assimilate” (CIP6) sono stati pari a 2166 milioni di euro nel 2012 e la spesa complessiva dal 2001 è stata di 40.149 milioni di euro. Nel 2013 è stato introdotto un sussidio per le centrali a olio combustibile per prevenire le possibili “situazioni di emergenza gas” stimato in 250 milioni di euro il primo anno, a prescindere che si verifichino o meno rischi per gli approvvigionamenti di gas.

[6] Gli oneri generali presenti nelle bollette di elettricità e gas sono applicati in modo progressivo per i clienti domestici residenti con piccola potenza impegnata e fortemente degressivo per i consumatori più grandi. Le categorie che più ne beneficiano sono quelle dei grandissimi consumatori. Nelle sole bollette elettriche il vantaggio ai consumatori in altissima tensione relativo alla degressività di applicazione della sola componente A3, quella che perlopiù finanzia il supporto alle fonti rinnovabili elettriche, ammontava a oltre mezzo miliardo nel 2012, pagato soprattutto dalle piccole imprese che non beneficiano dello sconto per “energivori” e dai consumatori domestici diversi dai residenti con potenza impegnata 3 kW.

[7] Si vedano i risultati in particolare in Irlanda e nei paesi scandinavi e la recente esperienza della provincia canadese della British Columbia, dove l’adozione di una carbon tax nel 2008 con una crescita progressiva fino al 2012 (pari a circa 21 euro a tonnellata di CO2) e la parallela redistribuzione delle entrate tra cittadini e imprese hanno generato una crescita del PIL pari al resto del paese ma con una riduzione dei consumi di prodotti petroliferi pari a –17,4% a fronte di un +1,5% a livello nazionale.

[8] Questi gli obiettivi di un intervento normativo nelle proposte di Legambiente: a) introduzione di un canone minimo nazionale per le concessioni di coltivazione di cava differenziato per tipologie di materiali e fissazione di un’ecotassa minima per lo smaltimento in discarica di 50 euro a tonnellata; b) adeguamento dei canoni per le concessioni di acque minerali in tutto il territorio nazionale ad almeno 20 euro a metro cubo (ossia 2 centesimi di euro al litro); c) adeguamento dei canoni per le concessioni balneari in tutto il territorio nazionale di almeno 10 euro a metro quadro all’anno e recepimento della direttiva europea per l’assegnazione e il rinnovo delle concessioni attraverso gare, con possibilità da parte delle Regioni di utilizzare premialità e penalità legate alle modalità di gestione e agli interventi di riqualificazione ambientale; d) introduzione di un contributo per il consumo di suoli agricoli e naturali i cui introiti devono essere vincolati a interventi di rigenerazione urbana. Il contributo dovrà essere legato alla perdita di valore ecologico, ambientale e paesaggistico determinata e il suo valore dovrà essere pari a tre volte il contributo relativo agli oneri di urbanizzazione e al costo di costruzione nel caso in cui l’area sia coperta da superfici naturali e a due volte se invece sia coperta da superfici agricole e il suo utilizzo vincolato a una specifica voce nei bilanci comunali a interventi di rigenerazione urbana, di bonifica di suoli inquinati e di messa in sicurezza del territorio

[9] Si veda R. Grossi (a cura di), Cultura. L’alternativa alla crisi per una nuova idea di progresso. 10° Rapporto annuale Federculture 2014, 24 Ore Cultura, Milano 2014.

[10] Si veda E. Zanchini, La rivincita della geografia, in D. Bianchi, E. Zanchini (a cura di), Ambiente Italia 2015. Gli indicatori per capire l’Italia. Analisi e idee per uscire dalla crisi, Edizioni Ambiente, Milano 2015.