Maggio: per l'Europa è tempo di cambiare

Di Martin Schulz Giovedì 20 Marzo 2014 13:21 Stampa

Mentre gli ucraini sulle barricate sognano l’Europa della democra­zia e dei diritti, gli svizzeri mettono in discussione uno dei principi cardine dell’integrazione, la libera circolazione delle persone. Questa contraddizione ci invita a riflettere sulle luci e le ombre del progetto europeo, sui molti traguardi raggiunti – fra i quali senza dubbio bisogna includere la moneta unica – e su un’eccessiva ossessione per freddi target e meccanismi intergovernativi, che antepongono la som­ma degli interessi nazionali alla ricerca del bene comune. Di fronte alla crisi di fiducia dei cittadini europei, che si manifesta anche nella diffusione di movimenti euroscettici, non è più possibile preservare lo status quo e continuare a ignorare il vacuum democratico che caratte­rizza le istituzioni europee.

I recenti avvenimenti lungo i confini dell’Unione ci spingono a riflettere sul significato dell’identità europea, sul nostro progetto politico e sul futuro comune che vogliamo costruire.

Il caso del voto svizzero contro l’immigrazione è sintomo di un chiaro allontanamento da una delle conquiste fondamentali per l’Unione: la libera circolazione delle persone e dei lavoratori. Il paese elvetico, con il voto referendario, ha voluto esprimere il suo rifiuto nei confronti di uno degli elementi chiave dell’Europa, anche se la stessa preoccupazione non è stata sicuramente rivolta alla libera circolazione dei capitali.

Dall’altra parte, l’Ucraina. Per i cittadini ucraini scesi in piazza Maidan, l’Unione rappresenta tutto ciò che è loro negato: Stato di diritto, demo­crazia, libertà civili, benessere, stabilità.

Per molti cittadini dell’Unione invece, la rivoluzione ucraina pro-europea e allo stesso tempo il voto svizzero sono stati un piccolo shock. Com’è possibile che gli ucraini abbiano dimostrato una tale voglia di avvicinarsi a un’Unione ancora in crisi, a bassa crescita, alta disoccupazione e che impone un fardello di regole e burocrazia ai suoi cittadini? E, dall’altra parte, com’è possibile che i cittadini svizzeri, con il loro benessere, con la loro bassissima disoccupazione, abbiano invece voluto mettere a rischio le relazioni con il loro più importante partner commerciale e la parteci­pazione a programmi culturali e di ricerca comuni?

Svizzera e Ucraina obbligano noi cittadini dell’Unione a una riflessione sulla nostra identità, sui nostri valori, sulle fondamenta su cui poggia la nostra Unione. Su cosa vogliamo salvare e cosa invece vogliamo rifor­mare, su come vogliamo affrontare le sfide che abbiamo davanti, dal riscaldamento globale ai movimenti migratori, dal sistema economico ai nuovi diritti. Come vogliamo affrontare queste sfide? Uniti o divisi? Conservando o avanzando? Inseguendo o mostrando la nostra leader­ship come europei?

L’EUROPA ZOPPICANTE

Molto è stato detto e scritto sull’origine della crisi che ha intrappolato il continente negli ultimi cinque anni: abbiamo parlato di crisi dei subprime, bolle immobiliari, cartolarizzazioni, leverage, bad loan, bad banks, troike e spread. È in parte vero che, se la crisi non è nata in Europa, in Euro­pa ha trovato la sua espressione più grave: il peso dell’interdipendenza tra debito sovrano e banche è stato sostenuto dai cittadini, che hanno dovuto assistere a un dete­rioramento dei salari, dei servizi e della solidarietà europea. Il consolidamento delle finanze pubbliche è stato pagato soprattutto da chi non aveva respon­sabilità nel deterioramento di quelle finanze.

Mentre gli Stati Uniti all’inizio della crisi sviluppa­vano un sostanzioso pacchetto di stimolo per l’eco­nomia, noi siamo rimasti alla finestra ad aspettare che la crisi si materializzasse in tutta la sua forza prima di intervenire. Quanti posti di lavoro sono stati inutilmente persi? Quante aziende hanno do­vuto chiudere perché l’Europa intervenisse? I programmi di salvataggio sono arrivati e hanno effettivamente evitato il peggio, ma hanno lasciato dietro di sé una striscia di disillusione, cinismo e stanchezza nei confron­ti dell’Europa e della democrazia.

È vero che la governance economica è stata rafforzata e che siamo ora meglio equipaggiati per prevenire crisi future. Grazie soprattutto al Par­lamento europeo l’azione di controllo e correzione degli squilibri delle finanze pubbliche non è più alla mercé di accordi tra Stati che creano eccezioni e deroghe a loro piacimento. Il quadro normativo è ora molto più forte e veramente europeo.

Ancora grazie all’intervento del Parlamento europeo sono state create re­gole per mettere fine ai comportamenti più nocivi del settore finanziario. È stato creato un sistema europeo di supervisione finanziaria con agenzie indipendenti e sanzioni, anche penali, per comportamenti illeciti e con un possibile rischio sistemico. È stato posto un limite a un sistema di in­centivi distorto per l’assegnazione di bonus a banchieri che tanto avevano contributo, nella fase precedente alla crisi, a creare squilibri sistemici. Il Parlamento ha sostenuto la creazione di una tassa sulle transazioni finan­ziarie, che ora viene discussa dagli Stati membri. Su questi temi, il con­fronto con gli Stati membri, specialmente alcuni, è stato a volte aspro.

Ciononostante non possiamo non ammettere che l’intervento dell’Unio­ne in materia macroeconomica è stato – per utilizzare un lessico caro agli economisti – prociclico: agli Stati membri sono stati chiesti maggiori sforzi nel consolidamento di bilancio, tagli, austerità, senza dall’altra par­te creare uno strumento per rilanciare una domanda interna depressa e investimenti al palo.

Mentre sull’altra sponda dell’Atlantico si creavano strumenti e politiche innovative per il rilancio dell’economia, sia a livello di politica economi­ca federale, sia a livello di banca centrale, l’Europa si è impegnata prin­cipalmente a estinguere le fiamme. Vediamo ora i segnali di una debole ripresa, ma ancora troppo fragile per abbassare significativamente l’alto tasso di disoccupazione, soprattutto giovanile, e per fermare l’emorragia di piccole e medie imprese in chiusura. Stiamo sottoutilizzando il nostro capitale e le nostre risorse, e il gap di competitività e crescita con i nostri partner-competitor mondiali continua ad allargarsi. L’Europa ha biso­gno di un cambiamento radicale.

PER UN’EUROPA PROGRESSISTA

I partiti euroscettici, e anche alcune voci a sinistra, guardano all’euro come la causa di tutti i mali: una moneta troppo forte che non riflette il differenziale di competitività tra i vari paesi della zona euro. Rifiuto fermamente queste critiche alla moneta unica, una delle conquiste più importanti dell’Unione europea dalla sua creazione.

L’euro e la Banca centrale europea hanno garantito nei loro primi quin­dici anni di vita un rafforzamento del mercato unico, hanno eliminato le incertezze legate alle fluttuazioni del mercato della valuta all’interno della zona euro, hanno semplifi­cato la vita a chi voleva fare impresa e garantito la stabilità dei prezzi anche in paesi come l’Italia in cui, prima, l’inflazione intaccava i risparmi delle fami­glie. È vero, è scomparso lo strumento della svaluta­zione competitiva, ma non siamo più negli anni Ot­tanta: in un’economia ormai integrata come quella dell’eurozona, in cui la catena di produzione di beni e servizi è altamente interdipendente, la svalutazio­ne non avrebbe aiutato più le economie in difficoltà. L’euro ha funzionato come cuscinetto anti-shock (la Grecia senza l’euro sarebbe andata direttamente in fallimento, scenario che abbiamo evitato) e la Banca centrale, con la sua autorevolezza e il suo program­ma di Outright Monetary Transactions, è interve­nuta laddove i governi avevano esitato, garantendo l’unità dell’area euro.

Il problema non è mai stato l’euro, ma la nostra politica economica. L’Unione si è focalizzata quasi totalmente sul lato dell’offerta, mentre i consumi hanno affrontato una lunga inesorabile crisi, aumentando gli squilibri. L’ingresso dei socialdemocratici nella coalizione di governo te­desca e il conseguente avvio di politiche di stimolo, come l’introduzione del salario minimo, rappresentano già un importante segnale di una po­litica economica più equilibrata per la Germania e per l’Europa.

Anche a livello dell’Unione dobbiamo continuare a correggere gli squi­libri. Il Parlamento europeo si è fortemente battuto per creare un qua­dro finanziario pluriennale per l’UE che fosse all’altezza delle sfide da affrontare. Abbiamo contrastato la retorica secondo la quale, considerati gli sforzi degli Stati membri a livello nazionale, fosse necessario replicare a livello europeo la diminuzione del bilancio pluriennale. Questa ten­denza era purtroppo maggioritaria fra i governi europei, ciononostan­te il Parlamento è riuscito a ottenere alcune importanti concessioni per quanto riguarda la flessibilità nell’uso del bilancio, lo stanziamento di maggiori fondi per la Garanzia per i giovani, per lottare contro la disoc­cupazione giovanile, una clausola di revisione del bilancio e la creazione di un gruppo di lavoro, presieduto da Mario Monti, per riformare un sistema di risorse proprie che permetta di andare oltre la contabilità mio­pe di ogni paese, del “quanto do e quanto ricevo”, e garantisca al bilancio dell’Unione i fondi necessari per perseguire l’interesse comune invece che la somma di quelli nazionali.

Ma il bilancio dell’Unione da solo, pur essendo un formidabile strumen­to d’investimento per l’economia reale, per le regioni e i territori, e per la ricerca, non è però lo strumento adatto a creare una politica macro-

economica a livello europeo. La creazione di una vera politica economica europea deve essere uno dei temi centrali della prossima legislatura e di conseguenza delle prossime elezioni europee di maggio.

L’azione dell’Unione europea non può essere fatta semplicemente di “target” – fra i quali il più noto è il famigerato 3% –, senza un pensiero politico forte che la sostenga. I target sono certamente uno strumento utile perché gli Stati membri si “approprino” delle politiche europee, creando obiettivi nazionali per il raggiungimento di un risultato comune. Ma da soli, che si guardi all’occupazione giovanile, alla partecipazione delle donne al mondo del lavoro, alle politiche ambientali ed energetiche, non sono sufficienti. I target sono necessari anche in campo sociale, ma l’Unione ha bisogno soprattutto di politiche. La Commissio­ne europea deve essere un’istituzione assolutamente imparziale, ma non può essere un’istituzione neutrale.

Utilizzando un paragone calcistico, alcuni vorrebbero fare della Com­missione europea un semplice arbitro tra squadre di calcio. La mia idea invece è che le istituzioni comunitarie, Commissione in primis, debbano avere il ruolo di allenatore, che scelga i giocatori, dia una strategia per af­frontare la partita, sia responsabile dei successi, ma anche degli insuccessi della squadra. E quando i risultati sono insoddisfacenti non si cambia l’arbitro, si cambia il giocatore.

OSARE LA DEMOCRAZIA

La stampa e i media danno una rilevanza sproporzionata alla crescita dei movimenti populisti, euroscettici, antieuropei e xenofobi, a volte anche correndo il rischio di cancellare le differenze che esistono all’interno di questa galassia di partiti antagonisti a quelli considerati “tradizionali”. Credo, ad esempio, che non sia in alcun modo corretto assimilare gli elettori del Movimento 5 Stelle in Italia a un euroscettico britannico so­stenitore del partito UKIP (Partito per l’Indipendenza del Regno Unito). Ciò che muove molti elettori del M5S è una richiesta di cambiamento radicale, trasparenza e riforma delle istituzioni, e – a livello europeo – la fine dell’austerità soprattutto per chi è stato più fortemente toccato dalla crisi. L’UKIP, invece, vuole semplicemente portare il Regno Unito fuori dall’Unione europea. Accomunare questi partiti e movimenti nell’im­magine unica dell’euroscetticismo è un errore grossolano e fuorviante.

Dobbiamo essere in grado di distinguere la critica all’Europa di un euro­peista dalla critica all’Europa di un antieuropeista. Io sono il primo criti­co dell’Europa, e penso che un cambiamento radicale sia indispensabile, ma nella direzione opposta a quella indicata dagli euroscettici. Credo che le soluzioni vadano cercate in un rafforzamento delle istituzioni co­munitarie, unico antidoto al riemergere degli egoismi nazionali e delle pulsioni centrifughe. Credo che solo insieme possiamo trovare risposte adeguate a questa crisi e che il male di questi anni sia stato principalmen­te la troppo poca e troppo tardiva solidarietà fra gli Stati europei.

Nei Trattati non c’è scritto come uscire dalla crisi e l’Unione non è riu­scita a imprimere una direzione chiara. Abbiamo subito un’Europa che si è spesso occupata di dettagli, ma ha lasciato da parte il senso profondo della sua missione, offrendo il fianco agli euroscettici. Mentre sugli argo­menti più importanti, la Commissione ha rimesso le chiavi dell’Europa ai ventotto Stati che, perseguendo prima di tutto l’interesse nazionale, hanno dimostrato l’inefficienza e l’incapacità di leadership in un inter­governamentalismo a somma zero. È arrivato il momento per la politica europea di tornare a osare: osare il cambiamento, osare la solidarietà, ma so­prattutto “osare la democrazia”. Dopo cinque anni di crisi, di frustrazioni, di disoccupazione crescen­te, mantenere lo status quo non è più un’opzione.

In molti mi hanno detto di aspettare, di non can­didarmi alla presidenza della Commissione euro­pea. Le motivazioni sono state numerose: l’Europa non è ancora pronta, come tedesco non potresti mai essere eletto, rischieresti di politicizzare la Commissione europea e incrinare gli oliati meccanismi della coopera­zione interistituzionale.

A tutte queste critiche ho risposto negativamente. Dopo la più impor­tante crisi economica e di fiducia della storia dell’Unione, potevamo continuare a ignorare il vacuum democratico nell’elezione della Com­missione? Se non ora quando? E perché non potrebbe un tedesco pre­sentare le sue idee per cambiare l’Europa ed essere votato o non votato in base alle sue proposte? E chi crede che la Commissione europea sia un organo apolitico, si sbaglia. La Commissione europea odierna riflette una maggioranza di centrodestra che esisteva al tempo della sua creazio­ne nel Consiglio europeo e nel Parlamento europeo.

La scelta di creare un vero dibattito europeo per le elezioni europee ha già dato i suoi frutti. Gli altri più importanti partiti politici europei – po­polari, liberali, verdi e la sinistra unitaria – hanno seguito l’esempio dei progressisti e hanno proposto un candidato alla presidenza.

Ci troviamo finalmente di fronte alla possibilità concreta di dare sostan­za e volto alla tanto invocata unione politica. I progressisti europei sono pronti a cogliere questa sfida e questa responsabilità, per ridare peso, voce e speranza ai cittadini europei, ai lavoratori, ai giovani, che credono che un’altra Europa è possibile. Anche per l’Europa, questa volta sarà... la volta buona.