Un utile strabismo; interventi di breve e lungo termine per l'economia meridionale

Di Gianfranco Viesti Lunedì 14 Gennaio 2013 14:57 Stampa

La fase recessiva degli ultimi anni ha particolarmente colpito il Mezzogiorno. La crisi può essere però l’occasione per ripensare al Sud e alle sue debolezze e ricercare con creatività soluzioni ai suoi problemi. Per far questo, occorre concentrarsi su alcune questioni fondamentali, da risolvere soprattutto valorizzando l’enorme capitale umano costituito dai tanti giovani che nel Mezzogiorno vivono e che sono ora senza prospettive. Si può partire da alcune prime proposte, semplici ed efficaci, consapevoli però che esse potranno non bastare se non saranno inserite in una strategia complessiva di investimento e di modernizzazione del Sud sul lungo periodo. È, quella dello sviluppo del Sud, una battaglia che può essere vinta solo combattendo su questo duplice fronte temporale.

Per un’Italia che vuole progressivamente lasciarsi alle spalle i tristi anni del berlusconismo e la crisi economica, occuparsi di Mezzogiorno è fondamentale. È nelle Regioni del Sud che l’economia italiana ha il maggior potenziale di crescita e la maggior parte della forza lavoro, spesso qualificata, non occupata e da impiegare a vantaggio dell’intera comunità nazionale. È la crescita del Sud che, contrariamente a quanto molti pensano, può fare da locomotiva, dato che ogni incremento di prodotto al Sud attiva una quota significativa di importazioni dalle altre Regioni.

Naturalmente, la questione non è di facile soluzione, dato che alle storiche difficoltà del contesto, dell’economia e della società si sommano gli effetti della prolungata depressione. L’ultima fase recessiva – a differenza di quella del 2008-09 – ha colpito in particolare il Mezzogiorno: si è concretizzata in una forte riduzione della domanda, sia nella componente privata che in quella pubblica, e in un conseguente calo dell’occupazione. Il minore lavoro ha aggravato le condizioni di molte fra le famiglie più deboli. Apparentemente, la società meridionale ha mostrato notevoli capacità di tenuta, nonostante il pessimo andamento degli indicatori economici. Ma questa tenuta andrà accuratamente verificata: una crisi così lunga può produrre effetti strutturali negativi sensibili, sommersi, che all’improvviso si traducono in sommovimenti sociali.

Non è facile, dicevamo. Allo stesso tempo, però, una grande crisi come quella che l’Italia sta attraversando è forse il momento migliore per provare a riflettere in modo non consueto, non banale. Non possiamo più permetterci di dare per scontata la debolezza dell’economia meridionale, di accettare il diffuso fatalismo per cui non ci sarebbe molto da fare. La grande crisi può essere l’occasione per ripensare a fondo forze e debolezze dell’Italia e del Sud (le stesse, più intense); per rompere l’assuefazione all’impossibilità del cambiamento. Per disegnare scenari ambiziosi e trasformazioni profonde. Non è facile, ma l’alternativa, adesso, è assai più pesante: rimanere impigliati a tempo indefinito nella depressione economica, con tutte le conseguenze, anche sociali, che possono scaturirne. Un po’ come in un dopoguerra, l’Italia dovrebbe essere capace di ritrovare, almeno in parte, lo spirito degli anni Cinquanta: la voglia di intrapresa e di trasformazione.

In tempi di economie deboli e di risorse pubbliche scarse, questa riflessione richiede una dose supplementare di intelligenza, di creatività, di semplicità, di rapidità; di capacità di individuare obiettivi prioritari, fattori scatenanti di reazioni positive. Potrebbe essere un buon esercizio per molti in Italia. Il punto è che oggi, a differenza del passato, una politica per il Sud deve essere fortemente strabica. Con un occhio deve guardare lontano, al lungo periodo, e quindi muovere in particolare in direzione delle grandi questioni che impediscono uno sviluppo accelerato: le infrastrutture, i servizi pubblici, la formazione e la ricerca, le semplificazioni. Con l’altro occhio deve guardare all’oggi, al breve periodo, e immaginare così una strategia di impatto immediato, per far ripartire l’economia. Lo richiedono le nostre limitate possibilità di azione. Ma, soprattutto, lo richiede il buon senso: guardare lontano come se fossimo a dieci anni fa spinge magari a disegnare interventi per un sistema delle imprese che intanto soccombe; guardare solo vicino può dare sollievo immediato, ma, senza incidere sui nodi di fondo, non apre prospettive diverse. Che senso ha investire sulle infrastrutture ferroviarie, quando intere parti del territorio (come la costa ionica) sono prive di servizio, per decisioni aziendali del gruppo Ferrovie dello Stato che non rispondono ad alcuna logica, né economica né politica? Annunciare grandi interventi senza garantire servizi minimi produce solo l’effetto di accrescere frustrazione e disillusione.

Il suggerimento è, dunque: concentrare l’attenzione su alcune questioni, fra le tante importanti. Mirare a un effetto immediato, ma che vada nella stessa direzione delle strategie di fondo. Con un filo politico che le leghi. La parola sul Mezzogiorno deve finalmente tornare alla politica, dopo un lunghissimo periodo di assenza. E la politica deve essere capace di rendere esplicito, davanti a tutti i cittadini italiani, un grande obiettivo comune: quello di dare al maggior numero possibile di giovani, ragazze e ragazzi del Mezzogiorno, l’opportunità di lavorare anche nelle loro città. Di valorizzare – a vantaggio dell’intera comunità nazionale – l’enorme patrimonio di saperi, di capacità, di creatività di cui sono portatori. Dopo anni di formule tecniche complesse, una formula politica chiara: più lavoro ai giovani del Sud come strada per portare l’Italia fuori dalla crisi.

Come riuscirci? Concentrando attenzione e risorse su alcune azioni, si è detto. Non è facile disegnarle ed è bene discuterne, perché solo con un attento confronto collettivo si può ridurre il rischio di errore, che è oggi particolarmente alto. Ma si può provare a lanciare qualche proposta; ad esempio, immaginare cinque mosse.

La prima è un intervento molto semplice, di riduzione del cuneo fiscale e contributivo per i nuovi assunti a tempo pieno e indeterminato nelle imprese meridionali (con un vincolo lungo – pena la restituzione dello sgravio – al mantenimento dell’occupazione). Intervento classico, ma mai così necessario come in questo momento. Intervento costoso per le finanze pubbliche: da sottoporre ad attenta valutazione ex ante sia per il suo impatto negativo immediato, sia per il suo impatto positivo nel tempo, attraverso il nuovo gettito che si determina. Il costo in termini di mancato gettito è significativo, ma va attentamente valutato – in un periodo di forte depressione economica – in termini di costi e benefici di medio periodo; va considerato il suo effetto moltiplicativo sui redditi, e quindi su consumi e produzione locale di beni e servizi, che può essere particolarmente forte sul gettito fiscale. Può essere immaginata una riduzione del cuneo su tutte le qualifiche, ovvero una riduzione più forte percentualmente per i lavoratori a bassa qualifica/basso reddito, con l’evidente scopo di creare lavoro a vantaggio delle famiglie più deboli, ovvero un intervento (o una gradazione di intervento) particolarmente mirato sulle donne. Ma possono essere attuati anche interventi diretti mirati a favore dell’assunzione di laureati e dottori di ricerca nelle aziende, specie manifatturiere, per rafforzare le loro capacità interne, ad esempio attraverso il cofinanziamento della retribuzione per un periodo (ad esempio biennale) di avvio. Così come un intervento diretto di finanziamento di assegni di ricerca e contratti da ricercatore a tempo determinato nelle università del Sud, che sono in via di spopolamento.

La seconda è un vasto, immediato programma di interventi di manutenzione straordinaria su edifici e suoli pubblici a scala urbana: efficientamento energetico, rimozione di barriere architettoniche, rifunzionalizzazione degli spazi esterni aperti al pubblico, con particolare, ma non esclusivo riferimento a scuole e università, tribunali, edifici sanitari, sedi delle pubbliche amministrazioni, stazioni minori, parcheggi di scambio. Il suo scopo di breve periodo è riattivare l’edilizia, che versa in drammatica crisi un po’ in tutto il paese ma in particolare nel Mezzogiorno, e, tramite i lavori edili, stimolare l’occupazione e quindi la domanda interna; ma anche attivare fiducia attraverso un insieme di lavori visibili ai cittadini e chiari nei loro obiettivi. Il suo scopo di più lungo periodo è quello di disporre di edifici assai più efficienti e ridurre così le spese di gestione, riscaldamento, raffrescamento e manutenzione ordinaria che gravano sui bilanci dei soggetti pubblici e in particolare delle amministrazioni locali. Ma anche quello di caratterizzare le aree urbane del Sud, di grande, media e piccola dimensione, con edifici in buono stato di conservazione (la situazione attuale è spesso opposta) e maggiormente fruibili, che testimonino la qualità della presenza dello Stato: una bella scuola al centro di ogni comunità, aperta tutti i giorni. Data la bassa complessità delle opere e delle relative procedure di gara, l’effetto può essere rapido. Possono essere immaginati meccanismi automatici per l’ammissibilità degli interventi a finanziamento (specie per quelli più piccoli): una procedura a sportello, ma con standard minimi da raggiungere di qualità e di utilità dei progetti, con chiavi di riparto e massimali di disponibilità per territorio che garantiscano un’equa distribuzione degli interventi, e con premialità per creare un meccanismo di competizione fra i soggetti proponenti. E, invece, procedure di analisi tecnica per quelli più complessi, ad esempio coinvolgendo i dipartimenti di architettura e di ingegneria delle università (del Sud o di tutto il paese). In questo senso, si può caratterizzare l’intervento anche sotto il profilo architettonico-urbanistico, come interventi di abbellimento degli spazi urbani comuni, mettendo al lavoro tanti giovani architetti e ingegneri.

La terza è un programma di potenziamento dell’export di beni e servizi. Il Mezzogiorno esporta beni e servizi, ma, detto in grande sintesi, il suo export complessivo è limitato, perché sono poche le imprese ma anche perché, soprattutto per le ridotte dimensioni aziendali e per i costi di accesso a nuovi mercati, l’export si dirige verso pochi paesi, vicini, in parte rilevante quelli che crescono di meno. Le aziende esportatrici meridionali hanno prodotti validi, come prova la circostanza che esportano in Germania, ma sono troppo piccole, come dimostra il fatto che spesso non riescono a esportare in Polonia o, ancor meno, in Turchia, Russia e Asia, cioè nei grandi mercati in crescita, in cui soprattutto la domanda da parte delle classi medie di beni alimentari e di consumo, o di mete turistiche aumenta esponenzialmente. Va usato quello che il Sud già oggi può offrire, riducendo il costo di accesso ai nuovi mercati. Questo può essere fatto con un programma molto intenso di missioni di operatori stranieri al Sud, organizzato insieme con l’ICE o con le grandi banche nazionali che hanno presenze estere: visite aziendali di operatori stranieri presso le aziende già esportatrici e le strutture turistiche; ancora meglio, con l’organizzazione di eventi espositivi-comunicativi B to B, per raggiungere economie di scala e dare maggiore visibilità all’operazione. Non costa molto e può avere un effetto forte e rapido.

La quarta possibile misura è un programma straordinario di creazione di nuova impresa e per l’autoimprenditorialità. La crisi ha aperto spazi nuovi per soddisfare la domanda pubblica e privata con beni e servizi migliori o con un migliore rapporto qualità-prezzo. Il mondo di internet apre spazi enormi, riducendo in parte il costo della perifericità. Il terzo settore può espandersi notevolmente in spazi interstiziali tra l’intervento pubblico e la domanda privata. Cosa serva fare è ormai chiaro ed è ben riportato anche nel documento “Restart Italia” prodotto dal governo Monti. Servono luoghi aggregatori per vincere l’isolamento di quanti provano a mettersi in proprio e per diffondere conoscenze e opportunità, come gli hub già presenti in alcune realtà; serve potenziare i liason offi ce delle università; serve ridurre i costi di avvio; serve catalizzare, anche attraverso operazioni culturalmente nuove, capitale diffuso verso queste iniziative. Bisogna chiedere ai padri di non cercare un posto ai figli, ma di contribuire con un piccolo capitale alla loro intrapresa. Va ripercorsa l’esperienza del passato dell’imprenditorialità giovanile e disegnato anche qui un intervento rapido, incisivo, su vasta scala: anche per favorire processi di comparazione e di apprendimento.

L’ultimo è un intervento che restituisca quel diritto alla mobilità che oggi nel Mezzogiorno è in larga misura negato e che rende più difficile la circolazione delle idee e delle persone e lo sviluppo delle imprese sui mercati. Una migliore mobilità ha bisogno di migliori reti infrastrutturali, cosa per cui è necessario tempo. Ma anche per date reti è possibile fare molto, lavorando sui servizi. I collegamenti aerei del Sud, per quanto migliorati con la riduzione del monopolio dell’Alitalia, sono ancora modesti; quelli ferroviari, in conseguenza del monopolio delle Ferrovie dello Stato, sono medievali. Con limitate risorse pubbliche, e nel rispetto delle regole europee di concorrenza, si possono attivare in tempi brevi nuovi collegamenti. Attraverso un bando pubblico si possono garantire incentivi – a operatori italiani o stranieri – per ogni passeggero trasportato su nuove tratte. Ferroviarie: per consentire ai meridionali (e ai visitatori esterni, per turismo o affari) l’ebbrezza di poter andare in treno da Napoli a Bari, o da Pescara a Cosenza, o da Palermo a Catania. Aeree: per consentire di spostarsi all’interno del Mezzogiorno con collegamenti da punto a punto e per collegare assai più intensamente le città del Sud con l’Europa e il Mediterraneo.

Nella stessa logica dei Piani di azione coesione del ministro Barca, possono essere interventi su cui confluiscano sia le risorse ancora disponibili dei programmi 2007-13 (che valgono fino al 2015), sia le prime risorse disponibili del nuovo ciclo di programmazione. Con questi fondi, le azioni, se preparate e avviate nel 2013, possono partire su vasta scala dal gennaio 2014. Rispetto al passato, serve concentrare assai più l’attenzione sul “che cosa” rispetto al “chi”. Sono tutti interventi che devono avere una forte regia, politica e tecnica, nazionale. Ma che, allo stesso tempo, devono vedere protagoniste, nella loro concreta attuazione (a esclusione degli sgravi), Regioni e amministrazioni locali.

Questo può costituire – in quel quadro – un pacchetto di intervento visibile, semplice, immediato. Basta? Assolutamente no; ha senso solo come elemento di punta di una complessiva strategia di lungo periodo di investimento e di modernizzazione del Sud, che tocchi temi noti e fondamentali: dai processi di apprendimento ai servizi di trasporto. Un programma serio per il 2014-20 che miri a rafforzare beni e servizi pubblici al Sud, ad avvicinarli a quelli del resto del paese, a ridurre i gap di dotazione e di efficienza. Creando così un po’ alla volta condizioni ordinarie di contesto più favorevoli allo sviluppo di impresa.

Questo programma d’insieme si può fare solo se si rimette ordine, dopo le devastazioni operate da Berlusconi e Tremonti, nel quadro finanziario di insieme, oggi estremamente preoccupante. Sul piano delle risorse ordinarie, la confusione regna sovrana. Ci sono parti attuative del federalismo fiscale varate e parti fondamentali oscure; ci sono regole del Patto di stabilità interno che impediscono la spesa. Il rischio evidente è che ogni risorsa aggiuntiva sia distorta, per necessità e in parte anche a ragione, per far funzionare ciò che già c’è. Rimettere ordine nel mare magnum della spesa pubblica ordinaria è il presupposto obbligato di ogni operazione di potenziamento strutturale.

Il quadro della spesa in conto capitale è ancora peggiore. Nell’insieme, è ai minimi storici, per gli stanziamenti e per i rallentamenti nelle erogazioni di cassa. Non si sfugge all’impressione che senza una golden rule, almeno interna, che escluda alcune spese in conto capitale dai vincoli del Patto di stabilità si possa fare ben poco. Nel Mezzogiorno sono ai minimi minimi. Non c’è più alcuna spesa ordinaria in conto capitale. Quella nazionale con finalità di riequilibrio regionale (i vecchi FAS, oggi FSC) è agli sgoccioli, dopo il massacro clientelare di Tremonti. Ci sono, per fare tutto, solo i fondi europei. Con regole e procedure estremamente più complesse e tempi di attuazione allungati, meramente sostitutivi – e solo in parte – di mancata spesa ordinaria nazionale. È del tutto evidente, anche da questo punto di vista, che, in questo scenario, qualunque progetto per la crescita è velleitario.

Serve – su questo come su altro – un nuovo patto fra gli italiani, che disciplini la spesa corrente verso equità, responsabilità, efficienza e qualità dei servizi; che disciplini la spesa in conto capitale indirizzandola più che proporzionalmente dove le dotazioni sono infinitamente minori. Questo patto deve essere credibile. Per questo, va accompagnato da un pacchetto di idee semplici e immediate, magari del tipo di quelle che sono state descritte in precedenza. E da una semplice idea politica di fondo: dare opportunità di lavoro ai giovani. Per tornare a crescere bisogna riaccumulare fiducia. Per questo bisogna essere strabici: perché solo guardare anche all’oggi può consentire di guardare insieme anche al domani.