Il liberismo e l’illusione della crescita infinita

Di Roberto Artoni Venerdì 13 Aprile 2012 14:51 Stampa

Secondo la visione economica liberista l’assenza di vincoli all’azione individuale in un contesto di piena concorrenza può consentire il prodursi di una crescita pressoché infinita. In questo quadro, in cui gli assetti distributivi e produttivi migliori dovrebbero prodursi spontaneamente, nessuna funzione positiva viene attribuita all’intervento politico, alla sua azione redistributiva, al suo tentativo di realizzare forme di coesione sociale, elemento imprescindibile di ogni società sviluppata.

 

Innanzitutto conviene individuare le caratteristiche fondamentali di quella corrente di pensiero e di politica economica che viene oggi etichettata come liberismo. L’elemento fondante è costituito dalla grande, tendenzialmente sconfinata fiducia nel buon funzionamento delle dinamiche del mercato, una volta garantita l’esplicazione di tutti i meccanismi concorrenziali. D’altro canto, situazioni di crisi o di non piena utilizzazione delle risorse possono solo derivare dalla presenza di elementi monopolistici nel funzionamento del sistema (siano essi coalizioni di produttori o sindacati dei lavoratori) o dalle distorsioni riconducibili all’azione della classe politica, i cui interventi, qualunque siano le intenzioni alla base, interferiscono con la spontanea evoluzione del sistema.

L’inquadramento più sofisticato delle opzioni liberiste deve essere attribuito a Friedrich Hayek, scienziato sociale fra i maggiori del secolo scorso. Per Hayek i limiti insuperabili delle conoscenze umane sulla natura e le implicazioni dei processi sociali (l’opera sua si è sviluppata parallelamente alle esperienze di pianificazione dell’Unione Sovietica), associati all’impossibilità di prevedere gli esiti delle azioni politiche, rendono in linea generale controproducente ogni tentativo di correggere gli assetti produttivi e distributivi che si sono venuti spontaneamente formando. Lo stesso concetto di giustizia sociale deve essere respinto per due motivi: in primo luogo, perché sul piano fattuale i tentativi di realizzare la giustizia si sono risolti nell’introduzione di norme che danneggiano le minoranze a favore delle maggioranze politiche; in secondo luogo, perché ogni tentativo di dissociare la remunerazione dallo sforzo individuale deve essere respinta sul piano dei principi etici che devono essere posti alla base della vita collettiva.

La visione liberista può dunque essere interpretata come un’indicazione di crescita infinita, nel senso che l’assenza di vincoli all’azione individuale (se non quelli riconducibili al rispetto dei contratti e alla repressione dei comportamenti fraudolenti) in un contesto tendenzialmente concorrenziale (che a sua volta garantisce la sopravvivenza dei più meritevoli) consente la più completa realizzazione delle potenzialità che risorse naturali e conoscenze tecnologiche rendono possibili in una determinata fase storica.

Ovviamente un’impostazione così ottimistica dal punto di vista delle prospettive di lungo periodo di un sistema capitalistico, ma così negativa per quel che riguarda le possibilità d’intervento migliorativo da parte degli organismi politici, non poteva non suscitare reazioni anche fortemente critiche.

Come primo esempio di contrapposizione possiamo qui ricordare la distinzione chiaramente posta da Benedetto Croce fra liberalismo e liberismo. Scrive Croce: «Il principio del liberalismo è quello della sempre maggiore elevazione della vita, e pertanto della libertà, senza cui non è concepibile né elevazione, né attività». In questo contesto molti provvedimenti tendenti a limitare la libertà economica, e pertanto antiliberisti, devono essere giudicati positivamente in un ambito di liberalismo, in quanto migliorativi della condizione umana e quindi della consapevolezza individuale. In altri termini, la coesione sociale è un elemento imprescindibile di una società sviluppata, che meccanismi di mercato tendenzialmente incontrollati possono compromettere con riflessi anche sulla stessa vitalità economica.

Ma è sul piano storico, e della successiva elaborazione da parte degli scienziati sociali, che è emersa la più significativa critica alle tesi liberiste. Il progresso economico degli ultimi due secoli è stato caratterizzato da profonde trasformazioni sociali che hanno di fatto imposto l’adozione di provvedimenti correttivi del funzionamento dei sistemi capitalistici; nello stesso tempo la tendenza delle economie capitalistiche a procedere secondo cicli economici anche profondi ha indotto a configurare interventi tendenti a garantire un’adeguata utilizzazione delle risorse.

Conviene soffermarsi su questi aspetti che permettono anche di delineare le opzioni di politica economica alternative sulla base delle quali i governi potranno fronteggiare la crisi in corso.

L’esperienza della Grande Crisi ha portato all’interpretazione keynesiana del funzionamento dei sistemi capitalistici, fondata sul fatto che il livello della domanda aggregata (costituita dalla somma di consumi privati e pubblici, investimenti privati e pubblici ed esportazioni al netto delle importazioni) è determinata da fattori diversi e autonomi rispetto alle potenzialità produttive di un paese, la cosiddetta “offerta aggregata”. In alcuni casi domanda e offerta tenderanno a uguagliarsi a un livello tale da garantire una sostanziale piena occupazione; in altri casi, al contrario, le componenti autonome della domanda saranno inadeguate, per eccesso o per difetto, e quindi si manifesteranno riduzioni dei livelli di attività o fenomeni inflazionistici. In questo quadro concettuale, che riflette le esperienze storiche dei paesi sviluppati, compito delle autorità di politica economica è quello di gestire in modo consapevole l’evoluzione macroeconomica, evitando la perpetuazione e l’autoalimentazione degli squilibri. Deve essere comunque sottolineato che non tutte le modalità di sostegno della domanda aggregata consentono il raggiungimento di equilibri sostenibili nel tempo (sotto questo aspetto alcune delle suggestioni di Hayek hanno una loro validità).

Possiamo elaborare questo punto considerando la vicenda macroeconomica degli Stati Uniti negli ultimi due decenni, dove si è prodotta una rilevante redistribuzione del reddito a favore delle classi più agiate in un quadro di sostanziale stagnazione delle retribuzioni di larga parte dei lavoratori dipendenti. È intuitivo che processi redistributivi di questa natura portano a una riduzione della domanda di consumo e quindi a effetti recessivi attraverso la caduta della domanda aggregata. Gli effetti recessivi non si sono tuttavia manifestati perché a fronte della stagnazione delle retribuzioni è stato attivato un gigantesco meccanismo di espansione dell’indebitamento delle famiglie, soprattutto per mezzo di finanziamenti molto generosi degli acquisti di immobili a prezzi via via crescenti. Tutto ciò ha consentito il mantenimento di livelli soddisfacenti di utilizzo delle risorse all’interno di quel paese (la disoccupazione è stata contenuta) ed è andato indirettamente a beneficio dei paesi che hanno incrementato le loro esportazioni verso gli Stati Uniti in contropartita del rilevante disavanzo dei conti con l’estero.

Un meccanismo di sostegno della domanda quale quello descritto non era evidentemente sostenibile, come si è infatti verificato con lo scoppio della bolla finanziaria nel 2008 e la successiva recessione diffusasi con diversa intensità in tutti paesi occidentali. Di fronte a questa crisi due sono stati gli atteggiamenti delle autorità di politica economica nei diversi paesi. Da un lato, gli Stati Uniti in particolare hanno adottato politiche di sostegno della domanda aggregata sotto forma di un forte aumento del disavanzo pubblico; per questa via, che non è certamente risolutiva nel lungo periodo, hanno evitato un aggravamento della crisi economica: oggi gli Stati Uniti registrano una sia pur modesta crescita economica con effetti benefici sull’occupazione. In contrapposizione al keynesismo degli Stati Uniti, i paesi europei hanno scelto la via dell’annullamento progressivo dei disavanzi pubblici, ritenendo che la cosiddetta “austerità”, attraverso un processo di fatto deflazionistico, ricostituisca, non si sa a quale livello di attività, una qualche forma di equilibrio. In sostanziale coerenza con il liberismo di matrice hayekiana, questa impostazione ritiene che gli squilibri vengano dal settore pubblico e da livelli salariali eccessivamente elevati; solo il ridimensionamento di questi squilibri e il ristabilimento dell’ordine naturale potrà consentire la ripresa del processo di sviluppo. Molti pensano, al contrario, che le politiche porteranno all’innesco di circoli viziosi con potenziali gravi conseguenze di ordine sociale (come si è verificato negli anni Trenta). Nella storia appena raccontata è implicito il richiamo alla centralità degli aspetti distributivi in ogni analisi del funzionamento dei sistemi capitalistici. L’impostazione liberista ritiene che la distribuzione appropriata del reddito emerga naturalmente a condizione che le interferenze sindacali non allontanino dagli assetti appropriati. In piena coerenza, tutti i governi conservatori negli ultimi decenni, soprattutto nei paesi anglosassoni, hanno assunto a obiettivo la delimitazione del cosiddetto “potere sindacale”, limitando in particolare il ruolo della contrattazione collettiva. Alla base di questa impostazione sta la convinzione che nel rapporto di lavoro sia comunque verificata una sorta di uguale potere contrattuale del singolo lavoratore e del datore di lavoro.

In forte contrapposizione si sostiene invece che è importante, anche per un buon andamento macroeconomico, che la distribuzione primaria del reddito fra i partecipanti al processo produttivo sia equilibrata. In questo senso gli istituti del mercato del lavoro, formatisi attraverso un processo plurisecolare, sono il presupposto ineliminabile per un buon funzionamento del sistema economico e sociale nel suo complesso. In questo contesto è centrale anche il ruolo dello Stato nella fornitura di servizi sociali essenziali, che svolgono una funzione integrativa del salario percepito in forma monetaria e proteggono contro i grandi rischi dell’esistenza. Il ruolo sostanziale del welfare State nella forma assunta in Europa è appunto quello indicato. Non a caso, i paesi che hanno retto meglio alla crisi in corso sono quelli in cui sono più sviluppati gli istituti dello Stato sociale; non a caso l’Italia è, fra i maggiori paesi europei, non solo quello che negli ultimi quindici anni ha avuto il tasso di crescita più insoddisfacente, ma anche quello in cui l’indice di concentrazione del reddito è il più elevato in Europa, anche a seguito della precarizzazione del mercato del lavoro derivata dalle riforme cominciate nei primi anni Novanta e proseguite negli anni successivi.

Nel quadro hayekiano-liberista una componente fondamentale è costituita dalla grande fiducia riposta nella capacità di autoregolamentazione e di delimitazione del rischio dei mercati finanziari. Gli operatori in questi mercati, si sostiene, sono infatti in grado di allocare in modo efficiente le risorse finanziarie e, fatto ampiamente sottolineato, di controllare i comportamenti dei singoli Stati, sanzionando qualsiasi comportamento deviante. Ovviamente lo svolgimento di queste funzioni richiede che sia garantita la piena libertà di movimento dei capitali. Se si vuole, la storia finanziaria del dopoguerra è stata segnata dal progressivo smantellamento dei controlli sui movimenti di capitale, soprattutto a breve, previsti dagli accordi di Bretton Woods e dall’assunzione di un ruolo politico sempre più pregnante da parte delle grandi case finanziarie anglosassoni.

Anche se si può e si deve riconoscere l’importanza in senso positivo dell’integrazione finanziaria internazionale, l’esperienza più recente, anche con rifermento ai paesi sviluppati, dimostra quanto sia ingenua la visione sopra descritta. Le componenti speculative, in un contesto non opportunamente regolamentato, possono assumere dimensioni imponenti, travolgendo qualunque barriera; le aspettative che si formano sui mercati finanziari tendono per loro stessa natura, anche per il carattere scarsamente concorrenziale di questi mercati, ad autorealizzarsi imponendo scelte di politica economica incompatibili con qualsiasi ipotesi di crescita o di coesione sociale. Tutto ciò è chiaramente evidente nell’esperienza più recente; si dimostra implicitamente la saggezza dei padri fondatori del sistema monetario che ha governato il mondo nel secondo dopoguerra, fino al momento in cui interessi privati nella sfera finanziaria hanno prevalso su qualunque altra considerazione.

In conclusione, sembra difficile sostenere, anche se è ancora oggi l’opinione prevalente in Europa, che il liberismo sia il meccanismo cui ricorrere per realizzare una crescita infinita. Sarebbe preferibile adottare un liberalismo nel senso in cui lo intende Croce, associato agli insegnamenti tratti dalla storia economica e alle elaborazioni della migliore teoria economica, che non è quella oggi dominante.