Concreta, forte e autorevole: una scuola a misura di presente

Di Giulio Ferroni Lunedì 12 Marzo 2012 16:19 Stampa

Di fronte all’impatto della crisi attuale, le generazioni future saranno chiamate a un compito di radicale correzione del modello di sviluppo seguito negli ultimi decenni. Una scuola davvero autorevole, pertanto, dovrebbe partecipare alla formazione di una nuova dimensione morale e fornire alle giovani generazioni gli strumenti per confrontarsi con le difficoltà e la complessità del presente.


Si ripete sempre che quello della scuola e dell’educazione è il nodo più cruciale per il destino delle società moderne, che tocca in profondità il loro equilibrio vitale, il loro proiettarsi verso un futuro in cui è in gioco la loro stessa persistenza. Tutti sono naturalmente pronti a riconoscere questa urgenza: ma ciò dà luogo, tra affermazioni di principio e lamentosi rilievi polemici, a interventi occasionali, a progetti e tentativi di riforma incongrui ed esteriori (quando non segnati da miope parzialità ideologica), tutto perlopiù a costo zero o addirittura sotto zero, dato che le urgenze economiche più immediate impongono tagli e ridimensionamenti di ogni sorta, che si scaricano sulle spalle di una classe docente sempre più umiliata ed emarginata nel contesto sociale.

Al di là delle insistenti dichiarazioni di principio, nell’opinione corrente e nella vulgata giornalistica la scuola (qui mi riferirò in particolare alla scuola secondaria) viene in realtà percepita come un luogo di parcheggio per le giovani generazioni, a cui si chiede una riproduzione auspicabilmente non problematica (senza fastidi per le famiglie) dell’esistenza quotidiana, accompagnata da una indeterminata acquisizione di saperi da impiegare poi nel mondo del lavoro (anzi, “spendibili sul mercato del lavoro”: ma qui scattano prospettive diverse per diversi ordini di scuole, con discriminazioni di classe che stanno peraltro diventando di sempre maggiore durezza). Ma quando si constata che anche su questi fronti le cose non procedono in modo soddisfacente, scattano richieste, ipotesi, istanze di vario genere, che riguardano sia le condizioni materiali (la mancanza di mezzi, gli edifici fatiscenti ecc.), sia soprattutto la necessità di un adeguamento alle esigenze del presente: accusata di essere troppo vecchia, di appoggiarsi su metodi, procedure, modi di rapporto ormai antiquati, la scuola viene invitata a mettersi al passo, soprattutto con la modernità (che ciascuno ovviamente intende a modo proprio), con l’emergenza delle tecnologie, le abitudini mentali e percettive delle nuove generazioni, che molti (con impagabile compiacimento) vedono costituite da “nativi digitali” e pertanto da guidare sempre più sulla strada della connessione veloce, dell’interazione trasversale, dell’ipermedialità ecc. Alle misure e ai tempi lenti dell’orizzonte scolastico, alla irriducibile fisicità della classe e dei rapporti immediati che vi si costituiscono (primo fra tutti quello docente-studente), alla staticità delle discipline tradizionali, si oppone l’istanza della digitalità, della virtualità, della continua permutabilità dell’esperienza, magari con la rottura delle pareti scolastiche e, in prospettiva, con l’eliminazione della figura del docente. Ciò trova sostegno nelle teorie pedagogiche che, insistendo sul rilievo astratto delle “competenze”, a scapito dei contenuti delle discipline, mirano a una sorta di virtualizzazione dei saperi, considerati come automaticamente disponibili e liberamente raggiungibili, consumabili, scambiabili, a prescindere dal reale controllo della loro consistenza.

Indipendentemente da ogni valutazione ideologica che si possa dare di queste istanze di adeguamento della scuola all’orizzonte del presente (e del modello di società a cui esse fanno riferimento), oggi possiamo percepire una sfasatura tra le ipotesi di sviluppo, i presupposti mentali su cui esse si basano e la realtà della crisi recente, che ha aperto nel panorama economico, sociale e culturale dell’Occidente falle che appaiono irreversibili: avvertiamo la necessità di correzioni radicali e di inedite modalità di intervento, fuori dalla spirale del consumo illimitato e della dilapidazione delle risorse. Si sta delineando un orizzonte storico-sociale che mette in questione non solo il modello dell’espansione economica illimitata, ma anche quello parallelo della permutabilità infinita dell’esperienza e del rapporto con il mondo. Se l’economia per ora risponde con una richiesta di sempre maggiore flessibilità, le difficoltà che si delineano richiedono al contrario un approfondimento di coscienza critica, una disponibilità a confrontarsi con la resistenza materiale del mondo e con il nucleo “duro” dei saperi, un ritorno di fisicità e di concretezza. Di fronte all’impatto della crisi, a nuove situazioni di malessere e di disgregazione, il senso della vita non può più identificarsi con la disponibilità di spazi e possibilità, con l’inseguimento della crescita a tutti i costi. Le generazioni future saranno chiamate a compiti di radicale correzione del modello di sviluppo seguito negli ultimi decenni: dovranno sapersi sottrarre al richiamo dell’egoismo e del consumismo sfrenati, al carico di violenza che esso porta con sé, alla lotta senza quartiere di una concorrenza puramente egoistica; dovranno essere in grado di affrontare le difficoltà che già adesso si stanno delineando, di saper resistere e reagire ai nuovi livelli di insicurezza. E in primo luogo sarà determinante una nuova dimensione morale, una nuova disponibilità all’impegno nella costruzione dell’esperienza.

Ma cosa c’entra la scuola con tutto questo? In effetti nella scuola, che è il solo ambiente istituzionale necessariamente frequentato dalle giovani generazioni, vengono a formarsi e a svilupparsi quei modelli di comportamento che dovranno fare i conti con il tempo che verrà. Essa non può essere un’istituzione assolutamente “neutra”: aperta e plurale, deve riuscire a collegare in un nesso strettissimo coscienza del passato, esperienza del presente e prospettive per il futuro, in termini compatibili con diverse prospettive ideologiche e religiose, ma rivolgendosi comunque verso orizzonti effettivamente praticabili, solidali, condivisibili.

La scuola non deve vendere sogni, non deve offrire immagini illusorie della realtà naturale e sociale. Le immagini di scuola “perfetta” che in varie modalità circolano nella feconda immaginazione dei pedagogisti risalgono a un’idea di società che non è quella che realmente abbiamo davanti: si inscrivono dentro un’immagine di mondo in perpetuo sviluppo, in accrescimento continuo delle possibilità di benessere e consumo, di velocità, di facilità e alleggerimento, dove tutti i beni e tutti i saperi sono lì, disponibili senza fatica (basta un clic e ci troviamo dappertutto, possiamo acquisire e far nostra qualsiasi conoscenza), entro un modello di integrazione sociale ottenibile senza conflitto e senza pagare scotto. L’evanescenza di ogni autorità viene sancita con l’invocazione insistente del punto di vista degli studenti, visti come partecipi di una collettività felicemente collaborativa (mentre è ben evidente che ogni studente è un soggetto a sé e che le singole individualità si definiscono anche nel conflitto, nello scontro e nella differenza).

Al contrario, oggi più che mai abbiamo bisogno di una scuola che sappia garantire la coscienza del limite, della distanza, della difficoltà del sapere, delle contraddizioni in cui è inviluppato il mondo e del modo in cui, ogni momento, queste contraddizioni chiamano in causa anche e soprattutto le giovani generazioni. Di fronte alla diffusione di quei modelli illusori di vita e di società che si sono sempre più insinuati nel senso comune (e da noi in modo del tutto particolare, sotto la spinta del berlusconismo), la scuola è ancora, nonostante tutto e tra tante falle, luogo di resistenza della democrazia: e ciò è dovuto paradossalmente proprio a molte delle cose che oggi si rimproverano alla scuola pubblica (i suoi stessi caratteri desueti, il suo essere “vecchia”, la sua non rispondenza alle richieste dell’attualità). Per questo essa è stata sottoposta a vari attacchi contro il suo orizzonte laico, nazionale, pubblico, orientati a favorire le scuole private.

Allora non si tratterà di rivoltare la scuola attuale come un guanto, ma di investire in essa quelle risorse che le sono sempre più sottratte, per far uscire gli ambienti scolastici dallo stato depresso e fatiscente in cui si trovano, per potenziarla nelle sue qualità sempre più ridotte e minacciate. Naturalmente è essenziale la disponibilità di tutti i mezzi tecnici d’avanguardia: non si dovrà certo prescindere dalla più avanzata strumentazione informatica, da una piena disponibilità della rete, da dischi e software funzionali alle diverse discipline. Ma è chiaro che tutto ciò non può andare a scapito dei saperi e delle metodologie “tradizionali” che, nelle materie più diverse, forniscono il senso della distanza, del controllo critico, del confronto con la resistenza degli oggetti, del riconoscimento dell’alterità. Materie scientifiche e materie umanistiche rischiano una pericolosa evanescenza quando su di esse si sovrappongono acriticamente le istanze della leggerezza, della trasversalità, della permutabilità illimitata: la scuola non può favorire una pericolosa sopravvalutazione delle nuove tecnologie, può e deve sfuggire a ogni disinvolta virtualizzazione del sapere. Le nuove generazioni saranno capaci di confrontarsi con la difficoltà e la complessità del mondo, assumendosi la responsabilità del suo destino, solo se sapranno agire sulla durezza materiale degli oggetti del mondo, della cultura che li interpreta, della scienza che li interroga, della tecnica che li trasforma: in piena familiarità con i fondamenti istituzionali di discipline che sono fatti di dati concreti, di strutture, di interconnessioni, di percorsi complessi e problematici, identificabili più attraverso procedure lente e impegnative, che nella fulminea immediatezza del “tempo reale”.

Non è possibile uno sviluppo di competenze senza un diretto confronto con le nozioni che quelle competenze devono mettere in gioco. Non è possibile un learnig by doing senza toccare la consistenza degli oggetti su cui si deve operare. Non è possibile conoscere la geografia d’Italia senza avere la nozione della configurazione fisica delle diverse regioni, con i nomi e la collocazione di luoghi e città, con un’individuazione della loro precisa posizione sulla carta ecc. Non è possibile conoscere la storia senza avere una coscienza della sua scansione cronologica, di dati e date specifiche degli eventi più determinanti. Non è possibile conoscere la letteratura senza leggere i testi, senza avvertirne la distanza storica e senza comprenderne i livelli lessicali e la complessità sintattica e logica. E per le discipline tecniche e scientifiche il rapporto con la concretezza delle nozioni è ancora più determinante e immediatamente identificabile. Si tratta di constatazioni ovvie e banali: ma chi conosce la scuola da vicino sa bene come tutto ciò sia stato contrastato dall’astratta insistenza su metodi e “competenze”, che ha fatto evaporare il rapporto con la dura resistenza delle discipline, con il difficile percorso di penetrazione nel loro corpo, che è sempre essenziale per uno studio credibile.

Esiti disastrosi può avere l’inseguimento a tutti i costi della presunta attualità, di tutto ciò che si configura automaticamente come imprescindibile modo di essere di un presente in corsa verso il futuro (sotto la spinta del mercato, della pubblicità, del senso comune mediatico): di fronte alle continue mutazioni in cui è presa la stessa vita quotidiana, e a cui naturalmente non si sfugge, la scuola dovrebbe salvaguardare piuttosto l’esigenza della persistenza, il senso dell’essenziale, la cura della distinzione, di quello che un tempo si chiamava “valore”. Nel contesto italiano acquista rilievo particolare la conoscenza della tradizione culturale, artistica e scientifica che ha costituito il nostro paese nel suo sviluppo storico: se il modello televisivo-pubblicitario e il diffuso egoismo particolaristico tendono a un annullamento della memoria storica, la cura per le grandi tradizioni culturali (nella loro apertura internazionale: oggi troppo trascurate sono la storia dell’arte, la cultura musicale, le lingue e letterature straniere!) può dare un contributo essenziale per la formazione di cittadini capaci di discriminare livelli diversi di esperienza, di valutare criticamente la propria posizione nel mondo, di aprirsi verso la difficile e conflittuale pluralità del presente. Sono cose che non sono in nessun modo quantificabili e per cui non mi sembrano credibili quelle procedure di valutazione che oggi imperversano in Europa e nel mondo e che, piuttosto che correggere le falle dei nostri sistemi educativi, agiscono come strumento tendenzialmente punitivo e aggiungono nuovi danni e storture (ma il tema della valutazione, anche per gli effetti deflagranti che assume sul piano politico ed economico, meriterebbe ovviamente una riflessione a parte). Certo una scuola “forte”, con un rigore istituzionale che la riconduca a quel prestigio che negli ultimi decenni le è stato sottratto (ma a tal proposito avrebbero un ruolo centrale la formazione, l’arruolamento e il trattamento economico degli insegnanti), costituirebbe un essenziale antidoto a quella diffusa cialtroneria collettiva di cui purtroppo si sono visti tanti esempi recenti e che ha intaccato in modo così preoccupante il prestigio internazionale del nostro paese. Una scuola davvero autorevole potrebbe far scaturire dalle discipline insegnate, dalla coscienza critica elaborata al loro interno, un diretto esercizio di educazione civica, ne farebbe una diretta sperimentazione di moralità pubblica. Per questo sarebbero necessari vigorosi interventi strutturali, spinti dalla coscienza del carattere estremo della situazione: ma rimaniamo fermi a iniziative di facciata, mentre, tra sussulti ribellistici e accidiosa gestione della quotidianità, la nostra scuola continua a essere umiliata, marginalizzata, impoverita.