I diritti delle coppie di fatto

Di Stefano Rodotà Martedì 22 Novembre 2011 18:31 Stampa
I diritti delle coppie di fatto Illustrazione di Emanuele Ragnisco

Nonostante la Costituzione affermi chiaramente il diritto di tutti i cittadini all’eguaglianza e alla dignità sociale, in Italia il riconoscimento delle coppie omosessuali stenta ad affermarsi. È tempo di superare pregiudizi ideologici e fondamentalismi: per quanto imperfetta, la sentenza 138/10 della Corte costituzionale rappresenta un buon punto di partenza per ripensare la questione delle unioni civili.

Consideriamo il tema delle unioni non coniugali dal loro orizzonte estremo, quello delle coppie costituite da persone dello stesso sesso. Estremo, perché qui più che altrove si addensano preclusioni e pregiudizi, pretese etiche e indicazioni costituzionali. E lo spettro delle unioni omosessuali inquina la discussione, nega ogni possibilità di affrontare qualsiasi disciplina che si allontani da quella matrimoniale. Lascia così l’Italia in un limbo incivile dal quale, da anni, non riesce a uscire. Sciogliere questo nodo significherebbe avviare in via generale la soluzione del problema. È possibile, anzi obbligatorio, farlo, perché la linea costituzionale è ormai nitidamente tracciata.

Lo sguardo del diritto aiuta spesso a cogliere il fondo delle cose. Così è certamente per tutto quel che riguarda il sesso, per quelle che, dal Trattato di Maastricht fino all’articolo 21 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, compaiono come “tendenze sessuali”, che mai possono essere poste a fondamento d’una discriminazione. Ma non è solo questione di eguaglianza. È anche, per certi versi soprattutto, questione di dignità. Non è un caso. Dopo la rivoluzione dell’eguaglianza, infatti, i tempi più recenti hanno conosciuto la rivoluzione della dignità. «La dignità umana è inviolabile. Essa deve essere rispettata e tutelata»; così si apre la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. Ma la nostra Costituzione ci dà una indicazione ancora più precisa. La norma sull’eguaglianza, l’articolo 3, si apre con parole particolarmente forti e significative: «Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale». Eguaglianza e dignità, dunque, non possono essere separate, e quest’ultima si presenta immediatamente come dignità “sociale”, dunque come principio che regola i rapporti tra le persone, il nostro essere nel mondo, il modo in cui lo sguardo altrui si posa su ciascuno di noi. Per dirla con Jean-Paul Sartre: «Le Juif dépend de l’opinion pour sa profession, ses droits et sa vie».1

Torniamo alla Carta dei diritti fondamentali, ormai giuridicamente vincolante dopo l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, e al modo in cui essa affronta il problema. L’articolo 21 contiene l’elenco, peraltro non esaustivo, delle cause di discriminazione: si apre con il riferimento al sesso e si chiude con quello alle tendenze sessuali. Ora, mentre il primo riflette piuttosto la tradizionale differenza di genere, con il riferimento alle tendenze sessuali siamo di fronte a una soggettivizzazione. Ciò che viene in evidenza, e quindi mai può divenire causa di discriminazione, è il modo in cui ciascuno costruisce la propria personalità anche per ciò che concerne i profili sessuali e affettivi. Ma l’attenzione deve poi essere rivolta all’articolo 9, che riguarda in generale le unioni ed è uno dei più innovativi dell’intera Carta.

Qui, infatti, si stabilisce che «il diritto di sposarsi e il diritto di costituire una famiglia sono garantiti secondo le leggi nazionali che ne disciplinano l’esercizio». La distinzione tra «il diritto di sposarsi» e quello «di costituire una famiglia» è stata introdotta proprio per consentire la costituzione legale di unioni distinte da quelle matrimoniali, comprese quelle tra persone dello stesso sesso. Il passo avanti rappresentato dalla Carta e la discontinuità che essa introduce diventano ancora più evidenti se si fa un confronto con quel che dispone l’articolo 12 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo del 1950, dov’è scritto che «uomini e donne in età adatta hanno diritto di sposarsi e di costituire una famiglia secondo le leggi nazionali che disciplinano l’esercizio di tale diritto». Confrontando questo articolo con quello della Carta, si colgono differenze sostanziali. Nella Carta scompare il riferimento a «uomini e donne». Non si parla di un unico «diritto di sposarsi e di costituire una famiglia», ma si riconoscono due diritti distinti, quello di sposarsi e quello di costituire una famiglia. La conclusione è evidente. Nel quadro costituzionale europeo, al quale l’Italia deve riferirsi, esistono ormai due categorie di unioni destinate a regolare i rapporti di vita tra le persone, che hanno analoga rilevanza giuridica, e dunque medesima dignità. Non è più possibile sostenere che esiste un principio riconosciuto – quello del tradizionale matrimonio tra eterosessuali – e una eccezione (eventualmente) tollerata – quella delle unioni diversamente regolate, comprese quelle omosessuali. E questo è un argomento che vale in primo luogo per contrastare le interpretazioni tendenti a ritenere che il legislatore italiano sia obbligato a restare rinserrato nel fortilizio del tradizionale istituto matrimoniale.

La Corte costituzionale, con la sentenza 138/10, ha riconosciuto la rilevanza delle unioni omosessuali, poiché siamo di fronte a una delle «formazioni sociali» di cui parla l’articolo 2 della Costituzione. Da questa constatazione la Corte trae una conclusione importante: alle persone dello stesso sesso unite da una convivenza stabile «spetta il diritto fondamentale di vivere liberamente una condizione di coppia, ottenendone – nei tempi, nei modi e nei limiti stabiliti dalla legge – il riconoscimento giuridico con i connessi diritti e doveri ». Sono parole impegnative: un «diritto fondamentale » attende il suo pieno riconoscimento. Non è ammissibile, dunque, la disattenzione del Parlamento, perché in questo modo si privano le persone di diritti costituzionalmente garantiti.

Vi è poi una seconda affermazione, che mostra come non sia corretto prospettare una incompatibilità assoluta tra il modello del matrimonio tradizionale e quello dell’unione omosessuale. È sempre la Corte che parla: «Può accadere che, in relazione a ipotesi particolari, sia riscontrabile la necessità di un trattamento omogeneo tra la condizione della coppia coniugata e quella della coppia omosessuale». Una barriera è caduta. Il Parlamento non potrà usare l’argomento, utilizzato in passato, di un presunto obbligo di non creare “contiguità” tra disciplina del matrimonio e disciplina delle unioni di fatto. La Corte, inoltre, dichiara esplicitamente di voler vegliare sul modo in cui il Parlamento darà attuazione a quanto stabilito nella sentenza.

In un paese che onora la civiltà della discussione e rispetta i diritti delle persone, queste dovrebbero essere le linee guida per il legislatore. Poiché, invece, questi temi sono ormai oggetto della prepotenza ideologica di chi vuole imporre i propri valori, definendoli non negoziabili, può essere utile ricordare che il mondo cattolico non è riducibile alle gerarchie vaticane e a chi se ne fa portavoce. Nel 2008 la rivista dei gesuiti, “Aggiornamenti sociali”, ha pubblicato una serie di scritti sulle unioni omosessuali, con i quali si può dissentire su alcuni punti, ma che prospettano una conclusione assai impegnativa. Al politico cattolico si dice che «non spetta al legislatore indagare in che modo la relazione viene vissuta sotto altro profilo che non sia quello impegnativo dell’assunzione pubblica della cura e della promozione dell’altro». E si sottolinea che, una volta riconosciuto il valore sociale della convivenza, «risulterebbe contrario al principio di uguaglianza escludere dalle garanzie certi tipi di convivenze, segnatamente quelle tra persone dello stesso sesso». Poiché si tratta di diritti fondamentali della persona, il riconoscimento «è istanza morale prima che garanzia costituzionale».2

Vi è un vincolo formale insuperabile che obbliga la Corte costituzionale a tenere la linea manifestata nella sentenza del 2010, che molti commentatori hanno definito “pilatesca”? I giudici costituzionali italiani, infatti, hanno ritenuto che non spettasse loro andare oltre un generale riconoscimento dei diritti delle coppie costituite da individui dello stesso sesso, rinviando così a un intervento del legislatore il riconoscimento del matrimonio tra queste persone. Un breve sguardo al di là dei nostri angusti confini ci dice che si può seguire una strada diversa. Due giorni prima che la Corte italiana si pronunciasse, il Tribunal constitucional del Portogallo, in una situazione normativa sostanzialmente analoga alla nostra, assumeva un atteggiamento del tutto opposto, ritenendo legittima una legge sul matrimonio tra persone dello stesso sesso. La sentenza italiana è stata criticata da due punti di vista. Si doveva partire dall’articolo 3 della Costituzione, quello sull’eguaglianza, per ricostruire il significato e la portata dell’articolo 29, quello che disciplina il matrimonio: e, invece, si è fatto l’opposto. Inoltre, l’istituto matrimoniale è stato ricostruito guardando al codice civile, contrastando l’attitudine dinamica presente negli orientamenti della Corte proprio nella materia familiare, tanto che al legislatore sono stati rivolti inviti a tener conto delle dinamiche sociali e culturali che interessano la famiglia. La strada aperta dalla Corte costituzionale, quindi, è stata ritenuta inadeguata, persino inaccettabile, perché, prospettando solo l’ipotesi di un matrimonio di “serie B”, darebbe vita a una rinnovata forma di segregazione. Ma una ripresa del tema generale delle unioni civili, comprese quelle omosessuali, aprirebbe comunque una fase diversa.

Gravi, infatti, sono il silenzio e l’inerzia del Parlamento: scomparsa ogni iniziativa, sia pur pallidissima, sulle unioni civili; bloccate le norme contro l’omofobia. Intanto nel paese dilaga l’aggressione verso l’altro, il diverso, la persona da respingere, recidendo legami sociali, cancellando solidarietà, piegando il linguaggio a ogni forma di rifiuto e di intimidazione. Il diritto e la politica possono riscattarsi dal loro “abominio” (così è stato scritto) solo imboccando la strada obbligata del rispetto delle indicazioni costituzionali, evitando che rimangano silenti e inattuati diritti fondamentali delle persone. Proprio perché oggi i tempi non sembrano propizi a mutamenti di rilievo, anche da una sentenza “pilatesca” possono essere tratti spunti significativi per una azione politica e giuridica volta a rimuovere ostacoli esplicitamente dichiarati incompatibili con la Costituzione. Affrontando la questione senza pregiudizi ideologici e fondamentalismi, l’unica linea legittima è quella della politica “costituzionale”, ormai delineata e che non è lecito ignorare. L’intera materia delle unioni non coniugali può essere così avviata verso soluzioni compatibili con la civiltà, con il necessario e profondo rispetto dell’altro, appunto della sua dignità sociale.

Nessuno può disinteressarsi di questo tema considerandolo affare altrui. Intervistata da “The New York Times”, Martha Nussbaum ha detto: «Se mi risposerò, sarò preoccupata del fatto che sto godendo di un privilegio negato alle coppie dello stesso sesso».3 Anche la più intima tra le decisioni non può farci distogliere lo sguardo dal vivere in società, dalla condizione e dai diritti di ogni altra persona, lontana o vicina che sia.

 



[1] J.-P. Sartre, Réflexions sur la question juive, Morihien, Parigi 1946.

[2] Gruppo di studio sulla bioetica, Riconoscere le unioni omosessuali?, in “Aggiornamenti sociali”, 6/2008, disponibile su qui.

[3] D. Solomon, Gross National Politics. Questions for Martha Nussbaum, in “The New York Times”, 10 dicembre 2009.