Le reazioni sociali alla crisi cognitiva

Di Carlo Donolo Martedì 21 Giugno 2011 15:08 Stampa

Quali sono le ragioni delle recenti proteste giovanili, e specialmente di quelle della forza lavoro scolarizzata e precarizzata? Esse affondano le radici nella crisi cognitiva che è la chiave per comprendere la sindrome del declino italiano ed europeo. Difficile farsi ascoltare e trovare ascolto in una situazione bloccata tra bassa crescita e alto debito pubblico.

Nuovi soggetti, nuovi conflitti

Nell’ultimo anno abbiamo visto agire sulla scena pubblica alcuni movimenti inediti: studenti, ricercatori, precarizzati di vario genere, donne (in questo caso anche con un’intensa dialettica interna tra femminismo vecchio e nuovo). Su un diverso versante il conflitto industriale, legato al salvataggio di aziende, ma anche a una regressione sistematica delle tutele, ha assunto nuove configurazioni, attivando una profonda revisione delle culture sindacali, che è ancora in corso. Si dovrebbero aggiungere a questo panorama di conflitti sociali le numerose sindromi NIMBY diffuse nel territorio e sempre più articolate nelle loro ragioni, come anche le proteste legate al malgoverno dei rifiuti in Campania e non solo. Questa breve rassegna ci dice che la società non è così passiva come potrebbe sembrare, e che forze reattive sono in moto. Per non dire delle infinite micropratiche di democrazia partecipata e deliberativa, che perlopiù non escono dal livello locale, e che sono ormai ben documentate (basti vedere i siti di Labsus o di Cittadinanzattiva). Nel valutarle certo pesa il quadro generale, segnato da declino, rassegnazione, frustrazione e impotenza. Dominano passioni tristi nel senso comune e nell’opinione pubblica. Di conseguenza questi movimenti alla superficie o nel profondo della società possono essere o sopravvalutati o viceversa ritenuti marginali. Con buone ragioni per entrambi i giudizi. Si può capire qualcosa di più?

Per quanto riguarda il ruolo dei giovani nelle società contemporanee occorre poi tener presente la primavera dei paesi arabi, che vede protagonisti giovani uomini e donne, scolarizzati e digitalizzati, mentre da ultimo è di grande interesse in un paese in crisi profonda come la Spagna l’emergere di un movimento di “indignati”. Il dato di base comune è che i “giovani” (coorti di età anche molto distanti: tra i quindici e i quarant’anni) ovunque sono vittime di mancanza di futuro e i loro progetti di vita urtano contro le barriere del “sistema”. Questo è caratterizzato dai vincoli globali alle politiche nazionali, dalla carenza di risorse per investimenti cognitivi, dalla drastica contrazione degli spazi di opportunità. Sono tratti condivisi da paesi a diversi stadi di sviluppo, ma tutti sottoposti ai vincoli della governance globale. Che si traducono in una dipendenza della politica dalla finanza, e nel disinvestimento sui processi di capacitazione. Nei paesi più sviluppati è in questione la natura stessa della democrazia, le sue promesse non mantenute. Nei paesi arabi e in Africa senza democrazia è ormai evidente che non è possibile sviluppo e quindi futuro per le giovani generazioni.

Dal disagio alla voce

Venendo all’Italia, teniamo presenti alcuni dati di base:[1] tasso di disoccupazione, disoccupazione giovanile e soprattutto femminile, tasso di precarizzazione, lavoratori in cassa integrazione, tagli alle spese per politiche sociali, sanitarie e per la formazione e la ricerca, sottoccupazione generalizzata, deficit strutturali nei processi formativi. La sindrome italiana, in questa lunga crisi che non è tanto economica quanto di riposizionamento strategico del sistema Italia nell’economia globalizzata, consiste innanzitutto nella svalorizzazione sistematica di ogni risorsa che sarebbe utile sia per l’accumulazione sia per lo sviluppo sostenibile.

La prima risorsa svalorizzata, sprecata, disinvestita è la conoscenza, e questo in una società che è arrivata tardi alla scolarizzazione di massa e con molti analfabeti di ritorno, e in cui la TV commerciale ha svolto il ruolo che altrove spetta alla scuola. Le numerose eccellenze scientifiche o di altra natura che pure persistono sono dovute a un capitale cognitivo, culturale e sociale di lunga durata ma vistosamente in via di esaurimento. Del resto la totale mancanza di prospettive, non solo per le giovani generazioni ma anche per gran parte delle coorti intermedie dai trenta ai quarantacinque anni, crea nella società un buco incolmabile. Lo stesso dicasi per quel dato agghiacciante: quattro milioni di persone che non studiano e non lavorano, e questo proprio in una fase decisiva della loro socializzazione. Va detto che questa sindrome è destinata a durare, oltre Berlusconi, negli esiti perversi delle sue scelte, come del resto in tante aporie e superficialità delle riforme dello stesso centrosinistra.

Il riformismo italico finora si è appoggiato per darsi un’aria di famiglia agli esiti dei riformismi europei, comunque ben più solidi. Inoltre pallide imitazioni neolib e socialdemocratiche non hanno aiutato a capire dove andiamo e perché, e se possiamo avere un futuro decente o no. Queste valutazioni possono apparire troppo drastiche, ma riflettono il senso comune diffuso proprio nei movimenti che analizziamo. Non c’è solo la reattività al berlusconismo e ai suoi esiti più oltranzistici, ma evidentemente anche la consapevolezza che il riformismo non sta producendo un bel niente, avendo ceduto su tutto, dal finanziamento pubblico alla scuola privata, a riforme e controriforme della scuola e dell’università finalizzate a renderle più aziendali sotto la maschera dell’Europa e sempre in un regime di risorse decrescenti. Il primo discrimine per un futuribile riformismo sarà allora questo: non più riforme senza risorse aggiuntive, dato che abbiamo paradossalmente accumulato solo svalorizzazioni e disinvestimenti. Le voci dei movimenti vorrebbero bensì interloquire con i partiti progressisti, ma raramente ottengono poco più che un ascolto retorico e vaghi impegni. La loro dinamica futura dipenderà anche da questa capacità di ascolto, e soprattutto dalle risposte fornite.

La natura della crisi

Il disagio di cui stiamo parlando va collocato nel quadro generale di una crisi cognitiva del paese.[2] Si ha crisi cognitiva quando una società perde il suo orientamento verso il futuro, cessa di nutrire speranze fondate, si adagia sulle rendite acquisite. Quando si spaventa di fronte alle nuove sfide proposte da un mutamento globale che investe ogni aspetto del reale. Quando la mente individuale e collettiva, anche quella rappresentata dalle istituzioni e dai corpi collettivi, rinuncia a o addirittura si rifiuta di portarsi al livello di complessità e di competenza richiesto. Quando le risorse normative, motivazionali e cognitive pur esistenti vengono sistematicamente svalorizzate.

Il tremontiano «Delle spiagge me ne frego!» implica che i beni ambientali e culturali non meritano cura, che le conoscenze relative sono inutili, che quello che conta non è il sapere ma il denaro, e questo in una economia che comunque è costretta a diventare sempre più cognitiva. La crisi cognitiva riguarda anche i sentimenti collettivi, il prevalere di emotività irrazionali tra invidia, rancore e paura, o tra rassegnazione e frustrazione. I timori, pur giustificati, riguardo a tanti aspetti del futuribile non vengono elaborati razionalmente e con cognizione di causa, ma mobilitati in senso distruttivo, e per molti aspetti anche autodistruttivo. Ce lo dicono il leghismo, le varianti del populismo, le sindromi xenofobe, le nuove superstizioni che dilagano, la cultura dello “sballo”, l’abnorme consumo di droghe, le dipendenze di ogni genere ormai massificate, e altro ancora. Si dice appunto che la cultura razionalistica dell’area progressista non sarebbe in grado di intercettare queste passioni tristi proprio perché limitata dal suo “illuminismo”. Magari ne avesse! Si avvertono la diffusa sensazione e l’esperienza di un blocco, di una stasi, di un ostacolo allo sviluppo. E mentre si cammina sul posto si consumano speranze, competenze, capitale morale e sociale non più facilmente ricostituibili, così come si consumano in modo irreversibile suolo e ambiente, e si gestiscono male tanti beni culturali di eccellenza (ma Pompei non è uno scandalo internazionale?). Nuove soggettività cercano di articolare questo disagio, da loro stesse posto nel quadro di una stasi nella costruzione della società della conoscenza, anzi in molte aree in un evidente regresso (con riforme malintenzionate e peggio implementate, con tagli indiscriminati per radere al suolo le isole di resistenza cognitiva e anche morale al modello egemone, che ha baricentri eterogenei ma convergenti: egoismi categoriali e territoriali, dominio del denaro sotto la maschera del controllo dei conti pubblici, che traduce tutto in quantità monetarie, per cui, appunto, la spiaggia non conta), e un edonismo di massa illusorio per i più, ma attraente per quasi tutti. Berlusconismo e leghismo: due varianti del populismo nostrano ed europeo, legate a doppio filo a una politica di impoverimento generale e alla crescita di privilegi per una minoranza rilevante.

Nella crisi cognitiva, però, in difficoltà è proprio chi la subisce. È difficile articolare un discorso non solo di protesta ma anche corretto di critica di queste posizioni egemoni. Soprattutto dovendo partire dal basso, potendo contare ben poco su eredità pregresse. Gli argomenti vanno a radicarsi quasi subito in un discorso sui diritti costituzionali, sulle libertà civili, sugli spazi di agibilità democratica. Si tratta di una novità rilevante, perché qui viene recuperata una tradizione democratica e anche liberalradicale spesso rimossa, ma soprattutto perché non sono più validi i vocabolari della tradizione politica della sinistra. Lenin è morto con tutti i suoi derivati. Così anche i programmi di stampo socialdemocratico. Piuttosto si vanno a ripescare le tradizioni minoritarie: mutualismo, solidarismo, confederalità dal basso, culture del self-help e dell’auto-organizzazione, una cultura del fare che parte necessariamente dalle piccole cose accessibili localmente.

Tuttavia, accanto a questo atteggiamento – che al momento evita di affrontare la questione partito e democrazia rappresentativa perché non c’è ancora l’abbrivio necessario per portarsi a questo livello, con una specie di delega “sospesa” e provvisoria al PD e ai suoi alleati – sono arrivate in pieno le culture della globalità, dell’ambientalismo anche scientifico, tutte le discussioni sul modello di sviluppo, sulla sostenibilità e perfino sulla frugalità. La sintesi avviene sul terreno della società della conoscenza: scienza, tecnica, competenze, merito vanno posti al centro come fattori produttivi primari. Inoltre in un paese come il nostro essi devono legarsi strettamente alle questioni del governo del territorio come governo di beni comuni, ambientali e culturali in particolare. Perché queste sono le due risorse primarie dello sviluppo.

Ma i soggetti reagiscono in primo luogo a un aggravamento delle condizioni di vita attuali e alla crescente mancanza di prospettive. Occorrono perciò progetti i cui contenuti sono abbastanza certi e fondati, ma per i quali quasi sempre mancano o le risorse (finanziarie, ma magari anche concrete, come la banda larga) o le condizioni regolative. E tutto questo si riflette sul dibattito nei nuovi movimenti. Da un lato l’affermazione di pretese legittime, di diritti costituzionali; dall’altro un’idea di società della conoscenza che traluce, pure con difficoltà, nel mezzo delle nebbie dell’attuale regime; dall’altro ancora la difficoltà di ricavare da tutto questo un’agenda, specifica e generale insieme, da contrattare con la politica. Questo punto d’incontro resta finora quasi solo retorico, e ciò rafforza le diffidenze e le delusioni reciproche.

 

 


 

[1] Per dati più precisi si vedano le statistiche dell’Istat; T. De Mauro, La cultura degli italiani, Laterza, Roma-Bari
2010; G. Solimine, L’Italia che legge, Laterza, Roma-Bari 2010.

[2] C. Donolo, Italia sperduta, Donzelli Editore, Roma 2011.