Il mercato editoriale e la sfida della rete: disintermediazione o opportunità?

Di Gino Roncaglia Martedì 22 Febbraio 2011 17:04 Stampa
Il mercato editoriale e la sfida della rete: disintermediazione o opportunità? Foto: Jiří Churaň

I cambiamenti che il mercato editoriale sta attraversando con il passaggio al digitale della distribuzione e, in alcuni casi, dei supporti stessi per la lettura, rappresentano una sfida ma anche un’opportunità. Gino Roncaglia nel numero 2/2011 di Italianieuropei.

 

I cambiamenti che il mercato editoriale sta attraversando con il passaggio al digitale della distribuzione e, in alcuni casi, dei supporti stessi per la lettura, rappresentano una sfida ma anche un’opportunità. Tratto specifico di questa evoluzione non è la disintermediazione, ma un rafforzamento del ruolo della mediazione informativa (compresa quella editoriale), realizzata però in forme nuove.

Il mondo dell’editoria sta cambiando in maniera assai rapida: da un lato l’incontro con la rete, dall’altro la diffusione di dispositivi di lettura finalmente capaci di sfidare la comodità della carta in moltissime situazioni d’uso quotidiano hanno determinato in pochi anni un mutamento ancor più radicale di quello, pur notevole, legato al primo incontro con il mondo dell’informatica personale nella seconda metà degli anni Ottanta e nella prima metà degli anni Novanta.

Le forme e le manifestazioni di questo cambiamento sono molteplici, e riguardano tutti i settori dell’editoria. Sul versante dell’editoria libraria il fenomeno più recente – ma non certo il primo – è l’affacciarsi anche nel nostro paese della nuova realtà rappresentata dagli e-book, con i connessi problemi di scelta dei formati, gestione dei diritti, organizzazione dei contenuti. E non si tratta di un cambiamento isolato. Blog e riviste in rete affiancano ormai da diversi anni l’editoria periodica su carta, e hanno progressivamente conquistato un ruolo di grande rilievo anche rispetto a una delle principali funzioni svolte tradizionalmente dalla stampa periodica, quella di contribuire alla costituzione dell’opinione pubblica. Sul versante dell’editoria accademica e di ricerca, al fenomeno delle collezioni di testi (libri e articoli) offerte in abbonamento dalle grandi case editrici o da aggregatori specializzati si è affiancata la realtà rappresentata dalle riviste ad accesso aperto e dagli archivi aperti. E al ruolo ormai centrale assunto dal sito web per la maggior parte dei quotidiani (basti pensare al rilievo che hanno nel panorama italiano siti come quelli de “la Repubblica” e il “Corriere della Sera”) si affianca oggi una “terza forma”, intermedia fra versione a stampa e sito web, rappresentata da giornali e riviste impaginati e ripensati per la fruizione su tablet multimediali come l’iPad.

Queste innovazioni si sono sovrapposte e accavallate in tempi assai brevi, tanto da rendere difficile una descrizione esatta dello “stato dell’arte”, e ancor più difficile una previsione sull’evoluzione futura del settore. Lo spazio di questo intervento non consente certo di avventurarci su tale strada, ma offre l’opportunità per qualche considerazione su un tema che, per chi cercasse di costruire un quadro d’insieme di quanto sta succedendo, riveste certo una particolare importanza: la reale natura e portata del processo di disintermediazione informativa in corso, e le sue conseguenze sia sulla filiera editoriale, sia sulla diffusione dei testi e della cultura.[1]

Il termine “disintermediazione” è collegato a un libro per certi versi profetico: “The Next Economy”,[2] scritto nel 1983 da Paul Hawken, un autore molto impegnato sul fronte del rapporto fra commercio e ambiente. In anni più recenti, “disintermediazione” è diventata una delle parole-feticcio del nuovo web. L’idea è che gli strumenti di rete consentano agli utenti di svolgere autonomamente tutta una serie di attività che normalmente richiedevano figure di mediazione: dall’acquisto di un biglietto aereo alle operazioni bancarie, dalla prenotazione di un albergo alla denuncia dei redditi.

E in questi casi è in effetti innegabile che un processo di disintermediazione esista, e non manchi di produrre conseguenze culturali, sociali ed economiche, anche sul mercato del lavoro.

Più complessa è la questione quando abbiamo a che fare con l’idea di disintermediazione informativa. Secondo i teorici di una sorta di autonoma onnipotenza della rete nella gestione e selezione delle informazioni, non servirebbero più giornalisti (o almeno, certe figure di giornalisti), perché il citizen journalism reso possibile da blog e social network è più capillare e – grazie ai meccanismi di verifica diffusa dell’informazione – perfino più affidabile; non servirebbero più bibliotecari, perché gli OPAC (i cataloghi in rete delle biblioteche) e la disponibilità di strumenti di reference online e in prospettiva di vere e proprie biblioteche digitali ne farebbero venir meno la funzione; e, nel campo dell’editoria, non servirebbero più né librerie e librai (i libri si comprano in rete), né editori, dato che ciascuno è in grado di pubblicare e distribuire da solo i propri lavori in formato elettronico.

Questa prospettiva, presentata con accenti opposti ma argomentazioni straordinariamente simili da tecnoentusiasti e catastrofisti, nasconde a ben vedere una notevole confusione di idee. Il citizen journalism è in molti casi una risorsa preziosa, ma siamo sicuri che possa funzionare senza nessuna forma di supporto e riferimento da parte del giornalismo professionale? Siamo sicuri che abbia i mezzi per arrivare a coprire con tempestività qualunque tipo di notizia, per permettere sempre di verificarne le fonti e valutarne correttamente l’importanza, per garantirsi l’accesso a tutti i tipi di informazione rilevante? Lo scandalo Watergate sarebbe emerso? La guerra in Afghanistan sarebbe stata coperta nello stesso modo? In breve: siamo davvero sicuri che la formazione e le competenze dei giornalisti professionisti siano proprio inutili?[3]

Un discorso analogo si potrebbe fare in altri settori, ad esempio in quello della mediazione politica. Ma a noi interessano in primo luogo il campo dell’editoria e quello della lettura. E, lungi dallo scomparire, il ruolo della mediazione informativa tende in questi casi a rafforzarsi, anche se certo si sposta in parte dal mondo fisico verso la rete.

Così, ad esempio, il ruolo dei bibliotecari non solo non è venuto meno ma si è rivelato cruciale davanti al compito di aggiungere metainformazione semantica alle informazioni disponibili in rete, di orientare l’utente-cittadino all’interno di un universo informativo in perenne mutamento (anche attraverso un lavoro di information literacy, alfabetizzazione informativa più che semplice alfabetizzazione informatica), di integrare informazione a stampa e informazione online, di trasferire in digitale l’informazione disponibile su carta, di lavorare per garantire la conservazione a lungo termine anche dell’informazione in formato digitale, e così via. E d’altro canto chi dovrebbe realizzare e curare gli OPAC o – affiancando prevedibilmente figure editoriali specializzate – la gestione delle biblioteche digitali, se non i bibliotecari? Possiamo ormai dire con cognizione di causa che non solo la professione del bibliotecario non è sparita, ma che nell’era del digitale si tratta anzi di una delle professionalità più interessanti e con maggiori prospettive di sviluppo.

Più problematica è certo la situazione di librai e librerie. La necessità di luoghi fisici di vendita distribuiti sul territorio si indebolisce con la creazione delle grandi librerie online, e tende progressivamente a venir meno con il passaggio al digitale dei contenuti. L’idea del libraio-amico, lettore onnivoro e competente, capace di conoscere il cliente e di suggerirgli in maniera quasi infallibile il libro più adatto, corrisponde purtroppo sempre più – nell’era delle librerie megastore – a una sorta di mito romantico. E d’altro canto i sistemi di filtraggio collaborativo dell’informazione, che permettono a librerie online come Amazon di suggerirci i libri più interessanti sulla base dell’analisi dei nostri comportamenti d’acquisto precedenti, del modo in cui ci muoviamo nel sito della libreria, e dell’analisi dei comportamenti di lettori dai gusti simili ai nostri, si rivelano spesso sorprendentemente accurati, almeno in presenza di una larga base di utenti che gli algoritmi del sito possano “studiare”.

Difficile, dunque, che la sopravvivenza delle librerie possa affidarsi solo al libro come oggetto fisico e al fascino del libraio-amico. Una prospettiva assai più interessante potrebbe essere invece rappresentata dalla progressiva trasformazione di molte librerie in circoli di lettura e di servizio attorno al libro, in cui sviluppare anche in presenza l’aspetto sociale della lettura. Una prospettiva che potrebbe portare ad avvicinare ancor più, in futuro, librerie e biblioteche.

E naturalmente – pur di fronte a una forte tendenza alla concentrazione – crescerà lo spazio per le librerie in rete, che si trasformeranno progressivamente, come del resto ha già fatto Amazon, in piattaforme per l’acquisto e per la discussione sociale non solo per libri a stampa ma anche e sempre più per libri elettronici e contenuti digitali.

E gli editori? Saranno davvero travolti dal fai da te in rete e dal print on demand? Anche in questo caso, la notizia della morte della mediazione editoriale è a mio avviso decisamente prematura. Certo, in alcuni settori – in cui esiste a monte un meccanismo affidabile di validazione e di selezione dei contenuti – le forme tradizionali di mediazione editoriale cambieranno. In particolare, il mondo della ricerca potrà in molti casi organizzare meccanismi vantaggiosi di circolazione aperta dei propri contenuti, ad esempio attraverso il sistema già ricordato degli archivi aperti.

La situazione però cambia se dalla ricerca specialistica passiamo alla divulgazione, alla saggistica, alla narrativa, insomma all’editoria di consumo (che può in molti casi essere anche editoria di qualità) destinata al grande pubblico. Qui il discorso non è più interno a una comunità ristretta di esperti, e richiede un lavoro di selezione e mediazione editoriale assai diverso, con professionalità specifiche. È difficile immaginare che questo ruolo possa essere assunto direttamente da una sorta di “auto-organizzazione intelligente” degli utenti in rete. Certo, la disponibilità di modelli per la distribuzione gratuita dei contenuti – come le licenze Creative Commons, uno strumento giuridico di estremo interesse, che consente all’autore di conservare alcuni diritti sull’opera pur garantendone la libera circolazione (e di selezionare quali diritti conservare: attribuzione, modifica, circolazione solo in forma non profit)[4] – permette già oggi di realizzare forme di distribuzione aperta e “disintermediata” di grande rilievo. E il filtraggio collaborativo può in questi casi far emergere tendenze e prodotti “popolari” o di particolare importanza. Ma si tratta di strumenti destinati solo ad affiancare e integrare – non a sostituire – la mediazione editoriale professionale, rispetto alla quale saranno anzi possibili forme innovative di ibridazione.

Per sopravvivere al passaggio in digitale di molta parte dei contenuti, il mondo dell’editoria deve dunque imparare a muoversi anche in rete, e rafforzare anche in rete la funzione che gli è propria: offrire non solo la mera riproduzione del libro (a stampa o in digitale), ma soprattutto e in primo luogo dei servizi di mediazione informativa legati all’opera: la validazione scientifica, la buona redazione editoriale, la promozione attraverso meccanismi che ne migliorino la visibilità, la capacità di far crescere e valorizzare anche professionalmente sia i propri autori, sia i propri lettori, una linea editoriale che sia espressione di una politica culturale consapevole e condivisibile, e così via. Passata la fase del print on demand – che molti considerano la grande rivoluzione dell’editoria ma che rappresenta a parere di chi scrive piuttosto un tipico fenomeno di transizione, legato alla mancanza di buoni supporti per la lettura in ambiente digitale, e che dunque ha senso solo nel periodo (certo non necessariamente breve) di passaggio verso dispositivi di lettura e meccanismi di distribuzione più evoluti e funzionali – saranno esclusivamente queste capacità di servizio che potranno garantire non solo la sopravvivenza ma il successo di una casa editrice. Nel mondo digitale, con i limiti già ricordati, la funzione di mediazione informativa tipica dell’editore non solo non scompare ma viene esaltata: bisognerà però saperla svolgere in forme nuove.

Se lo si saprà fare, si apriranno nuovi spazi anche per la promozione e la diffusione della lettura, un campo nel quale nel nostro paese molto resta ancora da fare.[5] Politiche efficaci di promozione del libro e della lettura richiedono infatti una presenza forte, autorevole, visibile del mondo editoriale. E questa presenza richiede a sua volta editori capaci di affrontare e vincere le sfide della rivoluzione digitale, sapendone cogliere le potenzialità. L’arroccamento e le resistenze all’innovazione non danneggiano solo gli editori, ma anche il paese; al contrario, la capacità di sperimentare e di utilizzare al meglio le nuove tecnologie e i nuovi supporti non sono solo la strategia migliore per garantire la sostenibilità economica e il ruolo culturale delle case editrici, ma anche il modo più efficace per favorire la crescita sociale e civile del paese e lo sviluppo del suo mercato culturale.



[1] Alcune di queste considerazioni sono sviluppate, in forma più estesa, in G. Roncaglia, La quarta rivoluzione. Sei lezioni sul futuro del libro, Laterza, Roma-Bari 2010.

[2] P. Hawken, The Next Economy, Ballantine Books, New York 1983.

[3] Per una discussione di questi temi si veda il volume – ben argomentato pur se spesso discutibile nella radicalità delle conclusioni – di F. Metitieri, Il grande inganno del Web 2.0, Laterza, Roma-Bari 2009.

[4] Per informazioni al riguardo si veda il sito www.creativecommons.org.

[5] Per un quadro aggiornato sulla situazione della lettura in Italia si veda G. Solimine, L’Italia che legge, Laterza, Roma-Bari 2010.

 


Foto di Jiří Churaň