Le grandi sfide dell'energia: non solo costi ma anche opportunità di sviluppo

Di Paolo Guerrieri e Ludovica Rizzotti Venerdì 29 Febbraio 2008 16:53 Stampa

Sul fronte dell’energia autorevoli studi, più o meno recenti, hanno dimostrato che nei prossimi anni il sistema economico mondiale si troverà a fronteggiare due sfide epocali: la sicurezza energetica, con il rischio crescente di brusche e imprevedibili interruzioni dell’offerta; la minaccia di danni ambientali irreparabili causati dalla produzione e dall’uso dei combustibili fossili.

La maggior parte delle analisi condotte nel periodo più recente convergono nel disegnare uno scenario di riferimento per i prossimi quindici- venti anni in cui, in assenza di politiche innovative rispetto a quelle attuali, la domanda globale di energia, alimentata soprattutto dai paesi emergenti, cresce incessantemente e continua a essere soddisfatta in misura predominante (oltre l’80%) attraverso l’uso di combustibili fossili (petrolio, gas e carbone). La concentrazione della produzione e delle esportazioni di petrolio e gas in un ristretto numero di paesi dalle abbondanti riserve – in particolare paesi mediorientali e Russia – è destinata ad aumentare e non potrà che accrescere la dipendenza esterna dei paesi consumatori. In tale contesto l’insicurezza e i rischi di interruzioni improvvise degli approvvigionamenti si moltiplicheranno e diverranno sempre più preoccupanti.

Altrettanto allarmanti sono i rischi di gravi e irreversibili danni ambientali, a partire dai cambiamenti climatici dovuti all’uso di combustibili fossili. Le emissioni a livello globale di anidride carbonica (CO2), dovute al consumo di energia, cresceranno del 50% nei prossimi quaranta anni – sempre in assenza di interventi – dai 23 miliardi di tonnel late annue di oggi ai 45 miliardi del 2050, in linea con l’utilizzo crescente dei combustibili fossili e l’incremento delle emissioni provenienti dai paesi emergenti, in particolare Cina, India e agli altri paesi asiatici. Ne deriverà – sempre secondo studi rigorosi e per lo più convergenti – un aumento costante della temperatura nel corso del XXI secolo che non ha precedenti negli ultimi diecimila anni e che potrà avere effetti devastanti su vaste aree e popolazioni.

La conclusione centrale di queste analisi e proiezioni è in qualche modo scontata: le tendenze energetiche globali di medio periodo sono pressoché insostenibili e andrebbero modificate mediante interventi efficaci e tempestivi volti sia a migliorare la sicurezza energetica sia a ridurre le emissioni di gas serra.

La posta in gioco è alta. Basti pensare che per arrestare i cambiamenti climatici e contenere il riscaldamento globale al di sotto dei 2°C, soglia oltre cui il processo rischia di divenire irreversibile, sarebbe necessario ridurre le emissioni di CO2 almeno del 30% entro il 2020 e del 50% al 2050.

L’obiettivo è raggiungibile, ma per realizzarlo occorrerebbe assegnare alle politiche per l'innovazione in campo energetico il rango di priorità assoluta nei prossimi dieci anni. Anche perché non fare nulla ci costerebbe in futuro molto più di quanto non serva investire oggi per interventi efficaci.

Serve un accordo multilaterale Ma su cosa fare e come farlo ci sono ancora molte incertezze, e permangono divisioni profonde sia tra i paesi sia al loro interno in ambito tecnologico e ambientale. Tutto ciò fa sì che i risultati raggiunti fino ad oggi siano del tutto insoddisfacenti. La ratifica del Protocollo di Kyoto del 1997, avvenuta dopo lunghe e complesse negoziazioni solo nel 2004, e che comporta l’impegno vincolante da parte della maggior parte dei paesi industrializzati di ridurre nel periodo 2008-12 le emissioni di gas serra del 5% rispetto ai livelli del 1990, presenta aspetti niente affatto rassicuranti. Innanzitutto, perché prevede una riduzione delle emissioni che è largamente insufficiente a limitare in modo significativo il cambiamento climatico; in secondo luogo perchè non coinvolge in questo sforzo di riduzione i paesi in via di sviluppo, soprattutto Cina e India; ancora, perché lascia fuori paesi industrializzati di primo piano come gli Stati Uniti e l’Australia; infine perché copre soltanto un periodo limitato di tempo, e ciò che avverrà dopo il 2012 è ancora tutto da definire.

Un’altra divisione riguarda l’approccio da adottare, e contrappone quei paesi che si rifiutano – è il caso ad esempio, almeno finora, dell’Amministrazione americana – di imporre vincoli obbligatori sulle emissioni nocive, confidando su investimenti a carattere volontario per lo sviluppo di tecnologie pulite, ai paesi che ritengono fondamentale – come l’Unione europea e molti altri paesi OCSE – l’imposizione di limiti vincolanti per riuscire ad arrivare in tempi ragionevoli a quei livelli più bassi di emissione o di concentrazione necessari a stabilizzare il clima.

L’ostacolo maggiore resta comunque il fatto che la riduzione delle emissioni rappresenta una sorta di «bene pubblico» dal momento che tutti possono godere dei benefici derivanti dalla riduzione della temperatura indipendentemente dall’aver o meno contribuito a sostenere i costi necessari. Di qui il classico problema di ripartizione dei costi-benefici delle politiche da adottare per scongiurare comportamenti da free rider (da passeggero clandestino che non vuole pagare il biglietto) tra e all’interno dei paesi. La questione della ripartizione dei costi, inoltre, è aggravata dalle possibili asimmetrie dell’impatto dei cambiamenti climatici sulle aree geografiche del pianeta. Ad esempio, per quanto queste valutazioni siano soggette ad un elevato grado di incertezza, alcuni paesi potrebbero addirittura beneficiare di un clima più mite, che potrebbe ridurre gli incentivi a intraprendere azioni forti di contrasto.1 Servono così accordi internazionali tra paesi, seppur complessi e di difficile realizzazione, perché devono coinvolgere un numero di attori il più rappresentativo possibile, prescrivere impegni precisi e chiaramente definiti, consentire un efficace monitoraggio nella fase di implementazione.

A questo riguardo un primo passo nella giusta direzione è stato fatto con il Consiglio europeo di marzo del 2007. I leader dell’Unione europea, infatti, hanno assunto un impegno per raggiungere obiettivi ambiziosi nell’ambito della riduzione delle emissioni di CO2, di risparmio energetico e di produzione da fonti rinnovabili. Sono ora in corso i negoziati con la Commissione europea per la definizione dei target nazionali per assicurare la fornitura del 20% dei consumi energetici a livello UE da fonti rinnovabili nel 2020.

Un altro segnale interessante è venuto dall’ultimo vertice del G8 svoltosi in Germania, a Heiligendamm, lo scorso giugno, con l’impegno assunto da parte di tutti i grandi paesi a prendere in «seria considerazione» l’obiettivo di dimezzare le emissioni di gas serra entro il 2050. Non è stato stabilito alcun vincolo preciso, ma il fatto positivo è che tutti si siano dichiarati d’accordo sulla necessità di un negoziato globale guidato dalle Nazioni Unite che disegni il dopo-Kyoto, a partire da una conferenza dell’ONU da tenere nell’isola di Bali nel dicembre di quest’anno e preceduta da un incontro ad alto livello, sempre in sede multilaterale, a fine settembre a New York, per meglio definire l’agenda dei lavori. Il dato più rilevante è stato il consenso degli Stati Uniti, che hanno così modificato la posizione tenuta negli ultimi anni e che rifiutava l’idea di un negoziato multilaterale in campo ambientale. Anche il fatto che l’impegno sia stato sottoscritto dai cinque paesi invitati come «spettatori» all’incontro del G8, ovvero da Cina, India, Brasile, Messico e Sudafrica, è importante e va sottolineato.

Per quanto non si possa escludere di essere di fronte a ennesime vaghe promesse del gruppo dei paesi più avanzati, una strada da percorrere è stata comunque tracciata per il negoziato multilaterale. Si potrà così iniziare a verificare molto presto, già nei prossimi mesi, la serietà degli impegni assunti dai membri del G8 e soprattutto dagli Stati Uniti, senza il cui fattivo apporto – come gli sviluppi del Protocollo di Kyoto hanno ampiamente dimostrato – non è pensabile la realizzazione di alcun efficace piano energetico mondiale.

Ci sono anche opportunità da cogliere Per quanto riguarda i contenuti del negoziato multilaterale sarebbe opportuno e auspicabile che si guardasse alle esperienze dei paesi che più hanno avuto successo in questi anni nell’adozione di politiche innovative in campo energetico. I loro approcci, per quanto eterogenei e diversificati, sottolineano due aree di intervento, tra le tante, come rilevanti e in qualche modo determinanti: l’efficienza energetica mirata a ottenere minori consumi di energia per unità di ricchezza prodotta; un’ampia diversificazione delle fonti di produzione, con un ruolo importante da assegnare alle energie rinnovabili. Si tratta anche di due ambiti di iniziativa in grado di mostrare che la transizione verso un nuovo sistema di produzione dell’energia non è rappresentato solo da un aggravio di costi – pur se rilevanti – ma è in grado di aprire una vasta gamma di nuove opportunità economiche da cogliere da parte delle imprese e di interi settori.

In primo luogo, rendere la domanda di energia più efficiente ha voluto dire per alcuni paesi (ad esempio la Danimarca, che ha mantenuto i consumi stabili negli ultimi venticinque anni ed è divenuta un esportatore netto di energia) modificare i consumi di energia e quindi imporre standard minimi – naturalmente da far rispettare – diretti a favorire la maggiore efficienza di edifici, elettrodomestici, impianti industriali, mezzi di trasporto. Anche l’uso di impianti di cogenerazione, con i quali il calore generato nella produzione di elettricità viene utilizzato per riscaldare gli edifici vicini, può comportare notevoli risparmi. Ciò comporta, ad esempio, nuovi investimenti per la realizzazione di edifici a basso impatto energetico o per l’introduzione di apparecchiature elettriche a minore consumo di energia, e quindi un aggravio complessivo di spese. Ma significa anche notevoli risparmi nei consumi finali di energia e nelle risorse investite nel settore elettrico. Guardando solo al settore dell’illuminazione, che conta per il 9% dei consumi finali di energia, si potrebbero conseguire considerevoli risparmi con l’uso di lampade fluorescenti, che consumano solo il 20-25% rispetto a quelle incandescenti ma che ammontano ancora ad una percentuali minima del mercato. Alcuni paesi sono più avanti di altri su questo fronte – in Cina, ad esempio, le lampade fluorescenti sono la norma, mentre l’Australia ha deciso di eliminare la vendita di quelle incandescenti entro il 2010 – ma un accordo internazionale potrebbe permettere risparmi consistenti. I costi degli investimenti iniziali da realizzare per ridurre le emissioni possono risultare così, in molti casi, ampiamente coperti dai risparmi energetici che ne conseguono. Un ritorno ancora più ampio se si tiene conto delle nuove opportunità di produzione e occupazione che sono nate e si sono sviluppate in tutta una serie di attività industriali e di servizi connessi al soddisfacimento dei nuovi standard di efficienza energetica. Ad esempio, la General Electric, che ha posto un’attenzione particolare alle tecnologie pulite nei suoi programmi di R&S, ha quasi raddoppiato le vendite di prodotti ad alta efficienza energetica nel 2005, superando i 10 miliardi di dollari, e punta ad un ulteriore raddoppio entro il 2010.2 Tutto ciò a conferma che politiche innovative in campo energetico comportano certo dei costi ma aprono opportunità di non poco conto per un ampio spettro di imprese e settori del sistema economico. Ovviamente, le maggiori potenzialità si presentano innanzitutto nel caso dei paesi industrialmente più avanzati, che presentano i più elevati valori pro capite in termini di consumi energetici, ma non sono trascurabili anche per molti paesi emergenti, che hanno oggi raggiunto lo stadio intermedio dei processi di industrializzazione (Shi Zhengrong, uno fra i dieci uomini più ricchi in Cina, ha costruito una fortuna di 1,4 miliardi di dollari sulla tecnologia dei pannelli solari).

Le fonti rinnovabili Per quanto riguarda la seconda area di intervento, in una strategia ampia e flessibile di diversificazione nel futuro delle fonti di offerta – l’unica strada oggi praticabile per evitare il rischio elevato di puntare tutto su una o pochissime opzioni energetiche – l’utilizzo massiccio di fonti rinnovabili (eolico, solare, biomasse ecc.) appare una scelta obbligata oltre che conveniente, come dimostrano anche in questo caso le esperienze di alcuni paesi. Com’è noto, parlare di energie rinnovabili vuol dire confrontarsi con posizioni spesso estreme. Si va da chi sostiene che le energie rinnovabili sono, oggi, e resteranno, a breve e medio termine, relativamente insignificanti ai fini del soddisfacimento della domanda mondiale di energia (tanto che non vi sarebbero alternative alle fonti fossili, destinate a restare per i prossimi due o tre decenni l’unica opzione disponibile per la maggioranza delle grandi regioni del mondo), a coloro che ritengono, per contro, che le fonti rinnovabili sono in grado di soddisfare di qui ai prossimi venti anni una fetta maggioritaria dei futuri consumi energetici mondiali. Greenpeace sostiene, ad esempio, che è possibile una massiccia sostituzione dei combustibili fossili (petrolio e gas in testa) con energie rinnovabili investendo ogni anno a livello mondiale circa 22 miliardi di dollari, così da dimezzare le emissioni di gas serra del comparto elettrico già entro il 2030 e generare risparmi di costi molto superiori, pari a oltre 200 miliardi all’anno. Scenari così contrastanti dipendono innanzitutto dalle ipotesi poste alla base delle analisi e delle simulazioni effettuate. È assolutamente vero che più si estende la sostituzione delle energie tradizionali con energie rinnovabili, maggiori sono i benefici netti che se ne possono trarre a livello aggregato. L’intensità di questa sostituzione dipende però da una miriade di decisioni prese dal basso, a livello microeconomico, dai singoli investitori e consumatori di energia che rispondono alla struttura dei prezzi relativi (incentivi e disincentivi) presente sui mercati. A questo riguardo non vi è nulla di predeterminato. È vero che se persistesse l’attuale struttura di prezzi relativi vi sarebbero assai scarsi incentivi (o abbondanti disincentivi) di natura microeconomica all’utilizzo di energie rinnovabili. Basti ricordare che, secondo alcune stime, oltre 200 miliardi di dollari vengono oggi spesi ogni anno per sussidi in varie forme alle fonti di energia tradizionali (90 dei quali per il solo petrolio).3 Ma è anche vero che interventi e politiche efficaci sono in grado di modificare tale struttura di prezzi e creare incentivi (e disincentivi) microeconomici (fiscali, regolatori, finanziari) in grado di favorire la graduale sostituzione delle energie tradizionali con quelle rinnovabili. Inoltre, innovazioni tecnologiche ed economie di scala tendono a ridurre nel tempo i costi di produzione da fonti rinnovabili, modificandone la convenienza relativa rispetto a quelle tradizionali, il cui prezzo tende invece ad aumentare. Secondo alcuni studi l’energia solare sarà addirittura meno costosa di quella convenzionale prima del 2020.4

I casi di successo in Europa Una prima conferma viene da una serie di paesi che hanno messo in atto tali iniziative. Primi fra tutti, in Europa, i casi della Germania e della Spagna. La Germania in quindici anni è passata da un mercato quasi inesistente ad una posizione di leadership mondiale nella tecnologia e produzione di rinnovabili, con un’industria, in rapida crescita, da oltre 20 miliardi di euro e oltre 214.000 nuovi posti di lavoro (più che nel settore energetico tradizionale) che potrebbero diventare mezzo milione entro il 2020.5

Sempre in Germania gli incentivi creati attraverso il «Gesetz zur Neuregelung des Rechts der Erneuerbaren Energien im Strombereich» hanno assicurato, a partire dal 2000, un notevole incremento annuo della capacità di produzione di energie rinnovabili. I quantitativi di energia prodotta da rinnovabili sono più che raddoppiati tra il 2000 e il 2004 (da 13,6 a 34,9 TWH), mentre l’energia prodotta da sistemi fotovoltaici è aumentata di nove volte.

Dopo un approccio graduale condotto per prove ed errori, lo strumento decisivo utilizzato è stato uno schema di accesso garantito per ogni produttore di rinnovabili alla rete elettrica unito a un sistema di feed-in tariff estesa su un periodo di 20 anni. Questo garantisce agli investitori un orizzonte temporale sufficientemente lungo per recuperare l’investimento. Le tariffe sono differenziate per fonte e tipo di impianto, a seconda dei costi di produzione, per sostenere anche le tecnologie meno mature. Inoltre, per le nuove installazioni, è prevista una progressiva riduzione delle tariffe nel tempo, allo scopo di stimolare l’innovazione tecnologia e i guadagni di efficienza.

Queste misure sono state accompagnate da un programma di ricerca federale per tutte le tecnologie rinnovabili (per il valore di 1 miliardo di euro) e da programmi di prestiti agevolati per le installazioni, che hanno permesso più di 3 miliardi di prestiti a interessi ridotti negli anni Novanta. Nello spazio di cinque anni i costi di installazione degli impianti fotovoltaici ed eolici sono diminuiti rispettivamente del 25% e 30%, grazie agli effetti cumulati dell’attività produttiva. Allo stesso tempo l’uso di rinnovabili ha prevenuto l’emissione di 83 milioni di tonnellate di CO2 nel 2005. D’altra parte, i costi aggiuntivi sulla bolletta dei consumatori sono relativamente contenuti: su una spesa media mensile per famiglia di circa 52 euro solo un euro e mezzo sarebbe riconducibile a energia verde.

Anche in Spagna, un analogo sostegno microeconomico ha favorito la crescita di un nuovo comparto industriale, specie nei settori eolico e solare. Oltre 550 imprese lavorano nel settore eolico e le due maggiori compagnie spagnole detengono il 15% del mercato mondiale.6 La produzione di energia elettrica da fonti rinnovabili ha raggiunto il 16,6% del totale nel 2005 e il 6% circa dei consumi primari. L’obiettivo è di raddoppiare questa quota entro il 2010. Per la stessa data le proiezioni prevedono la creazione di circa 95.000 posti di lavoro e risparmi nelle emissioni di CO2 per 77 milioni di tonnellate.

Certo sono cifre assai inferiori alle iperboliche proiezioni dei più ferventi sostenitori delle energie rinnovabili, ma che dimostrano al contempo come spazi di intervento ci siano e siano ben più estesi di quelli ventilati dalle analisi più scettiche e pessimistiche. Ancora, dimostrano che al di là dei costi vi sono benefici netti da cogliere in termini di nuova produzione e occupazione che fa seguito ad un’espansione delle attività legate alle energie rinnovabili, in un’ottica di politica innovativa che persegua il fine della sicurezza energetica e della riduzione delle emissioni.

Tutto dipende dalle politiche che vengono adottate e che alla luce delle esperienze citate significano: a) imporre obiettivi vincolanti per lo sviluppo delle fonti rinnovabili e favorire la semplificazione delle procedure amministrative per i nuovi impianti; b) fissare incentivi stabili e duraturi (fiscali, regolatori, finanziari) agli investimenti nelle rinnovabili; c) rimuovere gli ostacoli di accesso alla rete per l’energia elettrica prodotta da fonti rinnovabili.

Anche l'Italia … Alla luce dei casi sin qui citati si possono fare – in conclusione – delle brevi annotazioni che riguardano il nostro paese, che è di fronte a scadenze importanti sul fronte dell’energia e dell’ambiente. Va riconosciuto al governo di aver promosso, in questo primo anno di attività, tutta una serie di iniziative sui temi dell’energia. La legge finanziaria 2007 ha previsto un’ampia serie di misure che spaziano dalla efficienza energetica agli incentivi per la riduzione di gas serra e per l’uso di fonti rinnovabili, fino al lancio di progetti per favorire lo sviluppo di una eco-industria nazionale attraverso il finanziamento di progetti di innovazione in campo energetico-ambientale.

Ma in tema di emergenza climatica la percezione è che ancora molto resta da fare. Andrebbe dato un segnale forte, anche in vista degli appuntamenti importanti che ci attendono.

Dal 1° gennaio 2008 scatta il quinquennio durante il quale il nostro paese dovrà ridurre le proprie emissioni di gas serra secondo l’impegno assunto in base al Protocollo di Kyoto, ratificato dal nostro parlamento nel giugno 2002. Abbiamo tempo fino alla fine del 2012 per ridurre le nostre emissioni del 6,5% rispetto ai livelli del 1990, che sono tuttavia aumentati nel frattempo e stanno aumentando, così da richiedere uno sforzo molto più oneroso. Nel recente Documento di programmazione economica e finanziaria si stima che per gli anni 2008-11 i costi della mancata applicazione del Protocollo in Italia rischiano di aumentare fino a 2,56 miliardi di euro all’anno.

Nel frattempo, si sono aggiunti gli impegni assunti nel Consiglio europeo del marzo scorso, con la famosa formula del «20-20-20», rispettivamente in tema di minori consumi energetici, riduzione delle emissioni, sviluppo di energie rinnovabili, che già oggi molti ritengono come assai difficili, se non addirittura impossibili da mantenere. Appare chiaro che il governo italiano deve al più presto mostrare una determinazione senza precedenti nell’affrontare tutti questi problemi, per evitare che alle fine si trasformino solo in onerosi fardelli a carico del bilancio pubblico e/o delle borse dei cittadini.

Il raggiungimento di obiettivi ambiziosi richiederebbe un impegno serio su più fronti, inclusi quello del risparmio energetico e degli incentivi per favorire lo sviluppo dell’offerta da rinnovabili. D’altra parte, i risultati del nostro sistema basato sui certificati verdi, per ora, non sembrano eclatanti, specie se confrontati con l’esperienza di altri paesi europei. Una maggiore efficacia potrebbe essere conseguita con un pacchetto coerente di politiche, volto ad affrontare i diversi aspetti della questione: incentivi per la produzione, ricerca, aspetti di regolamentazione e amministrativi. A questo riguardo l’Italia potrebbe fare tesoro delle esperienze realizzate dai paesi prima citati e in particolare dalla Germania, che peraltro sta assai meglio di noi quanto a obblighi di riduzione dei gas serra. Una revisione del sistema di incentivi che esaminasse i casi di successo e le best practices a livello internazionale potrebbe contribuire ad adottare politiche più adeguate per raggiungere gli obiettivi che ci siamo posti e a sviluppare questo settore ad alta crescita ed elevate potenzialità con importanti ricadute sul fronte degli investimenti, dell’occupazione e della tecnologia.

Pare chiaro che un fattore fondamentale di successo dei sistemi di incentivi di tipo feed-in, quale quello tedesco, sia la loro relativa semplicità e la sicurezza per gli investitori su un orizzonte temporale abbastanza lungo. A questo riguardo, l’approvazione del disegno di legge delega 691/2006 in materia di energia, attualmente al senato, sarebbe un importante passo avanti. In particolare, un apposito emendamento introduce per i produttori di rinnovabili (con impianti inferiori a 1 MW) la possibilità di scegliere, in alternativa ai certificati verdi, una tariffa fissa diversificata per fonte per un periodo di venti anni. Si tratta di un primo passo, i cui risultati andrebbero monitorati con attenzione, ma che, se inserito in una strategia coerente di politiche adeguate, contribuirebbe a stimolare lo sviluppo di un settore emergente e a trasformare in interessanti opportunità di sviluppo gli impegni assunti sul fronte della politica energetica dal nostro paese.

[1] J. Llewellyn, The Business of Climate Change. Challenges and Opportunities, Lehman Brothers, febbraio 2007.

[2] Ibid.

[3] IEA, World Energy Outlook 2006, Parigi 2006.

[4] Friedrich Erbert Stiftung, Solar Energy in Germany, marzo 2006.

[5] Germany’s Success, in M. Mendonca, Feed-in Tariffs. Accelerating the Development of Renewable Energy, Earthscan, Londra 2007.

[6] Spain’s Success, in M. Mendonca, op. cit.