Altre Rome verranno

Di Carlo Ossola Lunedì 06 Dicembre 2010 15:00 Stampa

«Altre Rome verranno, delle quali non immagino il volto, ma che avrò contribuito a formare. Quando visitavo le città più antiche, sante, ma ormai estinte, senza valore presente per il consorzio umano, mi promisi sempre che avrei evitato alla mia Roma quel destino pietrificato d’una Tebe, d’una Babilonia, o di una Tiro. Essa sarebbe sfuggita al suo corpo di pietra; essa si sarebbe composta della parola Stato, della parola cittadinanza, della parola repubblica, insomma di una più sicura immortalità. […] Roma si perpetuerà nella più modesta città ove dei magistrati si diano cura di verificare i pesi dei mercanti, di pulire e illuminare le strade, di opporsi al disordine, all’incuria, alla paura, all’ingiustizia; di reinterpretare con ragionevolezza le leggi. Roma non finirà che con l’ultima città degli uomini».
Così il monologo dell’imperatore Adriano nelle mirabili “Memorie di Adriano” (1958) di Marguerite Yourcenar. Humanitas, Felicitas, Libertas: questo – continua l’autrice – fu il lascito di Roma. E tale ideale perpetuò il Grand Tour, da Montaigne a Goethe, da lord Chesterfield a Madame de Staël. In “Corinne ou l’Italie” (1807) l’«improvvisazione» che Corinna declama in Campidoglio dà conto di secoli di tale mito di Roma: «Roma conquistò l’universo grazie al suo genio, e ne fu regina in virtù della sua libertà. Il carattere romano s’impresse sul mondo; e l’invasione dei barbari, distruggendo l’Italia, oscurò l’universo intero».
Non sono soltanto sogni romantici: ancora nell’ultimo quarto del XX secolo possiamo leggere nelle “Poesie italiane” di Iosif Brodskij: «Lesbia, Cinzia, Livia, Michelina. / […] / carne che ha acquistato eternità come l’anonimità di un torso. / Fonte d’immortalità: quelli che vi hanno conosciuto / nude, sono diventati catullo, statue, augusto, / traiano e altri ancora. Dee provvisorie! A voi sì / credere è dolce, non alle sempiterne. / […] / Io, il più mortale dei passanti tra queste rovine, / che si rizzano come costole del mondo, bevo vino / avidamente da un osso cavo, d’estate, nella sera. / […] / Guardano in su le cupole, mammelle della lupa che, allattati / i due gemelli, si è rovesciata a dormire» (“Elegie romane”, XI). E non meno «fonte d’immortalità» appare l’Italia in “Ultimo round” (1969), di Julio Cortázar contemplante le Tombe etrusche: «Un’ultima vanità trattiene le figure / la terracotta intirizzita che i tumuli / hanno protetto dai venti e dalle orde. / La sposa e lo sposo, / il cane fedele, l’anfora, / le offerte per il lento itinerario. / […] / Come piegarsi al peso vischioso dell’ombra, / consegnare tanto marmo, tanto sangue schiumoso / ai fili spezzati dell’oblìo? // Ecco perché il policromo simulacro e la vita in sospeso, / la tomba che è anche casa, / la morte divenuta consuetudine e rito. / Una ciclica festa gira sulle pareti con i suoi rossi, i suoi verdi, le sue terre ordinate. // […] // Ma il banchetto immobile continua, il viaggio continua sotterraneo, / in salvo dal cambiamento, nulla bagna / le guance brunite dal fuoco, / ignorate dal tempo nella sua corsa / in superficie, negli alberi che passano e si alternano. // Sul tumulo un pastore / canta per la brezza».
L’Italia ha camminato per secoli sopra la crosta dell’eternità: questo si è venuto a cercare da tutto il mondo: la bellezza di una «vita in sospeso, / la tomba che è anche casa», il confine che si stempera e s’annulla tra chi fu, chi è, tra la vista e la memoria, il ricordo e il sogno (ancor oggi camminando tra le balze di Volterra, vedete sul fondo salire vapori inferi: vi venne qui Dante per il suo “Inferno”? Qui soltanto, leggendolo ora, lo sapete esattamente vivo? Qui, così vero, quel “bulicame”, laggiù, è divenuto maestà di natura e non più terrore).
L’arte era la mano tesa dall’eternità al tempo presente: un lascito, un patto, un vincolo. Nelle scuole della Firenze del secondo dopoguerra, tra cumuli ancora di macerie, il sindaco La Pira distribuiva ogni anno, agli scolari della città, la plaquette descrittiva di un monumento secolare: perché tornasse a vivere prima ancora d’essere restaurato, perché fosse già futuro prima ancora d’essere tornato presente.
La responsabilità che abbiamo di siffatta eredità è immensa: la conversione all’effimero che ci è stata predicata per anni è, in Italia, degna della Caina: come l’omicidio dei più cari familiari; bisognerebbe che ciascuna delle scolaresche tornasse al Grand Tour per dare respiro al proprio animo, per calarsi e modellarsi in quella forma che varca il tempo, farsi un poco immortali con le strade che ci portano e hanno condotto generazioni e millenni. Se i turisti vengono sempre meno in Italia è anche perché non vedono più quella continuità di gesti («Sul tumulo un pastore / canta per la brezza»), non vedono più un passo che incarni secoli. Divenendo anche noi un non-luogo, i cercatori di artificiale migrano nelle molteplici Disneyland del presente: più sicuri, lì, che il passato non li interroghi.
Le testimonianze qui raccolte, nel loro impegno, nella loro autenticità, aiutano a non sentirci soltanto «eredi della sconfitta», ma semplicemente, responsabilmente, eredi.